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"1 aprile La fabbrica delle bufale", di Leonardo Tondelli

Qualche giorno fa un parlamentare – non ha importanza di che partito – ha esordito un discorso col memorabile sfondone Sarò breve e circonciso, reso celebre (credo) da Diego Abatantuono in Eccezziunale veramente. La gaffe è stata coperta dagli organi di stampa con molta più attenzione di quanta non meritasse, mettiamo, l’Accordo Commerciale Transatlantico. Ne riparlo soltanto perché oggi è il primo aprile, e molti lo celebreranno pubblicando qualche bufala pescata in giro. È una tradizione ormai antica, e forse meno inutile di quanto sembri: un’occasione per esercitare la nostra capacità di distinguere il falso dal vero, e per identificare chi tra i nostri Amici o Contatti non ne è in grado: sono quelli che oggi rilanceranno la bufala più smaccata senza accorgersene. E tuttavia.

E tuttavia proprio qualche giorno fa leggevo da qualche parte uno studio(*) che, partendo dall’impressionante mole di dati che mettiamo su internet, cercava di dimostrare da dove nascono le teorie del complotto. È una domanda interessante, anche perché chi se la pone rischia di ricadere nei confini della sua stessa ricerca (non si tratterà per caso di un complotto?).

Lo studio in questione ovviamente non commetteva quest’errore, anzi difendeva un’ipotesi affascinante: i complotti nascerebbero dai malintesi. Ogni tanto qualcuno su internet scrive una storia smaccatamente falsa, volutamente paradossale (ad esempio un popolo rettile extraterrestre ha invaso la terra secoli fa e si nasconde tra noi); qualcuno la legge, la apprezza, la segnala ai suoi contatti; la storia si propaga finché non incontra esponenti di quella minoranza statistica che non riesce a capire la differenza tra cronaca e fiction. Purtroppo sono più di quelli che crediamo, e se a loro manca il senso critico, non fa difetto l’energia per indignarsi e trasmettere la loro indignazione: una volta arrivata fino a loro, la storia si spoglia di tutti quei tratti che ci consentivano di identificarla immediatamente come finzionale, e viene irradiata sotto forma di storia vera, da condividere con chi non crede alla realtà ufficiale!!1!

Per intenderci: se oggi Jonathan Swift pubblicasse Una modesta proposta, tra qualche mese qualcuno su internet comincerebbe a parlare di un complotto di massoni irlandesi infanticidi e antropofagi. L’informazione arriverebbe a loro in modo talmente indiretto che sarebbero incapaci di riconoscere la fonte originaria anche se gliela mettessimo sotto il naso: costretti a leggere il testo di Swift, direbbero che beh, sì, è chiaro che Swift scherza, ma… sta soltanto coprendo qualcuno che i bambini li vuole cucinare lo stesso, ne ho sentito parlare su facebook.

Non so se le cose vadano sempre così, ma in certi casi mi è capitato di assistere a qualcosa di simile. C’è un gruppo cospicuo di persone, su internet, convinto che ai concessionari di slot machine sia stata “scontata” una multa di cento miliardi. Questa multa non esiste: chiunque può controllare; è vero che per una serie di infrazioni riscontrate la procura aveva quantificato un danno di 98 miliardi, ma alla fine la Corte dei Conti ha inflitto multe per 2,9 miliardi (poi ulteriormente ridotte a 600 milioni). A un certo punto qualcuno – un giornalista, probabilmente – ha iniziato a chiamare la differenza tra i 98 miliardi inizialmente richiesti della procura e i tre miliardi della sentenza uno “sconto”. È soltanto un modo di dire, che identifica un certo atteggiamento nei confronti della giustizia (l’assunzione acritica del punto di vista dell’accusa); una definizione insidiosa, perché gli “sconti di pena” esistono e sono una cosa ben diversa. È triste constatarlo, ma molti lettori non sono equipaggiati per capire la differenza. Hanno letto “sconto” e hanno capito: sconto. Da cui la legittima domanda: chi è che sconta le multe per cento miliardi? Perché già che c’è non ci sconta le cartelle equitalia? Segue l’ondata di indignazione, cavalcata con molta sapienza, tra gli altri, da Grillo e dal Fatto Quotidiano.

In questo caso nessuno si è inventato niente: è stato sufficiente distribuire una metafora a un pubblico che non sa leggere tra le righe. Purtroppo è un pubblico un po’ più folto di quanto non crediamo noi irradiatori di messaggi scritti, già frustrati dalla consapevolezza di poter comunicare soltanto col 53% dei nostri compatrioti in grado di leggere e scrivere. Stima fin troppo ottimistica, che include ancora quella percentuale che leggere sa, ma non tra le righe. Un disagio linguistico che forse non abbiamo ancora studiato abbastanza: la condizione di chi, per esempio, non è in grado di decodificare i messaggi ambigui o ironici, per limiti cognitivi o culturali. La situazione in cui negli USA, al varo di un progetto sanitario denominato Children’s Health Insurance Program (CHIP), qualche voce critica lo ha magari scherzosamente definito intrusivo come un vero e proprio “chip” da iniettare sottopelle, e qualcun altro ci ha creduto – e dopo qualche anno anche questa leggenda è sbarcata nel parlamento italiano.

Qualcosa di analogo può essere capitato allo sventurato parlamentare “breve e circonciso” – ammesso che non si tratti di un più banale lapsus. Un bel giorno, tanti anni fa, Diego Abatantuono o chi per lui inventa un gioco di parole, fondato peraltro sull’idea che il termine “circonciso” sia di uso abbastanza comune: se non sai cosa vuol dire non è divertente. Per molto tempo il gioco di parole rimane davvero divertente: milioni di fruitori lo citano alla noia. Molto presto probabilmente smette di essere divertente in quanto tale e diventa divertente in quanto citazione. Il che significa purtroppo che molti non ridono più per la battuta ma perché ridono gli altri (è la cosiddetta “soglia Ricci”, che i miei coetanei riconoscono perché divideva quelli che ridevano alla prima puntata di ogni stagione di Drive In da quelli che ridevano dalla seconda in poi; la differenza tra chi trova divertente una battuta e chi trova divertente un ritornello). Trent’anni dopo l’espressione è di uso talmente comune da potersi quasi definire una polirematica: sicché può capitare che la ripeta acriticamente anche chi non conosce il senso di “circonciso”. Questa gente vive tra noi: cerca di leggere gli stessi quotidiani e siti che leggiamo noi, ma non è un caso che si incazzi di più, o che rida più sguaiatamente alle battute, proprio come chi intuitivamente cerca di mascherare la sua incapacità di capirle.

Questa gente esiste, e oggi pubblicherà contenuti ridicoli, esponendosi al pubblico ludibrio. La questione però è molto meno divertente di quel che sembra, e forse dovrebbe stimolare un dibattito sull’atteggiamento di chi divulga notizie in rete: quanto è giusto usare l’ironia in un contesto in cui il 20% non la capisce? È chiaro che chi sta qui per far satira continuerà a farla, ma chi invece si veste di una relativa serietà fino a che punto può permettersi di usare un linguaggio figurato? Anche chi accusa Napolitano di golpe probabilmente all’inizio stava scherzando; se dopo qualche mese però si trova costretto a chiedere un procedimento di impeachment, è evidente che qualcosa sta sfuggendo di mano pure a lui. Disseminare storie false su internet è un passatempo che con gli anni mi sembra sempre meno divertente e sempre più pericoloso. È pieno di bambini, qui, e in generale di gente che si beve troppe cose. Oltre a ridere di loro, bisognerebbe preoccuparsi di fornire a loro anche qualche strumento.

(*) La cosa buffa è che non la trovo più. L’ho letta più di una settimana fa e google non mi aiuta. Possibile che me la sia inventata? Al massimo sarà la mia bufala del primo aprile.

L’Unità 01.04.14

"Scrutini salvi per decreto legge", di Alessandra Ricciardi

Rischiavano di vedersi invalidati tutti gli atti firmati, i dirigenti toscani di fresca nomina. Non solo l’assegnazione delle supplenze, per esempio, ma anche gli scrutini. Un rischio concreto, in un paese in cui il ricorso ai tribunali per ottenere «giustizia» è diventato fenomeno crescente, e dagli effetti esplosivi.
Ieri il consiglio dei ministri vi ha posto riparo approvando un decreto legge recante «disposizioni urgenti per il corretto svolgimento dell’attività scolastica». Lo aveva annunciato, il ministro dell’istruzione, StefaniaGiannini, nel corso di un vertice tenutosi la scorsa settimana al ministero con i rappresentanti di Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals-Confsal, Gilda: il decreto si rendeva necessario per evitare che da oggi partisse la procedura di licenziamento dei dirigenti del concorso toscano, annullato dal Consiglio di stato. Con conseguente caducazione degli atti firmati.

Il dicastero di viale Trastevere ha colto la palla al balzo e ha portato al cdm un decreto che assicura un paracadute non solo ai presidi della Toscana ma anche a tutti gli altri che a breve potrebbero trovarsi nella stessa situazione. La norma infatti è utilizzabile anche per i futuri, prossimi contenziosi che dovessero portare all’eventuale invalidazione degli atti firmati dai presidi che hanno vinto il concorso indetto nel 2011.

Un concorso che è finito martoriato sotto i colpi delle varie magistratura amministrative regionali, che ne hanno evidenziato più di una pecca nell’organizzazione. «Al fine di garantire l’esercizio della funzione dirigenziale a seguito di annullamento giurisprudenziale della procedura concorsuale a posti di dirigente scolastico, di cui al decreto direttoriale del 13 luglio 2011, pubblicato nella Gazzetta ufficiale, quarta serie speciale, n. 56 del 15 luglio 2011», si legge all’articolo 1 del decreto legge, «il personale in servizio con contratto a tempo indeterminato con funzioni di dirigente scolastico, a seguito della procedura concorsuale annullata, continua a svolgere le proprie funzioni, in via transitoria e fino all’avvenuta rinnovazione della procedura concorsuali, nelle sedi di rispettiva assegnazione…Sono fatti salvi gli atti adottati dal predetto personale nell’espletamento degli incarichi».

Restano a questo punto aperti gli altri problemi della vicenda presidi. Al ministero dell’istruzione non sono ancora arrivate la risposta che, attraverso l’Avvocatura generale dello stato, era stata sollecitata proprio a Palazzo Spada. Un paio di questione per tutte: in che modo far ricorreggere le prove scritte dei candidati del concorso, garantendo l’anonimato (i compiti hanno avuto ampia circolazione anche via internet); come evitare che chi ha superato gli scritti senza finire nel mirino delle contestazioni sia costretto comunque a rifare tutte le prove, con il rischio di un risultato diverso rispetto a quello attuale. Problemi che ad oggi l’amministrazione centrale non sa come sbrogliare. Così come non è dato sapere quale futuro assegnare a chi oggi fa il preside e domani potrebbe non esserlo più. Intanto però la gestione amministrativa è salva ed è stato evitato il caos ad anno scolastico in corso.

da ItaliaOggi 01.04.14

"Se l'America tassa i ricchi", di Paul Krugman

Man mano che la disuguaglianza cresce di importanza nel dibattito politico americano, cresce anche il rigetto da parte della destra. Qualcuno dichiara che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica. Qualcuno dichiara che è ingiusto, che la gente deve avere il diritto di tenersi quello che guadagna. E qualcuno dichiara che è antiamericano, che da questo lato dell’Atlantico abbiamo sempre celebrato quelli che riescono a diventare ricchi, e che insinuare che certe persone controllano una quota troppo ampia della ricchezza nazionale è in contraddizione con la tradizione americana.
E hanno ragione. Nessun vero americano direbbe una cosa come questa: «L’assenza di efficaci limitazioni a livello statale, e soprattutto nazionale, contro un arricchimento iniquo tende a creare una classe ristretta di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui primario obiettivo è conservare e incrementare il proprio potere »; né farebbe seguire questa dichiarazione da un appello a introdurre «un’imposta di successione graduata sui grandi patrimoni […] che cresca rapidamente in conformità con le dimensioni del patrimonio».
Chi era questo eversivo? Theodore Roosevelt, nel suo famoso discorso del 1910 sul Nuovo Nazionalismo.
La verità è che all’inizio del XX secolo, in America, molti personaggi illustri mettevano in guardia dai pericoli di una concentrazione estrema della ricchezza ed esortavano a utilizzare la politica fiscale per limitare la crescita dei grandi patrimoni. Vi faccio un altro esempio: nel 1919, il grande economista Irving Fisher dedicò gran parte del suo discorso all’American Economic Association (l’associazione degli economisti di cui era presidente) a criticare gli effetti di «una distribuzione della ricchezza antidemocratica ». E si dichiarò favorevole a proposte per limitare la trasmissione ereditaria della ricchezza attraverso pesanti imposte di successione.
E l’idea di limitare la concentrazione della ricchezza, specialmente della ricchezza ereditata, non si limitò ai discorsi. Nel suo ultimo libro, Capital in the Twenty First Century, l’economista francese Thomas Piketty sottolinea che l’America, che introdusse un’imposta sul reddito nel 1913 e un’imposta di successione nel 1916, è stata la testa di ponte della tassazione progressiva, «molto prima» dell’Europa. Piketty si spinge a dire che «le tasse confiscatorie sui redditi eccessivi» sono state un’«invenzione americana».
E questa invenzione ha radici storiche profonde nella visione jeffersoniana di una società egualitaria di piccoli contadini. Ai tempi in cui Theodore Roosevelt tenne il suo discorso, molti degli americani più attenti e riflessivi si rendevano conto non solo che la disuguaglianza estrema stava svuotando di senso quella visione, ma che l’America correva il pericolo di trasformarsi in una società dominata dalla ricchezza ereditata, che il Nuovo Mondo rischiava di trasformarsi nella Vecchia Europa. E sostenevano che le politiche pubbliche dovevano puntare a limitare la disuguaglianza per ragioni sia politiche che economiche. Com’è possibile, allora, che idee come queste non solo non siano più maggioritarie, ma che vengano addirittura considerate illegittime?
Guardate come è stato trattato il tema della disuguaglianza e delle tasse sui redditi alti durante le elezioni presidenziali del 2012. I Repubblicani sostenevano che il presidente Barack Obama era ostile ai ricchi. «Se la vostra priorità è punire le persone che hanno grande successo, allora votate per i Democratici», diceva Mitt Romney. I Democratici respingevano con veemenza (e veridicità) l’accusa. Ma Romney in pratica stava accusando Obama di pensarla come Teddy Roosevelt. Com’è possibile che questo sia diventato un peccato politico imperdonabile?
A volte si sente dire che la concentrazione della ricchezza non è più un problema rilevante perché chi vince nell’economia odierna sono self-made men che devono la loro posizione ai vertici della scala sociale al frutto del proprio lavoro, non alla ricchezza ereditata. Ma è una tesi in ritardo di una generazione. Un nuovo studio degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman ha riscontrato che la percentuale di ricchezza detenuta dal supervertice della scala sociale — lo 0,1 per cento più ricco della popolazione — è raddoppiata dagli anni 80 a oggi e ormai è ai livelli di quando Teddy Roosevelt e Irving Fisher lanciavano i loro ammonimenti.
Non sappiamo quanta parte di quella ricchezza sia ereditata. Ma è interessante dare un’occhiata alla classifica degli americani più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Facendo due conti a occhio, circa un terzo dei primi 50 ha ereditato grandi patrimoni. Un altro terzo ha 65 anni o più, e quindi probabilmente lascerà grosse fortune ai suoi eredi. Non siamo ancora una società con un’aristocrazia ereditaria del denaro, ma se continueremo su questa strada lo diventeremo nel giro dei prossimi vent’anni.
Insomma, la demonizzazione di chiunque parli dei pericoli della concentrazione della ricchezza è basata su una lettura errata, sia del passato sia del presente. Discorsi del genere non sono antiamericani, anzi: fanno parte integrante della tradizione americana. E allora, chi sarà il Teddy Roosevelt di questa generazione?
©2-014 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 01.04.14

"Cambiare per fermare i populismi", di Ezio Mauro

La Patria che si sostituisce alla République, il popolo ai cittadini, la nazione all’Europa.
Questa è la lezione generale che viene dalla Francia, dopo l’avanzata del Fronte di Marine Le Pen. Ma c’è qualcosa di più, che può riguardarci da vicino, e che conviene analizzare per tempo.
Il primo dato è la spoliazione repubblicana operata dalla crisi, che mette in causa lavoro, risparmio, aspettativa di futuro, ruolo sociale, sicurezza. La reazione è di spaesamento e di abbandono, con la percezione di un impoverimento politico per l’incapacità di governare da soli fenomeni complessi come la globalizzazione, che determinano una sensazione di perdita generale di controllo. A questo sentimento di dispersione identitaria si accompagna la crisi dei canali di intermediazione e di rappresentanza, dalle categorie ai sindacati ai partiti.

SMARRITO nella solitudine repubblicana, il cittadino ritorna individuo: e deve fronteggiare privatamente le nuove paure pubbliche che la crisi ingigantisce e che nessuna cultura comunitaria ha avuto il tempo e il modo di elaborare, riducendole a politica e smitizzandole.
Bisogna avere il coraggio di ammettere che la destra è più attrezzata a cavalcare questa onda d’urto che frantuma identità e appartenenze. Anzi il più attrezzato è un populismo-nazionalista che unisce modernità e tradizione nella coltivazione delle paure, rinchiudendole dentro frontiere immaginarie innalzate contro la nuova sfida transnazionale e globale. Per essere più esatti siamo davanti alla crescita di forze che si presentano come “né di destra né di sinistra” (la definizione preferita che Marine Le Pen dà oggi del Fronte) o addirittura come il superamento della dicotomia del Novecento (il Movimento 5 Stelle). Come tali queste forze uniscono un culto strumentale della tradizione ad una critica radicale della globalizzazione che porta con sé una denuncia degli esiti estremi del capitalismo finanziario e del liberismo selvaggio, che la sinistra non sa più fare.
Questo profilo ideologico apparentemente costruito sul superamento delle famiglie culturali del secolo scorso (e delle loro proiezioni terrene, politiche) porta davanti a noi soggetti che si presentano come nati dal nulla, o comunque ri-generati dall’esplosione del vecchio sistema, dunque “vergini”, quindi innocenti e per definizione incolpevoli, proiettati soltanto nel mondo che verrà e anzi unici custodi del focolare dell’appartenenza identitaria, i soli capaci di custodirla nel passaggio dal vecchio al nuovo. Movimenti che hanno per conseguenza un unico vero comandamento generale: la sfida al sistema nel suo insieme, quindi una lettura della realtà politica che faccia sempre e comunque di ogni erba un fascio, che non distingua tra le storie e le culture politiche e che consenta ai populismi di presentarsi non come uno sfidante tra vari competitori, ma come “la sfida” vera e propria all’intero sistema ridotto a un insieme da distruggere, perché da questa prospettiva nichilista di sostituzione totale non c’è niente da salvare.
Covano nei nuovi populismi elementi culturali da tea party, com’è evidente, o da moderna rivoluzione conservatrice europea, che usa gergalità di sinistra e modalità radicali mosse da un’autentica anima di destra nel senso che Salvemini dava al “disprezzo per la democrazia” o che Croce attribuiva alla “feroce gioia” contro le istituzioni. È la rivincita contro l’occidentalizzazione del mondo, che va in crisi proprio da noi, in Europa. L’irrisione dei grandi racconti della modernità, considerati superati come i concetti e le definizioni che hanno prodotto. Anzi, è la fine del moderno in politica, con la crisi delle categorie classiche che l’hanno interpretata per oltre un secolo. Viene alla luce una novità: una speciale modalità del populismo di essere “popolare”, cioè di adulare il popolo rappresentandolo nelle sue paure e nei suoi fantasmi, ma anche nella sua proletarizzazione culturale, con la perdita di riferimenti e di meccanismi di lettura e di interpretazione del contemporaneo, senza più categorie del reale.
Il populismo chiede una relazione empatica, dunque anche d’istinto. Più che elaborare le paure, le stereotipizza, facendole diventare soggetti politici minacciosi, dunque bersagli. In cambio promette protezioni primitive organizzate ognuna sempre attorno al concetto delle frontiere, immaginarie o reali, storiche o culturali: perché il nemico è tutto ciò che è transnazionale, che si muove da un mondo all’altro e li attraversa tutti d’abitudine, l’immigrazione naturalmente, ma anche le élites, il cosmopolitismo, l’euro, l’Europa e la globalizzazione. La risposta è la chiusura in una sicurezza immaginaria, separata e isolata, antica e autarchica con le monete di una volta, le barriere e i confini, gli Stati teorizzati come pure comunità di discendenza, il welfare riservato agli indigeni, i diritti degli altri che pagano dogana.
È la risposta più radicale di fronte all’impatto radicale della crisi. La Francia segnala al continente (e all’Italia in particolare) questa sfida e anche un altro pericolo, nuovissimo e di grande portata: l’impotenza del riformismo. Il rischio cioè che la sinistra di governo, alla fine del suo lungo travaglio, non sia in grado di trovare in se stessa gli elementi per una lettura altrettanto radicale della fase e per una proposta di contromisure forti, e finalmente diverse dall’antipolitica crescente. Come se le vecchie parole della tradizione riformista fossero inservibili, mentre invece il concetto di uguaglianza potrebbe essere la leva politica da cui ripartire, nel momento in cui le disuguaglianze sono la cifra dell’epoca. Come se, soprattutto, riformismo equivalesse a moderatismo, incertezza identitaria, accettazione di un’egemonia culturale altrui, mancanza di autonomia politica, dispersione nel senso comune dominante.
E invece governare oggi significa cambiare, radicalmente. Il Paese è esausto nella sua forma di sistema, esasperato nella sua forma d’opinione. Questo esaurimento non è solo un problema di efficienza perduta, sta diventando un problema di democrazia rinnegata. Il cambiamento — cioè la riforma del sistema — è lo strumento più radicale che la sinistra ha a disposizione per fronteggiare la vera sfida politica che ha davanti a sé con il nuovo populismo antipolitico. È l’unico modo per ricostruire un circuito di fiducia tra le istituzioni e il Paese, tra i cittadini e la politica. Perché provare a cambiare davvero un Paese — soprattutto se pare irriformabile come il nostro — è più utile che prenderlo a calci, scommettendo ogni giorno sul peggio.

La Repubblica 01.04.14

"Lo spettro che si aggira sulla ripresa", di Carlo Bastasin

Con un’inflazione vicina a zero, in Italia è ora allo 0,4%, e una crescita potenziale a livelli simili, adempiere agli impegni di riduzione del debito pubblico italiano non è possibile. Nei primi due anni, per esempio, sarebbero necessari surplus primari pari a un totale del 5% del Pil in più del previsto. L’esperienza del 2011-2012 in Grecia e in Italia ha dimostrato che correzioni di bilancio molto rapide e di dimensioni superiori al 4% hanno effetti controproducenti. A seguito dell’aumento delle tasse e dei tagli alle spese, il Pil scende e il debito aumenta ulteriormente e tutto ricomincia da capo in condizioni peggiori. Quando questo avviene, gli inasprimenti fiscali vengono percepiti come permanenti e non più come transitori, così imprese e famiglie riducono investimenti e consumi, aggravando ancora la recessione.
Nemmeno le riforme strutturali funzionano bene in tali circostanze, perché il quadro macroeconomico ha un effetto non trascurabile sulla loro riuscita. Si può per esempio facilitare in varie forme l’impiego di nuovi lavoratori, ma non è detto che ci sia qualcuno che voglia assumere quando l’economia è ferma. Inoltre l’assenza di inflazione rende difficile spostare le attività da settori in declino, o dalle rendite, ai settori che esportano. Se i prezzi sono vicini allo zero, i settori che devono ridimensionarsi devono avere prezzi negativi, ma questo crea aspettative di deflazione che frenano la domanda anche di quei settori che invece potrebbero crescere.
Sembra paradossale parlare di scenari così preoccupanti in giorni in cui affluiscono grandi quantità di capitali verso l’area euro, arrivando finalmente anche in Italia.

I titoli pubblici vengono collocati facilmente e lo spread scende, ma c’è qualcosa di spietato nell’algebra, come nella forza di gravità, bisogna vivere su un altro pianeta per far finta che non esista. Infatti l’afflusso di capitali rafforza l’euro, i beni importati costano meno e ciò accentua la disinflazione.
È evidente che la Bce deve intervenire. Le aspettative di inflazione stanno sfuggendo di mano e la domanda di attività in euro che viene dall’estero non può che essere soddisfatta attraverso la creazione di nuova liquidità, oppure finirà per rafforzare ancora l’euro. All’interno della Bce tuttavia esiste una resistenza ad agire che deriva dalla natura delle misure non convenzionali che dovrebbero essere intraprese. Poiché la disinflazione e la bassa crescita sono anche conseguenza della carenza di credito in alcuni Paesi, gli interventi sulla liquidità non sarebbero “impersonali”, non riguarderebbero cioè tutte le banche e tutti i Paesi, ma solo alcuni. Anzi le misure più efficaci – l’acquisto di titoli dei Paesi in cui il credito si è fermato – beneficerebbero proprio quei Paesi che dal punto di vista politico-economico hanno più compiti da fare. Data l’esperienza italiana dell’autunno 2011, c’è chi teme che se la Bce risolvesse i problemi di credito italiani, dando alla domanda un po’ di vento nelle vele, il governo rallenterebbe le riforme. In tal caso, i problemi sarebbero solo rinviati nel tempo.
Jens Weidmann, il capo della Bundesbank, ha offerto il 21 febbraio un’interpretazione riduzionista della situazione, definendo la politica monetaria attuale già accomodante. Ha osservato che tutt’al più è possibile non neutralizzare la liquidità immessa ogni volta che la Bce acquista titoli. Ha infine aperto uno spiraglio all’allentamento quantitativo che alla Bundesbank appare un programma meno mirato a singoli Paesi e in quanto tale più accettabile alla luce delle sentenze della Corte costituzionale tedesca. Ma l’allentamento quantitativo potrebbe essere troppo generico per risolvere gli specifici intoppi nel mercato del credito che frenano l’area euro. L’alternativa sarebbe un Omt, cioè un programma di acquisto di titoli di un singolo Paese, condizionato a un programma di riforme concordato dal fondo salva stati (Esm). Quest’ultimo è un programma che l’Italia vuole evitare per non doversi sottoporre a tutela esterna.
Così il cerchio si chiude tornando alle riforme italiane. Se il governo le realizza, sarà più facile che la Bce approvi aiuti mirati ai problemi italiani. Ma naturalmente c’è un’ulteriore complicazione. Le riforme di cui si discute all’Eurogruppo e all’Ecofin sono diverse da quelle del passato. Se un tempo si trattava di misurare le riforme in termini quantitativi (per esempio i risparmi sulle pensioni future), ora le riforme sono spesso qualitative: la giustizia, il sistema elettorale, l’efficienza della pubblica amministrazione. Sono indispensabili alla crescita, ma non di facile misurazione. Non sarà agevole farle accettare ai partner come basi oggettive del risanamento. Per questa ragione è almeno necessario che sia verificabile la scadenza delle loro realizzazioni. In tal senso era buona l’idea del presidente del consiglio di scadenzare mese per mese il programma di riforme. A febbraio le riforme costituzionali, a marzo quella del lavoro, ad aprile la Pa. E a maggio il fisco. Ma anche i calendari, come l’algebra e la forza di gravità, sono spietati.

Il Sole 24 ore 01.04.14

Treno per Auschwitz, Ghizzoni “Quelle storie che ci appartengono”

La deputata modenese del Pd saluta i ragazzi che salgono sul treno diretto a Auschwitz. La deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera, saluta i ragazzi che martedì 1° aprile saliranno sul treno diretto ad Auschwitz, il progetto promosso dalla Fondazione ex Campo di Fossoli e giunto ormai alla sua decima edizione. Ecco la sua dichiarazione:

«Ragioni organizzative impongono, ancora una volta, che il treno parta non a ridosso del Giorno della memoria, ma qualche settimana dopo. Eppure il grande valore dell’idea che sta alla base del progetto non viene scalfito: ripercorrere in treno quel lungo viaggio che dal campo di transito di Fossoli portava ai campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau, quel viaggio dell’orrore che il Novecento, così apparentemente “moderno” e così temporalmente vicino, ha saputo partorire. Come ogni anno, desidero augurare “buon viaggio” ai ragazzi delle scuole superiori che si accingono a vivere un’esperienza che, sono certa, rimarrà a lungo nei loro cuori, oltre che nei loro occhi e rappresenterà un pilastro della loro coscienza civile. Credo che questo viaggio e l’accurata formazione che lo precede possano essere uno dei rimedi possibili ai due grandi rischi che oggi corrono le iniziative legate al ricordo della Shoah: da una parte quello che sia la retorica – e la celebrazione legata ad un giorno particolare – a sterilizzarne gli obiettivi istitutivi e, dall’altra, il come fare memoria dopo la scomparsa dei testimoni diretti. Sulla prima questione ci mette in guardia, con lucidità, il recente pamphlet di Elena Loewenthal che, ben oltre i momenti istituzionali, impone a tutti noi di praticare costantemente l’esercizio critico profondo, per comprendere come e perché l’Europa da culla del diritto sia potuta diventare sede in Terra dell’inferno. L’autrice tedesca Monika Held aggiunge un altro tassello: “Tutte le storie appartengono a tutti perché nessuna vada perduta”. Ebbene, voi ragazzi, oggi vi accingete a rivivere alcune di quelle storie di vita vissuta e di morte: d’ora in avanti esse apparterranno anche a voi e l’auspicio è che voi stessi, con la vostra nuova consapevolezza di quello che è stato, sarete il miglior antidoto affinché ciò non torni ad accadere».

Renzi: «No, il Senato non sarà più elettivo», di Aldo Cazzullo

«Il Senato non deve essere eletto, se non passa la riforma finisce la mia storia politica. Se Pera o Schifani avessero lanciato avvertimenti come Grasso, la sinistra avrebbe fatto i girotondi sotto Palazzo Madama». Matteo Renzi, in un’intervista al Corriere, reagisce così alle parole del presidente del Senato sulla riforma. «Basta con i professionisti dell’appello – insiste -, ho giurato sulla Costituzione non su Rodotà e Zagrebelsky. Se vogliamo ribaltare burocrazia ed establishment dobbiamo partire dalla politica».

Matteo Renzi, il presidente del Senato è contro la sua riforma costituzionale. La leader della Cgil è contro la sua riforma del lavoro. Più in generale, l’impressione è che l’establishment, il sistema, non sia entusiasta dell’esordio del suo governo.

«L’impressione è che se ne siano accorti, che facciamo sul serio. Ci hanno messo un po’, ma se ne sono accorti. Domani (oggi per chi legge) presenteremo il disegno di legge costituzionale per superare il Senato e il titolo V sui rapporti Stato-Regioni. Sarà uno spartiacque tra chi vuole cambiare e chi vuole far finta di cambiare. Entriamo nei canapi. Vedremo chi correrà più forte».
Le rimproverano proprio questo: l’impazienza, la precipitazione.

«Sono trent’anni che si discute su come superare il bicameralismo perfetto. Questo stesso Parlamento doveva approfondire il tema con la commissione dei 42. Non è più possibile giocare al “non c’è stato tempo per discutere”. Ne abbiamo discusso. Venti giorni fa, nella conferenza stampa su cui avete tanto ironizzato, quella della “televendita”, abbiamo presentato la nostra bozza di riforma costituzionale. L’abbiamo messa sul sito del governo. Abbiamo ricevuto molti spunti e stimoli, anche da Confindustria e Cgil, gente che non è che ci ami molto. Abbiamo incontrato la Conferenza Stato-Regioni e l’Anci. Abbiamo fatto un lavoro serio sui contenuti. Ora è il momento di stringere. Il dibattito parlamentare può essere uno stimolo, un arricchimento. Ma non può sradicare i paletti che ci siamo dati» .

Quali sono i punti irrinunciabili del vostro disegno di legge?

«Sono quattro. Il Senato non vota la fiducia. Non vota le leggi di bilancio. Non è eletto. E non ha indennità: i rappresentanti delle Regioni e dei Comuni sono già pagati per le loro altre funzioni».
L’elezione diretta dei senatori è il cardine della proposta di Pietro Grasso. E anche Forza Italia pare d’accordo.

«L’elezione diretta del Senato è stata scartata dal Pd con le primarie, dalla maggioranza e da Berlusconi nell’accordo del Nazareno. Non so se Forza Italia ora abbia cambiato idea; se è così, ce lo diranno. L’accordo riduce il costo dei consiglieri regionali, che non possono guadagnare più del sindaco del comune capoluogo. Elimina Rimborsopoli. È un’operazione straordinaria, un grande cambiamento. È la premessa perché i politici possano guardare in faccia la gente. Se vogliamo eliminare la burocrazia, le rendite, le incrostazioni, la logica di quella parte dell’establishment per cui “si è sempre fatto così”, dobbiamo dare il buon esempio. Dobbiamo cominciare a cambiare noi. Con la legge elettorale, con l’abolizione delle Province, con il superamento del Senato. Rimettere dentro, 24 ore prima, l’elezione diretta dei senatori è un tentativo di bloccare questa riforma. E io domani (oggi, nda ) la rilancio. Scendo io in sala stampa a Palazzo Chigi, con i ministri, a presentarla».

Sarà un altro show?
«Ma no, lascio fare a loro. Però scendo anche io, ci metto la faccia. Quel che dev’essere chiaro è che su questo punto mi gioco tutto».

Sta dicendo che se non passa la vostra riforma del Senato cade il governo?

«Non solo il governo. Io mi gioco tutta la mia storia politica. Non puoi pensare di dire agli italiani: guardate, facciamo tutte le riforme di questo mondo, ma quella della politica la facciamo solo a metà. Come diceva Flaiano: la mia ragazza è incinta, ma solo un pochino. Nella palude i funzionari, i dirigenti pubblici, i burocrati ci sguazzano; ma nella palude le famiglie italiane affogano. Basta con i rinvii, con il “benaltrismo”. Alla platea dei “benaltristi”, quelli per cui il problema è sempre un altro, non ho alcun problema a dire che vado avanti: non a testa bassa; all’opposto, a testa alta. Noi il messaggio dei cittadini l’abbiamo capito, non a caso il Pd vola nei sondaggi: la gente si è resa conto che ora facciamo sul serio. Avanti tutta».

Ma cosa rimarrebbe da fare al Senato secondo lei?

«Il nuovo Senato non lavora tutti i giorni su tutte le proposte di legge, ma su quelle che riguardano la Costituzione, i territori, l’Europa. Vogliamo discutere una funzione in più o in meno? Benissimo».

Mario Monti propone di inserire rappresentanti della società civile.

«La proposta di Monti è dentro il pacchetto del governo, e ne rappresenta uno dei pezzi più delicati e discussi dai costituzionalisti: lasciamo ventuno senatori non scelti dalle Regioni e dai Comuni ma indicati dal capo dello Stato, in rappresentanza della società civile. Se non si deve costituzionalizzare la Camera delle autonomie, non per questo il Senato deve diventare il “Cnel-2, la vendetta”. Il Cnel è uno dei grandi fallimenti della storia repubblicana. Non a caso tentano di difendere il Cnel parti sociali e associazioni di categoria che prima ci chiedono di cambiare tutto, poi ci mandano documenti affinché tutto resti com’è».

Grasso le ha detto con chiarezza che in Senato non ci sono i numeri per la riforma che vuole lei.

«Sono molto colpito da questo atteggiamento del presidente Grasso. Io su questa riforma ho messo tutta la mia credibilità; se non va in porto, non posso che trarne tutte le conseguenze. Mi colpisce che la seconda carica dello Stato, cui la Costituzione assegna un ruolo di terzietà, intervenga su un dibattito non con una riflessione politica e culturale, ma con una sorta di avvertimento: “Occhio che non ci sono i numeri”. Mai visto una cosa del genere! Se Pera o Schifani avessero fatto così, oggi avremmo i girotondi della sinistra contro il ruolo non più imparziale del presidente del Senato. Io dico al presidente Grasso: non si preoccupi se non ci sono i voti; lo vedremo in Parlamento. Vedremo se i senatori rifiuteranno di ascoltare il grido di cambiamento che sale dall’Italia, il grido che tocco con mano con evidenza direi da sindaco quando vado in giro, quando leggo le mail che ricevo. C’è un Paese che ha voglia di cambiare. Noi al Paese avanziamo una proposta per ridurre i costi e aumentare l’efficienza della politica. Siamo disponibili a migliorarla; non a toccare i paletti concordati. Oggi vedremo se qualcuno si tirerà indietro. Lo dico per il presidente Grasso, che stimo: lanciare avvertimenti prima che la riforma vada in discussione è un autogol. Non lo dice il segretario del partito che l’ha voluto in lista, né il presidente del Consiglio. Lo dice un ormai ex studente di diritto parlamentare».

Guardi che i professori, da Rodotà in giù, le danno torto.

«Ho letto altri commenti di tanti professori, molto interessanti. Non è che una cosa è sbagliata se non la dice Rodotà. Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell’appello, senza diventare anticostituzionali. Perché, se uno non la pensa come loro, anziché dire “non sono d’accordo”, lo accusano di violare la Costituzione o attentare alla democrazia? Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky».

La sua riforma costituzionale include le norme per rafforzare i poteri del premier, compresa la revoca dei ministri?

«Ne ha parlato Forza Italia. Ma non erano nell’accordo del Nazareno, e non le abbiamo messe».

Sulla riforma del lavoro il no viene dai sindacati, e dalla sinistra del Pd. Oggi i contratti a termine possono essere rinnovati una volta sola. Con il decreto del governo potranno essere rinnovati otto volte per 36 mesi. Non significa aumentare la precarietà?

«In questo momento la vera sfida è far lavorare la gente. Oggi la gente non sta più lavorando. La disoccupazione ha raggiunto percentuali enormi, atroci. Ne parlavamo con Obama, colpito dalla tenuta sociale di un Paese con il 12% di disoccupazione. È vero che noi abbiamo un welfare molto diverso da quello americano. Ma in questo scenario io credo che ci fosse bisogno di dare subito un segnale netto sul lavoro, in particolare su apprendistato e contratti a termine. Non si utilizzi questo segnale per trasmettere un’idea sbagliata. Il nostro obiettivo è rendere più conveniente assumere a tempo indeterminato piuttosto che a tempo determinato; ma non lo si raggiunge mettendo blocchi. Si può usare la leva fiscale, e vedremo se ci sono le condizioni. E si devono modificare in modo complessivo le regole, come faremo con il disegno di legge delega. Vedo che sta crescendo l’attenzione degli investitori sul nostro Paese. Certo, è il frutto di fenomeni macroeconomici nelle Borse di tutto il mondo, delle attese sulle nostre aziende. Ma ci sono anche grandi attese sul nostro governo: che sta portando gli interessi al livello più basso da anni; che sta portando capitali non dico a investire ma ad affacciarsi sul mercato italiano. Questo lo si deve pure alla determinazione con cui abbiamo voluto iniziare dalle riforme della politica e del lavoro».

Nel disegno di legge delega ci sarà pure il salario minimo?

«Ci saranno sia il salario minimo sia l’assegno universale di disoccupazione. Ne discuterà il Parlamento, anche delle coperture. Affronteremo una delle grandi questioni del nostro Paese: trovo sconvolgente che l’Italia abbia il tasso di natalità più basso. Dobbiamo garantire le tutele della maternità alle donne che non le hanno».

È imminente una tornata di nomine: Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Poste. Ci saranno uomini nuovi?

«Illustreremo le nostre scelte nei prossimi giorni. “Uno alla volta, per carità…”».

Le privatizzazioni delle aziende a controllo pubblico andranno avanti?

«La prossima settimana approveremo il Def che individua nel dettaglio le coperture per i tagli all’Irpef, all’Irap, alla bolletta energetica delle piccole e medie imprese, e individuerà la linea d’orizzonte economica di questo governo».

Sull’economia lei non mi sta rispondendo.

«Ma se la politica dimostra di saper riformare se stessa, l’Italia diventa credibile in Europa, e anche la sua credibilità economica cresce. Il nostro pacchetto di riforme ha impressionato i partner internazionali. Quel che conta adesso non è il programma; è il crono-programma. Tutti hanno sempre detto che bisogna superare il bicameralismo e ridurre i parlamentari; ora noi dobbiamo farlo, in tempi certi. Questo crea imbarazzi e difficoltà. Ma a me non interessa il futuro di un centinaio di politici. A me interessa il futuro delle famiglie italiane. Quando vado ai vertici internazionali immagino come sarà l’Italia da qui a cinque anni. Come sarebbe bello che l’Italia fosse più semplice, più smart, più attrattiva, che spendesse meno per gli interessi sul debito e più per il futuro. Io la vedo, questa Italia. Mi pare di toccarla. Ma il cambiamento deve partire dai politici. Come puoi cambiare il Paese e l’Europa, se non hai il coraggio di cambiare il Senato?».

A che punto è la storia delle sue case? Oggi il Fatto quotidiano scrive che, prima dell’appartamento pagato da Carrai, lei a Firenze aveva affittato una mansarda «a prezzo simbolico» da Luigi Malenchini, marito di Livia Frescobaldi, nominata dal Comune nel gabinetto Vieusseux.

«Capisco il tentativo di dimostrare che tutti sono uguali. Ma cascano male. L’appartamento non era semplicemente pagato da Carrai: era di Carrai. Chi doveva pagarlo, scusi! I miei contratti, come il mio conto corrente, sono pubblici e trasparenti. Io ho una sola casa e ho il mutuo sopra. Il cda del Vieusseux, come sanno tutti i fiorentini, è gratis, e comunque le nomine sono state fatte anni dopo il periodo dell’affitto, che tutto era tranne che simbolico, tanto e vero che ho disdettato dopo un anno perché non riuscivo a pagarlo. Ma visto che è stata chiamata in ballo la magistratura, che ha aperto un fascicolo, aspettiamo e vediamo cosa diranno i giudici. Capisco l’astio, ma su queste cose con me cascano male ».

IL Corriere della Sera 31.03.14