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"Se l'America tassa i ricchi", di Paul Krugman

Man mano che la disuguaglianza cresce di importanza nel dibattito politico americano, cresce anche il rigetto da parte della destra. Qualcuno dichiara che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica. Qualcuno dichiara che è ingiusto, che la gente deve avere il diritto di tenersi quello che guadagna. E qualcuno dichiara che è antiamericano, che da questo lato dell’Atlantico abbiamo sempre celebrato quelli che riescono a diventare ricchi, e che insinuare che certe persone controllano una quota troppo ampia della ricchezza nazionale è in contraddizione con la tradizione americana.
E hanno ragione. Nessun vero americano direbbe una cosa come questa: «L’assenza di efficaci limitazioni a livello statale, e soprattutto nazionale, contro un arricchimento iniquo tende a creare una classe ristretta di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui primario obiettivo è conservare e incrementare il proprio potere »; né farebbe seguire questa dichiarazione da un appello a introdurre «un’imposta di successione graduata sui grandi patrimoni […] che cresca rapidamente in conformità con le dimensioni del patrimonio».
Chi era questo eversivo? Theodore Roosevelt, nel suo famoso discorso del 1910 sul Nuovo Nazionalismo.
La verità è che all’inizio del XX secolo, in America, molti personaggi illustri mettevano in guardia dai pericoli di una concentrazione estrema della ricchezza ed esortavano a utilizzare la politica fiscale per limitare la crescita dei grandi patrimoni. Vi faccio un altro esempio: nel 1919, il grande economista Irving Fisher dedicò gran parte del suo discorso all’American Economic Association (l’associazione degli economisti di cui era presidente) a criticare gli effetti di «una distribuzione della ricchezza antidemocratica ». E si dichiarò favorevole a proposte per limitare la trasmissione ereditaria della ricchezza attraverso pesanti imposte di successione.
E l’idea di limitare la concentrazione della ricchezza, specialmente della ricchezza ereditata, non si limitò ai discorsi. Nel suo ultimo libro, Capital in the Twenty First Century, l’economista francese Thomas Piketty sottolinea che l’America, che introdusse un’imposta sul reddito nel 1913 e un’imposta di successione nel 1916, è stata la testa di ponte della tassazione progressiva, «molto prima» dell’Europa. Piketty si spinge a dire che «le tasse confiscatorie sui redditi eccessivi» sono state un’«invenzione americana».
E questa invenzione ha radici storiche profonde nella visione jeffersoniana di una società egualitaria di piccoli contadini. Ai tempi in cui Theodore Roosevelt tenne il suo discorso, molti degli americani più attenti e riflessivi si rendevano conto non solo che la disuguaglianza estrema stava svuotando di senso quella visione, ma che l’America correva il pericolo di trasformarsi in una società dominata dalla ricchezza ereditata, che il Nuovo Mondo rischiava di trasformarsi nella Vecchia Europa. E sostenevano che le politiche pubbliche dovevano puntare a limitare la disuguaglianza per ragioni sia politiche che economiche. Com’è possibile, allora, che idee come queste non solo non siano più maggioritarie, ma che vengano addirittura considerate illegittime?
Guardate come è stato trattato il tema della disuguaglianza e delle tasse sui redditi alti durante le elezioni presidenziali del 2012. I Repubblicani sostenevano che il presidente Barack Obama era ostile ai ricchi. «Se la vostra priorità è punire le persone che hanno grande successo, allora votate per i Democratici», diceva Mitt Romney. I Democratici respingevano con veemenza (e veridicità) l’accusa. Ma Romney in pratica stava accusando Obama di pensarla come Teddy Roosevelt. Com’è possibile che questo sia diventato un peccato politico imperdonabile?
A volte si sente dire che la concentrazione della ricchezza non è più un problema rilevante perché chi vince nell’economia odierna sono self-made men che devono la loro posizione ai vertici della scala sociale al frutto del proprio lavoro, non alla ricchezza ereditata. Ma è una tesi in ritardo di una generazione. Un nuovo studio degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman ha riscontrato che la percentuale di ricchezza detenuta dal supervertice della scala sociale — lo 0,1 per cento più ricco della popolazione — è raddoppiata dagli anni 80 a oggi e ormai è ai livelli di quando Teddy Roosevelt e Irving Fisher lanciavano i loro ammonimenti.
Non sappiamo quanta parte di quella ricchezza sia ereditata. Ma è interessante dare un’occhiata alla classifica degli americani più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Facendo due conti a occhio, circa un terzo dei primi 50 ha ereditato grandi patrimoni. Un altro terzo ha 65 anni o più, e quindi probabilmente lascerà grosse fortune ai suoi eredi. Non siamo ancora una società con un’aristocrazia ereditaria del denaro, ma se continueremo su questa strada lo diventeremo nel giro dei prossimi vent’anni.
Insomma, la demonizzazione di chiunque parli dei pericoli della concentrazione della ricchezza è basata su una lettura errata, sia del passato sia del presente. Discorsi del genere non sono antiamericani, anzi: fanno parte integrante della tradizione americana. E allora, chi sarà il Teddy Roosevelt di questa generazione?
©2-014 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 01.04.14