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"La riforma del Senato in tre mosse conservando nome e tradizione", di Michele Ainis

Tre settimane fa il governo ha diffuso una bozza di riforma costituzionale. Oggi la bozza uscirà dal bozzolo, sicché vedremo di che colore è la farfalla. Mentre attendiamo il lieto evento, tuttavia, c’è già chi organizza i funerali. E infatti si moltiplicano gli altolà e gli appelli contro tale decisione. L’appello a prescindere, avrebbe detto il buon Totò. Perché fin qui ne conosciamo i contorni, non i dettagli, che in queste faccende sono invece l’essenziale.

Per esempio: quanti sindaci nel nuovo Senato? Erano 108 nella prima idea di Renzi, poi 60, magari domani diventeranno la metà. E ci sarà spazio per correzioni sui poteri del premier, oltre che sul bicameralismo e le Regioni? Infine: il governo scriverà un unico progetto oppure un paio?
Quest’ultima domanda solleva un problema di metodo, e il metodo è a sua volta essenziale. Se accorpo in un testo tutti gli interventi lo rendo più efficace, perché in una Costituzione tout se tient . Ma al primo intoppo perderò le capre insieme ai cavoli. Viceversa se scrivo testi separati ho buone speranze di comprare almeno una capretta. Inoltre non sequestro il voto degli elettori, non li costringo a un prendere o lasciare in blocco, quando verrà l’ora del referendum. Meglio quindi la seconda soluzione: dopotutto, anche nel 2001 il nuovo Titolo V sopraggiunse senza la riforma del Senato.
Ma finora il metodo è ok, per dirla con Obama. Giusto muovere da un accordo fra Renzi e Berlusconi, fra maggioranza e opposizione. Sarebbe stato bene coinvolgere pure i 5 Stelle, ma per sposarsi bisogna essere in due. Giusto mettere online la bozza provvisoria, per temprarla al fuoco della critica. Giusto anteporre la riforma del Senato a quella della legge elettorale, anche perché altrimenti l’Italicum diventa un pateracchio. E sbagliata, sbagliatissima, l’obiezione di chi obietta che questo Parlamento è delegittimato dalla sentenza sul Porcellum, sicché non avrebbe titolo per imbastire le riforme. Siccome la Consulta ha detto il contrario, l’obiezione delegittima pure il delegittimante: troppa furia. E troppo tempo, se dovessimo attendere le elezioni del 2018. Prendiamola come un elisir di lunga vita.
Però qui è in gioco la vita dei governi, non la nostra. L’instabilità deriva da un fattore istituzionale: doppia fiducia, e con maggioranze altalenanti fra Camera e Senato. Senza stabilità non c’è progetto, senza progetto non c’è soluzione ai mali dell’economia. E l’economia viene dissanguata da Regioni onnipotenti e sperperanti, come la Campania: 1,4 milioni di dollari per un appartamento a New York, dove si tengono conferenze in italiano.
Procediamo, dunque. Ma con un triplo ammonimento. Primo: non tradiamo le nostre tradizioni. A partire dal nome della cosa: Senato. Si chiamava così anche quando i senatori li sceglieva il Re, non c’è ragione di correre all’anagrafe. Semmai c’è una ragione storica per rappresentare in quel consesso (finalmente) i municipi.
Secondo: le polemiche sull’elezione indiretta. Ricordiamoci che le competenze dipendono dalla composizione, e viceversa. Se eleggi il Senato a suffragio universale, come fai a negargli il voto di fiducia sui governi?
Terzo: non trasformiamo la seconda Camera in una Camera secondaria. Oltre alle leggi costituzionali, serve un timbro del Senato su quelle elettorali, nonché su ogni materia che trovi i deputati in conflitto d’interessi: immunità, finanziamento alla politica, verifica delle elezioni. Ma intanto sono in conflitto d’interessi i senatori, dovendo decidere sull’autoriforma. Sapremo presto quanto il Senato sia assennato.

Il Corriere della Sera 31.03.14

"Elettori di sinistra in fuga: pessimo segnale per le Europee", di Paolo Soldini

Parigi resterà alla sinistra ed è già qualcosa. Il secondo round delle amministrative francesi conferma il disastro dei socialisti, l’avanzata della destra «normale» e lo sfondamento, dove si è presentato, del Front National di Marine Le Pen. Pessimo presagio per le elezioni europee ormai quasi imminenti. Un centinaio di comuni con più di 10 mila abitanti passano dalla sinistra alla destra e nell’elenco i socialisti debbono amaramente annotare città importanti come Strasburgo, Tolosa, Metz, Reims, Amiens, Roubaix e tantissimi centri più piccoli considerati, fino al terremoto di domenica scorsa, roccaforti tranquille. Tre città importanti, Bezières, Frejus e Hayange vanno al Front National, che fallisce, comunque, il tentativo di conquistare Avignone. Nella capitale però la socialista Anne Hidalgo riesce a spuntarla nonostante il salasso dei voti sottratti al PS soprattutto da un’astensione con un chiaro marchio politico e potrebbe continuare l’opera di rinnovamento e la buona amministrazione (riconosciuta dai più) del sindaco Bertrand Delanöe. Si può anche leggere il risultato in negativo: più che di una vittoria della candidata di Hollande si sarebbe trattato di una sconfitta della sua rivale, quella Nathalie Kosciusko-Morizet (NKM per chi non ama gli scioglilingua) che era stata scelta dalla destra nonostante l’handicap di essere stata la portavoce di Nicolas Sarkozy. A testimonianza del fatto che se François Hollande non attraversa un periodo facile, la memoria del suo predecessore non brilla certo nel confronto neppure a posteriori. I risultati, s’è detto, confermano sostanzialmente quelli del primo turno: l’«ondata blu» dell’Upm e il boom di FN, e pochi, d’altronde, si aspettavano sconvolgimenti ulteriori o rimonte clamorose. Il dato più interessante, però, è l’aumento delle astensioni, che a giudicare dai dati disponibili ieri sera avrebbero superato il 38%, con un incremento ben più sensibile di quello medio che si registra in ogni secondo turno rispetto al primo e che, secondo la maggior parte degli osservatori, avrebbe punito soprattutto i socialisti. È chiaro che c’è una grossa fetta di elettori francesi che si è disamorata della sinistra al governo o che ha voluto comunque darle una lezione segnalando la scontentezza per la disoccupazione che ha continuato a crescere, per i tagli nel bilancio che hanno colpito il settore pubblico, per la generale stagnazione (anche psicologica) in cui pare essersi incagliata l’economia dell’esagono. Chi prende atto di questo stato d’animo può anche consolarsi con l’idea che esso possa essere contrastato se la compagine di Hollande si mostrerà capace di riprendere l’iniziativa. Appaiono come un tentativo di risposta in questo senso le voci, che in queste ore si accavallano fino a diventare previsione sicura, sul cambio dell’uomo che è alla guida del governo, con la sostituzione di Jean-Marc Ayrault con il dinamico (e contestato) ministro dell’Interno Manuel Valls, con l’eterno Laurent Fabius o, addirittura, con lo stesso Delanöe, forse l’unico che esce da questa drammatica tornata elettorale senza essersi rotte le ossa. Non tutte, almeno.
Ma è evidente che il problema più che di uomini è di programmi. È sul piano delle scelte di governo che Hollande non si è mostrato all’altezza delle promesse con cui aveva vinto la campagna elettorale. Alcune le ha mantenute, ed è giusto dargliene atto, con una riforma fiscale che, sia pure con qualche esitazione, ha colpito le diseguaglianze più clamorose, con le misure in materia di pensioni, con il coraggio mostrato sui temi civili come il matrimonio tra omosessuali. Ma su quelle che davvero avrebbero dovuto incidere sulla sostanza delle politiche economiche della Francia e dell’Unione, quelle mirate al riequilibrio nel senso degli investimenti e della crescita dalle politiche restrittive imposte da Berlino e da Bruxelles incardinate sul Fiscal compact del quale da candidato Hollande aveva (incautamente?) annunciato la «ridiscussione», la svolta promessa non c’è stata. Magari non (o non solo) per colpa sua, ma troppo spesso l’inquilino dell’Eliseo ha dovuto piegare la testa.
Se le cose stanno così sarà molto difficile invertire la tendenza nelle nove settimane scarse che ci separano dall’elezione del nuovo parlamento europeo. L’estrema destra francese costituirà una grossa parte di quella rumorosa valanga di contestatori dell’Europa che si siederà sui banchi dell’unica istituzione europea scelta dai cittadini. I segnali che arrivano da Bruxelles dicono che non sarà facilissimo per Marine Le Pen e il suo alter-ego olandese Geert Wilders mettere in riga tutte le varie demagogie anti-euro e anti-Unione che si agitano in quasi tutti i paesi. Ma il radicamento del populismo nel suo cuore politico sarà il grande problema politico che l’Europa dovrà affrontare dopo il 25 maggio.

L’Unità 31.03.14

"La guerra energetica di ieri e di oggi", di Mario Pirani

È iniziata una nuova grande guerra energetica, diversa dalle precedenti, ma, pur sempre segnata da strategie più o meno mascherate di attacco e difesa. Come per il passato finiranno per determinare i grandi equilibri della politica interna. Ma sarà proprio così o, secondo la tradizione, le battaglie di oggi avranno contenuti assai diversi da quelli di ieri? È probabile che il copione odierno sia destinato ad essere molto diverso da quelli degli scontri passati.
Negli anni 70-90 lo scontro vedeva da un lato i socialisti e dall’altro i dc; le poste in gioco erano costituite dai permessi di costruzione di nuove grandi centrali energetiche, del controllo sulle grandi vie di comunicazione petrolifera, dalla creazione di nuovi multi centri petrolchimici, ecc. Questo fiorire di nuova industrializzazione s’incrociava coi poteri attribuiti alla Programmazione e alle Regioni, col fiorire di nuove aziende tessili, rifornite da materie prime di ultima generazione petrolifera, ecc. La politica e i nuovi capitani d’industria s’incrociavano in duelli all’ultimo sangue: Rovelli contro Ursini, Cefis contro Ruffolo e soprattutto socialisti contro tutti. Alla fine i compromessi si concludevano attorno ai tavoli del governo nelle varie istanze, si inauguravano nuove sedi, si tagliavano nastri, si ricollocavano le alleanze politiche e sindacali.
Ora tutto è diverso. Scomparsi i partiti, le influenze si sono articolate attorno a singoli personaggi e alle loro clientele più o meno ubbidienti. I contenuti della politica energetica non giocano più alcun ruolo. Contano i posti, chi li detiene e chi li distribuisce. Per questo la guerra odierna si presenta sotto vesti assai diverse.
Tra aprile e giugno dovranno essere rinnovati i Cda di 14 società direttamente controllate dallo Stato, cui si aggiungono altre 35 controllate indirettamente. Se si considerano gli amministratori delegati, i presidenti, i consiglieri dei cda e i membri dei collegi sindacali, si tratta di un rinnovo di 600 incarichi, uno dei più grandi giri di nomine degli ultimi anni. Questo riguarda un dossier molto importante per il ministero dell’Economia, se si considera che le 49 società, i cui vertici sono in scadenza, hanno un fatturato pari a 258 miliardi di euro, pari al 16% del pil.
L’attuale processo per rinnovare i cda (deciso dal governo Letta) prevede che due società di “cacciatori di teste”, selezionino delle liste di candidati che vengono successivamente poste all’attenzione di un Comitato di garanzia che ha il compito di verificare che questi rispettino i requisiti di onorabilità e professionalità.
Tecnicamente, la procedura si svolge nel seguente modo: il Mef presenta, per ogni società, una lista di consiglieri, indicando al tempo stesso chi di questi è il candidato presidente. Successivamente si riunisce l’assemblea che procede ad eleggere il cda. Sarà quindi il cda, nel corso della sua prima riunione utile, a nominare l’amministratore delegato, scegliendolo tra i suoi componenti.
Nonostante la recente normativa fissi dei criteri di trasparenza riguardo le procedure di selezione, la decisione finale si presume venga fatta in grandissima autonomia dal presidente del Consiglio sulla base di una scelta esclusivamente politica. Fino all’ultimo giorno prima della scadenza dei termini per la presentazione delle liste, nulla si sa riguardo le future scelte. L’azienda rimane nell’incertezza, spesso con conseguenze negative per il titolo e per le strategie di lungo termine. Le incertezze e le logiche da “totoministri” mal si sposano a quelle della Borsa.
La nomina viene fatta indipendentemente dalle logiche di mercato “anglosassoni”, trasparenti e meritocratiche, che presupporrebbero, invece, un processo di consultazione con i grandi azionisti nazionali ed esteri: a cominciare dai fondi internazionali che investono miliardi in queste aziende e che spesso non comprendono in base a quali criteri vengano selezionati i vertici societari. Non sarebbe questa una procedura più consona alla modernizzazione della struttura societaria italiana?

La Repubblica 31.03.14

Nella scuola senza maestri “Qui ognuno impara da sé”, di Ursula Eichenberger

Una bimba di nove anni ha chiesto alla direttrice : «Rosie, mi presti le tue chiavi?». Con le sue amiche voleva andare a scuola anche nel fine settimana. Accade a Villa Monte, scuola privata che si ispira a Maria Montessori e Rebeca Wild nel Canton Svitto. “SE mi è permesso di fare solo il mio dovere, ma non posso mai farlo quando voglio, non mi va di farlo nemmeno quando devo. Se invece mi è permesso di farlo quando voglio, lo faccio volentieri anche quando devo. Perché per fare il proprio dovere bisogna poter aver voglia di farlo”. Citazione di anonimo accanto al telefono a Villa Monte, la scuola privata autorizzata e vigilata dal Canton Svitto, fondata nel 1983 dalla pedagogista Rosmarie Scheu e basata sul principio “ciascuno sa da sé”.
“Già le quattro? Che palle!” I due bambini sono seduti sul pavimento in un angolo della stanza, ciascuno con una clessidra poggiata sul palmo della mano. Guardano quanto tempo impiega la sabbia a cadere. Le clessidre sono di dimensioni diverse e i bimbi vogliono capire se la sabbia scorre più velocemente nell’una o nell’altra. Ma lo scuolabus ha già suonato due volte il clacson, il treno parte tra dieci minuti. E, per somma sventura, è anche venerdì. La settimana prima una bimba di nove anni ha chiesto alla direttrice : “Rosie, mi presti le tue chiavi?”. Con le sue amiche voleva andare a scuola anche nel fine settimana.
“Villa Monte è una scuola privata autorizzata che si ispira alla filosofia di Maria Montessori e Rebeca Wild, sotto il controllo del Canton Svitto. Il successo della scuola dimostra come sia possibile ottenere un valido titolo di studio anche con metodi non tradizionali”, si legge nel verbale di valutazione del Dipartimento per la formazione del Cantone.
Poco dopo le 8 si inizia. Dagli scuolabus gli alunni grandi e piccini scendono di corsa e sciamano verso l’edificio. Una volta arrivati, via le scarpe, su gli stivali. Bisogna strappare le erbacce, mettere a dimora le nuove piantine. “Questa è la mia palma”, spiega un bimbo al compagno più piccolo. Nella stanza delle bambole si prepara il tè. In un altro ambiente si lavora alacremente alle macchine da cucire. “La filosofia della scuola è una filosofia di vita: Imparare assieme e l’uno dall’altro. Imparare quando se ne ha voglia. Aver tempo per conoscere se stessi, gli altri e l’ambiente esterno. Senza stress. La perizia e il successo nella vita professionale testimoniano la validità della didattica di Villa Monte”, spiega ancora il Dipartimento cantonale. La scuola sorge isolata su una collina affacciata sulla Linthebene. Confina da un lato con il bosco, dall’altro ci sono il frutteto, il giardino
e l’orto dei bambini, il campo da calcio, il pergolato, una vecchia nave di legno per giocare ai pirati. Ogni stanza è un paradiso, attrezzata con angoli destinati al gioco e all’apprendimento, ogni oggetto è studiato a fini pedagogici. Inutile cercare banchi e lavagne, qui non si fa lezione frontale. Un gruppo di bambini per piano, seguiti da almeno un insegnante, pedagogista o tirocinante. Al piano terra i più piccini, a partire dai tre anni, al primo gli alunni della scuola primaria, all’ultimo quelli della secondaria. Nella casa accanto abitano i direttori, una coppia, che si dedica con grande impegno alla scuola. Gli adulti sono presenti solo per rispondere alle domande, riordinare, aiutare e intervenire quando i bambini non riescono a fare da soli. Quasi inesistenti gli elogi,
rari i rimproveri, nessuna punizione. Niente compiti, niente esami, niente voti.
Le regole sono solo tre: trattarsi con rispetto, essere ordinati, restare nello spazio stabilito attorno all’edificio. “Moltissimo” ribadisce il Cantone “viene scoperto ed elaborato attraverso le azioni, anche nell’ambito della matematica e della lingua, ed è quello che colpisce di più. Le competenze personali, sociali e specifiche sono poste sullo stesso piano”. Vige un ordine non organizzato, è tutto un via vai, un riempire gli zaini, improvvisare picnic. Niente urla, niente zuffe, si sta insieme in armonia. “Noi diamo fiducia ai nostri ragazzi”, spiega la fondatrice e direttrice della scuola, Rosemarie Scheu, 62 anni. “Siamo convinti che tutti troveranno la loro strada”. Gli alunni non vengono mai persi di vista, gli adulti sanno sempre dove sono e cosa fanno. “Tutti gli alunni, il corpo insegnante e i genitori dichiarano che in questa scuola la violenza non esiste. Forse dipende dal fatto che gli alunni non sono oggetto di alcuna costrizione e possono programmare e gestire liberamente la loro giornata scolastica”.
La gioia di imparare e la curiosità fanno si che al termine del periodo scolastico tutti sanno leggere, scrivere e far di conto. Imparano nella maniera a loro più congeniale. Ma soprattutto sanno cosa significano autonomia, felicità e gioia. Su una parete sono appese le foto degli ex alunni e le didascalie indicano la loro attuale attività: programmatore, musicista hip-hop, segretaria, ingegnere, estetista a Barcellona, falegname, istruttore di golf, tecnico d’impresa, ballerina ad Amsterdam, informatico, insegnante di tecnologie di stampa, fiorista, studentessa di psicologia, commessa in una libreria.

La Repubblica 31.03.14

"D’Ambrosio, una vita a difesa della giustizia", di Oreste Pivetta

La strage di Piazza Fontana, la morte di Giuseppe Pinelli, lo scandalo di Tangentopoli, momenti indimenticabili e insuperati, malgrado gli anni trascorsi comincino ad essere tanti, momenti per tutti di rottura e di svolta. Li affrontò con senso di responsabilità, con profondo rispetto non solo della legge ma della cultura democratica e civile di un Paese, con la consapevolezza di un ruolo che non poteva essere tradito da opinioni personali, buone o cattive, per amore della verità ben conoscendo i limiti di ogni ricerca della verità. Anche con fatica (aveva sofferto di gravi malanni cardiaci). «Un uomo sopra le parti, nonostante i suoi convincimenti politici», lo ricorda Francesco Saverio Borrelli. Un «magistrato integerrimo»: la definizione sarebbe giusta se non tradisse ritualità, abitudine, esercizio retorico. Gerardo D’Ambrosio era soprattutto un uomo colto e onesto, verso se stesso, per gli altri, davanti ai codici. Lo hanno contato tra le «toghe rosse» milanesi. O addirittura qualcuno lo ha apostrofato alla stregua di «capo delle toghe rosse». Un pallido insulto, che faceva e fa sorridere, considerando le qualità di Gerardo D’Ambrosio.

Lo si poteva incontrare nel suo ufficio dentro Palazzo di Giustizia a Milano. Lo si poteva ascoltare al telefono, per un’intervista, quando ormai aveva lasciato la magistratura ed era entrato in Senato. Colpivano subito quei modi eleganti, raffinati e discreti. Colpiva quel suo accento campano, che restava malgrado i de- cenni trascorsi al Nord, a Milano. Colpivano la disponibilità, la gentilezza e quel modo paziente, pedagogico, di spiegare a chi l’ascoltava come «stavano le cose». Rivelava, negli ultimi anni, la sua amarezza. Lo spiegò in un intervista all’Unità: amarezza per quanto era stato scoperto, denunciato, perseguito, e per quanto, comunque, nel malaffare, nella corruzione, nell’offesa alle istituzioni si era ripetuto negli anni, in una sorta di «tangentopoli infinita». «Il problema del- la corruzione – disse di recente – c’è sempre. Se i risultati sono inferiori al periodo d’oro, quello di Mani Pulite, è solo perché si sono creati gli anticorpi, è stato fatto tesoro dell’esperienza di quegli anni per sottrarsi alle indagini».

Gerardo D’Ambrosio s’era occupato di piazza Fontana, del bomba del dicembre 1969, e grazie al suo coraggio (e al coraggio e all’obiettività di magistrati come Giancarlo Stiz ed Emilio Alessandrini, assassinato dai terroristi di Prima Linea) si giunse all’incriminazione di Franco Freda e di Giovanni Ventura, alla individuazione quindi di quella matrice fasci- sta della strage (Freda e Ventura erano già stati incriminati per le bombe ai treni dell’estate dello stesso anno).

Gerardo D’Ambrosio s’era occupato anche della morte di Giuseppe Pinelli, nella notte che precedette l’arresto di Pietro Valpreda. Gli era toccato il compito di ricostruire quanto era avvenuto dentro un ufficio della questura, a Milano, in via Fatebenefratelli. Non era riuscito a concludere la sua inchiesta come avrebbe voluto, interrogando il commissario Calabresi, ultimo teste, ucciso po- chi giorni prima l’appuntamento. Le conclusioni di Gerardo D’Ambrosio (il «malore attivo») mossero nei suoi confronti polemiche e accuse violente da parte di alcuni ambienti di sinistra (e in particolare di Lotta Continua). Ma D’Ambrosio, giudice istruttore, nella sentenza depositata il 27 ottobre 1975, ebbe parole durissime a proposito dei comportamenti della polizia e del questore. Citò la conferenza stampa, quando il questore dichiarò: «Era fortemente indiziato», «Ci aveva fornito un alibi ma questo alibi era completamente caduto», «Il funzionario e l’ufficiale gli hanno rivolto una ultima contestazione… Poi sono usciti dalla stanza. D’improvviso Giuseppe Pinelli è scattato. Ha spalancato i battenti della finestra socchiusi e si è buttato nel vuoto» … Colpevole dunque. Af-ermazioni vili e menzognere, scrisse D’Ambrosio, rese perché gradite ai superiori, «strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici». Gerardo D’Ambrosio non s’era arreso a un «senso comune» pseudo istituzionale, a un pseudo rispetto del «potere». Per quanto gli era stato possibile aveva difeso una persona, aveva cercato di restituire dignità e giustizia a una persona.

Gerardo D’Ambrosio s’era occupato di Tangentopoli, di Mani pulite. Il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli lo volle coordinatore del pool, del quale all’inizio fecero parte magistrati come Di Pietro, Colombo, Davigo. Era il 1992: il 17 febbraio il socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu colto in flagrante mentre incassava la sua tangente. «Un mariuolo» lo definì Bettino Craxi. L’onda si estese travolgendo ogni confine. L’onda continua.
Nato a Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, era entrato in magistratura nel 1957 ed era arrivato al tribunale di Milano dopo un primo incarico a Voghera. Nel 1981 venne assegnato alla Procura di Milano con funzione di sostituto, per otto anni. In questo periodo sostenne l’accusa nei primi processi per terrorismo e nel processo conseguente allo scandalo dei petroli. Condusse inoltre le istruttorie relative agli illeciti del Banco Ambrosiano, che vedevano tra gli altri imputati Roberto Calvi. Lasciò la magistratura nel 2002, per limiti d’età. Entrò in politica nel 2006, nelle file dei Democratici di sinistra, e fu eletto al Senato, dove rimase fino al 2013.

Il 21 maggio 2012 il consiglio comunale di Santa Maria a Vico, sua città natale, gli negò la cittadinanza onoraria. Il sindaco Alfonso Piscitelli (Pdl) motivò il suo no dichiarando: «Riteniamo che D’Ambrosio non abbia volato troppo in alto, non sia stato al di sopra delle parti».

La Repubblica 31.03.14

Romano Prodi: il pd di Renzi è l'unico partito vivo giusta la battaglia contro i no tedeschi", di Massimo Giannini

L’ex premier dice di sentirsi «un uomo felice», si chiama fuori dalla futura corsa per il Quirinale e promuove Matteo Renzi. «È la grande aspettativa di rinnovamento, ma non deve deluderla, deve fare in fretta ma deve soprattutto fare bene». A partire dalla battaglia che sta conducendo in Europa: «Noi dobbiamo onorare il fiscal compact, ma non possiamo accettare che ci leghino le gambe e poi ci chiedano di correre.
Se oggi, per rispettare il tetto magico del 3 per cento, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo». Le colpe sono un po’ di tutti: «Chi ha sentito più parlare della Commissione Ue?».
Il virus antieuropeista però preoccupa: «Solo la Germania ne è immune perché la Merkel ha difeso gli interessi nazionali ed è diventata la padrona d’Europa »
Presidente Prodi, in Europa i popoli voltano le spalle ai governi. Come dice Bauman, i palazzi della politica sono vuoti, perché il vero potere è altrove, dai mercati alle banche. Cosa sta succedendo?
«Con una diagnosi semplicistica, si potrebbe dire che la ripresa mondiale è lenta, e in Europa è ancora più lenta. In realtà il male europeo è molto più complesso. Non c’è un solo cambiamento nella storia dell’umanità che veda l’Europa protagonista. Prenda la crisi ucraina: Putin chiama Obama, anche se gli Usa non c’entrano nulla. Ma vale la famosa domanda di Kissinger: qual è il numero di telefono dell’Europa? Nessuno lo sa. Nel frattempo, l’Europa è dominata dalla paura, dagli egoismi nazionali. Ogni leader europeo guarda alle prossime elezioni, non alle prossime generazioni».
Risultato: vincono gli anti-europeisti, come nella Francia di Marine Le Pen.
«Il virus francese mi preoccupa, ma non mi sorprende. Solo la Germania è immune, perché la Merkel ha difeso soprattutto gli interessi tedeschi ed è diventata la padrona d’Europa. Ma è assurdo che un Paese con un surplus commerciale di 280 miliardi, un’inflazione zero e un modesto tasso di crescita, si rifiuti di reflazionare la sua economia, e di consentire che l’Europa faccia altrettanto, solo perché questo verrebbe vissuto dai tedeschi come una ‘elemosina’ a favore dei pigri meridionali».
E non è così?
«Ovviamente no. Ma qui sta anche la responsabilità di noi “latinos”. Non siamo in grado di esprimere un progetto politico unitario e condiviso non “contro” la Germania, ma a favore dello sviluppo e del lavoro. Su questo non vedo proposte concrete, né in Italia né altrove. Il modello sono gli Usa, che hanno iniettato nel sistema 800 miliardi di dollari in un colpo solo. Ci vorrebbe un po’ di sano keynesismo…».
Dovremmo riscrivere i Trattati europei, smontando i famosi parametri che proprio lei una volta definì “stupidi”?
«Non ho mai pensato che si debbano rivedere i parametri. Li ho definiti ‘stupidi’, nel senso che vanno sempre tarati sui cicli dell’economia. E’ chiaro che se oggi, per rispettare il ‘tetto magico’ del 3%, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci suicidiamo. In periodi di crisi servono politiche espansive dal lato della domanda. E’ questo che l’Europa non fa. Dovrebbe mutualizzare i debiti pubblici e lanciare gli eurobond, ristabilire lo spirito solidaristico che a fine anni ‘90 ci consentì di azzerare gli spread, rafforzare le sue istituzioni rappresentative. La Bce, per quanto faccia, non potrà mai sostituirsi al Consiglio europeo. E mi dica, ha più sentito parlare della Commissione Ue?».
Grillo urla: usciamo dall’euro. Che effetto le fa, da “padre fondatore” della moneta unica?
«Questo è un Paese senza memoria. Usciamo dall’euro, facciamo come l’Argentina: follie. Dal giorno dopo avremmo Btp svalutati del 40%, tassi di interesse al 30%, Stato al collasso, banche fallite, dazi contro le nostre merci anche da parte dei paesi europei. Qualche anima bella obietta: avremmo le svalutazioni competitive! Altra follia. Una bilancia commerciale in attivo dello 0,6% del Pil è la prova che ai nostri imprenditori, non certo tutti pigri e poco competitivi, quello che oggi serve non sono le svalutazioni competitive, ma un rilancio della domanda e dei consumi interni, accompagnato da una drastica semplificazione delle regole e dalla ripresa della lotta all’evasione
fiscale».
Renzi e Padoan hanno ragione a chiedere all’Europa di “cambiare verso”?
«Noi dobbiamo onorare i nostri impegni, compreso il Fiscal Compact. Ma dobbiamo pretendere dall’Europa politiche che ci consentano di rispettarli facendo ripartire l’economia. Non possiamo accettare che ci si leghino le gambe, e poi ci si chieda anche di correre. Serve un lungo e paziente dialogo, con tutti i nostri partner».
Crescita e lavoro ormai sono un mantra. Ma precariato e disoccupazione sono la malattia mortale dell’Occidente.
«Sono i temi che mi angosciano di più. A differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro. Il rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto. A pagare il prezzo più alto e’ il ceto medio. Qualche giorno fa il Financial Times scriveva che l’Infor-mation Technology tra pochi anni farà sparire anche migliaia di analisti finanziari».
In Italia serve davvero più flessibilità in entrata (come prevede il decreto del governo) e in uscita (con la fine dell’articolo 18)?
«Posso dirle che lavori troppo precari non giovano all’economia, e che nelle aziende si assume e si licenzia come si vuole. Quando parli a tu per tu, gli imprenditori te lo dicono: il problema per loro non è l’articolo 18, ma semmai una contrattazione più legata alle aziende e ai territori, e una maggiore disponibilità su orari, turni, mansioni, gestione dei magazzini. Queste sono le vere riforme».
Dal Jobs Act al Fisco e alla PA, Renzi ne sta promettendo persino troppe. Non c’è da temere un effetto boomerang?
«Il nuovo governo ha obiettivamente aperto una speranza, e tutti dobbiamo crederci. Renzi ha un vantaggio: è la grande aspettativa di rinnovamento che c’è nella società italiana. Non deve deluderla. Ha in effetti lanciato molte proposte interessanti. Il problema è che ora servono norme e organizzazioni che le traducano rapidamente in atto. Se c’è tutto questo, va bene. Io sono in fiduciosa attesa».
Lei magari sì, ma le parti sociali no. Non passa giorno che Confindustria e sindacati non facciano a sportellate col governo o con Bankitalia. Come lo spiega?
«Un po’ di dialettica è fisiologica. Ma nel complesso mi pare che nel Paese, se non altro perché siamo davvero all’ultima spiaggia, c’è un forte desiderio di ritrovare l’ottimismo e di cavalcare il cambiamento. Questa per Renzi è una grande fortuna. Può sfruttare quel misto di angosce e di speranze che attraversano l’Italia. Deve fare in fretta, ma deve soprattutto fare bene. Quanto alla concertazione, è una bella cosa. Ma richiede unità nei sindacati e negli imprenditori. E invece l’Italia è sempre più frammentata. Da ex premier, mi ricordo riunioni fiume con decine di sigle sedute al tavolo. All’una la prima sigla diceva una cosa, alle due una seconda sigla la scavalcava, alle tre ne spuntava un’altra che andava oltre, alle quattro si chiudeva con un comunicato generico. Questo tipo di concertazione, onestamente, non funziona più».
Renzi taglia di 10 miliardi Il cuneo fiscale per i lavoratori. Lei lo fece già nel 2008, ma lo sparti’ anche alle imprese. E’ giusto oggi privilegiare l’Irpef?
«Noi distribuimmo, 60 alle imprese e 40 ai lavoratori. Nonostante questo, a sorpresa, il giorno dopo fu proprio Confindustria ad attaccarci. Stranezze della storia… Oggi, di fronte alla deflazione salariale, Renzi fa bene a concentrare tutti i benefici sui lavoratori. Un po’ più di potere d’acquisto per le famiglie, alla fine, sarà un vantaggio anche per le imprese».
La nuova legge elettorale e la riforma del Senato la convincono?
«Non entro nel merito. In generale, più ci si avvicina al modello dei collegi uninominali e del doppio turno, più si va verso una democrazia efficiente e funzionante».
Peccato che l’Italicum vada nella direzione opposta, per pagare un prezzo a Berlusconi. Lei che è l’unico ad averlo battuto due volte, come giudica questo patto col diavolo?
«Le riforme di sistema, elettorali e istituzionali, vanno fatte cercando il massimo dei consensi tra gli schieramenti politici. Ma diciamo che non bisogna esagerare nei modi. Di mediazioni se ne possono fare, ma la priorità resta sempre il bene del Paese».
E del Pd renziano cosa mi dice?
«Le dico solo questo: può anche darsi che il Pd abbia ancora la febbre, ma è l’unico partito vivo che c’è in Italia. Tutti gli altri sono crollati, e non esistono più forme minime di democrazia e di rappresentanza».
Quanto ancora le brucia, la vicenda dei 101 che l’hanno impallinata nella corsa al Quirinale?
«Con molta sincerità, della vicenda dei 101, che poi erano 120, non mi ha bruciato nulla. Anzi, è stata persino una cosa divertente. Ero in Mali, con gli africani che mi facevano il pollice alzato, mentre io facevo ‘pollice verso’ perché già prevedevo come sarebbe finita. Feci le mie telefonate, a Marini, D’Alema, Monti e Napolitano. Alla fine chiamai mia moglie e le dissi “vedrai, non succederà niente”. E così è andata. Ma davvero, non sono affatto amareggiato. Semmai mi brucia ciò che accadde prima, quando da Bari Berlusconi disse “al Quirinale chiunque, ma non Prodi”. Dal Pd, tranne Rosi Bindi, non replico’ nessuno. Quelli sono i momenti in cui ti senti veramente
solo».
Napolitano potrebbe lasciare dopo la riforma elettorale. E di lei si sussurra: “Prodi si sta dando da fare per ritentare la scalata al Colle”. Vero o falso?
«Vorrei proprio sapere in cosa consisterebbe questo mio “darmi da fare”… Mi occupo di questioni internazionali, studio l’economia globale, giro il mondo. Sono un uomo felice. In fondo nella vita ci sono tante gare, e per quanto mi riguarda quella del Quirinale è finita. Mi creda: the game is over. I tempi poi sono cambiati: il prossimo presidente della Repubblica finirà per dover condensare il suo messaggio in un twitter».

La Repubbica 31.03.14

"Pietro Ingrao 99 anni tra passione e poesia", di Walter Veltroni

Son quasi cent’anni, questi di Ingrao. Ma non di solitudine. Perché ha vissuto immerso nella storia e in quel grande magma che è stato il ’900. Eppure, in qualche modo, potremmo anche parlare di solitudine per questo uomo che parla si sé definendosi un «carattere d’orso», sempre tentato da una riflessione introversa ed eretica. Insomma Pietro Ingrao compie 99 anni. È nato nel 1915 nell’Italia agricola e un po’ periferica della sua Lenola proprio mentre la febbre della prima Guerra Mondiale stava per travolgere anche il nostro Paese e nel resto d’Europa i morti si contavano già a centinaia di migliaia, milioni.
Ha attraversato un tempo lungo, un secolo drammatico segnato da due guerre, dalla tragedia della Shoah, dal grande sogno del comunismo e dalla sua crisi.
Ho incontrato Ingrao nella sua casa pochi mesi fa. Stavo lavorando al film su Berlinguer e volevo raccogliere la sua testimonianza. Come sempre incontrarlo mi ha molto colpito: ero partito con tante domande in testa emi sono sentito rivolgere mille domande. Ero andato a cercare memoria, mi son trovato davanti un uomo pieno di curiosità su quello che succede, su quello che succederà. Nel film ci sono le sue poche frasi in cui parla del funerale di Enrico Berlinguer come di un viaggio interminabile nella folla e nel dolore delle persone.
Pietro Ingrao è stato definito in tanti modi: era l’eretico, l’uomo del dissenso interno al Pci, quello che per la prima volta in un congresso comunista dalla tribuna aveva detto di non esser stato convinto dalla relazione del segretario, che era Luigi Longo. Era anche l’uomo che nel Pci ha più seguito, con apertura di idee e senza rigidità, le questioni delle istituzioni, dello Stato e della sua riforma. Per anni, per decenni, a partire dal 1946, tutti i lunedì che Dio mandava in terra, a Botteghe Oscure si riuniva la segreteria del Pci, una decina di persone in tutto. Ingrao c’era sempre, e con lui Togliatti fino al 1964, e Amendola e Pajetta e Berlinguer e Bufalini e Alicata e poi negli anni successivi Napolitano, Macaluso … Un gruppo piccolo di persone che ai nostri occhi appartengono alla storia ma che erano invece spesso dei giovani (Pietro aveva trent’anni quando diventò direttore dell’Unità). Uomini giovani che alle spalle avevano biografie spesse e qualche volta dolorose.
La sua figura è quella di un politico-intellettuale molto speciale. Nato in un piccolo paese sui monti che sono alle spalle di Terracina da una famiglia di origini siciliane. Il nonno garibaldino che aveva combattuto con Bixio e di cui Pietro va molto orgoglioso. Ma i suoi racconti d’infanzia (ne ha parlato spesso) lasciano vivido il racconto della grande casa e della nonna che stava sempre in cucina, il luogo sociale della civiltà contadina, dove le differenze tra questa famiglia di medi proprietari agricoli (a dire il vero già mezzi in rovina) e quelle dei braccianti e delle loro famiglie scomparivano.
GLI STUDI A GAETA
Da ragazzo, durante gli studi al liceo di Gaeta i suoi amori erano la poesia ermetica e il cinema. Andava all’edicola ad aspettare che arrivassero le riviste con le poesie di Montale e Ungaretti. Di Montale racconta un episodio bellissimo e un po’ ironico. Ingrao arrivò a Firenze per i Littoriali e si presentò in stivaloni e camicia nera alle Giubbe Rosse, lo storico caffè in cui si raccoglievano i poeti. «Volevo incontrare Montale, il poeta che aveva scritto quei versi scabri e desolati che dicevano “codesto solo oggi posiamo dirti, ciò che non siamo ciò che non vogliamo”. Ho ancora negli occhi l’espressione tra l’incuriosita e annoiata del poeta che si vedeva davanti quell’oscuro giovane provinciale vestito in quella maniera ». Sì, in camicia nera, perché Ingrao fa parte di quella generazione di italiani che non aveva conosciuto nient’altro che il fascismo, che con questo si immedesimava ma che seppe prestissimo rovesciare in antifascismo la sua giovanile voglia di cambiare il mondo. Due suoi maestri ai tempi del liceo morirono alle Ardeatine. Lui sceglie l’antifascismo nel 1939, un anno dopo arriva al Pci. Il 25 luglio del 1943 lo coglie a Milano dove lo ha inviato clandestino il Pci: fu qui il suo primo comizio e lo ha sempre raccontato con quel misto di entusiasmo e di timidezza che è la sua cifra.
UN’ENORME CURIOSITÀ
I suoi novantanove anni li ha spesi nella battaglia politica fatta con passione, che fosse alla guida dell’Unità o alla presidenza della Camera. Eppure non è quell’uomo totus politicus come altri della sua generazione. È sempre stato spinto da una enorme curiosità intellettuale, scrive poesie, ama il cinema sin dalla giovinezza, ne parla e ne scrive spesso con competenza e passione. Il suo grande amore cinefilo è Charlie Chaplin che legge (a ragione) in chiave poetica ma anche politica e sociale. Se devo cercare una parola per raccontarlo questa parola è dubbio, ma non il dubbio che impedisce l’azione e che paralizza, bensì quel tarlo che spinge a pensare di più, a conoscere meglio anche le cose che sono più lontane da te. Se devo cercarne un’altra questa parola è popolo. Parola difficile, forse poco politica ma nella sua lingua ha sempre indicato gli uomini e le donne «in carne e ossa», come se l’astrazione dell’ideologia e anche della politica-politica si dovesse fermare quando si parla delle persone vere nella loro complessità e umanità. A chi ama le semplificazioni e si irrita davanti ad una complessità che ci obbliga a tenere insieme cose apparentemente lontane e opposte magari con un «ma anche», mi verrebbe da rispondere: guardate questi due leader così diversi, Ingrao col suo dubbio costante, Berlinguer capace di tenere insieme l’ossimoro di lotta e di governo. Cosa c’è di semplice, di bianco e di nero in questa storia?
Mi torna in mente del nostro recente incontro anche un altro particolare. Ingrao ama parlare facendo continui riferimenti ai luoghi. Le città, i quartieri, il paese della sua infanzia sono radici fisiche. Quest’uomo nato nel 1915 è come fosse piantato in un lunghissimo passato, ma riesce ad avere uno sguardo profondo anche sul futuro. Auguri Pietro.

l’Unità 30.03.14

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Clandestino in bicicletta per fare uscire «l’Unità»
di Pietro Ingrao

Il primo incontro diretto con l’Unità lo ebbi il pomeriggio del 26 luglio del ‘43 a Milano. La sera prima, a Roma, Mussolini era stato licenziato dal re. Vivevo clandestino e abitavo in una casa di Corso di Porta Nuova insieme con due compagni operai siciliani, i fratelli Impiduglia, che mi ospitavano e mi difendevano dalla polizia, e un’adorabile ragazza lombarda, unita al maggiore dei due fratelli, di nome Santina, che mi aiutò e protesse nei miei soggiorni segreti a Milano, con una grazia e un coraggio semplice.
La notte del 25 luglio era afosa. Nella casa dormivamo tutti un sonno pesante, quando d’improvviso e inatteso entrò Salvatore Di Benedetto, che era un po’ il nostro capocellula e insieme quasi un fratello: sbattè le porte e si precipitò a gridare a squarciagola alla finestra: «A morte Mussolini!». Saltammo dal letto senza capire. Poi, infilati di furia i pantaloni, ci precipitammo con Di Benedetto nelle strade urlando: «A morte il duce, abbasso il fascismo» (…). Finimmo nel vortice di Porta Venezia dove una folla impazzita sciamava ed urlava. Più avanti abbracciammo esultanti Elio Vittorini. E fu così tutta la notte, in una scia di gente tumultuante davanti alle sedi fasciste, da cui cadevano e finivano in falò carte, sedie, armadi, gagliardetti, come una scia di roghi. Tutto s’acquietò con l’imbiancarsi del cielo.
La gente rifluì nelle case e negli uffici. Io finii con Vittorini e Di Benedetto nella sede della casa editrice Bompiani, dove Elio aveva il suo tavolo di lavoro. Da lì partì la telefonata che fissava per il pomeriggio un camioncino a Porta Venezia (…). Alle due ero di nuovo in un enorme corteo senza nome, che sfilò dinanzi a San Vittore chiedendo la liberazione dei prigionieri politici. Poi dal carcere il corteo sfociò ancora a Porta Venezia, e dilagò attorno al camioncino affittato da Bompiani. Riuscii ad arrampicarmi sul tetto dell’auto, dove ci strappavamo da una mano all’altra i microfoni: comunisti, socialisti, anarchici, trotzkisti, repubblicani, e quanti altri non so dire. Conquistato il microfono riuscii a fare un brandello di comizio, che chiedeva la pace subito. L’indomani mattina il Corriere della Sera scrisse che in Piazza del Duomo aveva parlato «l’operaio Pietro Ingrao». E quell’informazione sbagliata dette una prima notizia alla mia famiglia che da mesi di me non sapeva più nulla (…).
La folla sciamò con gridi di esultanza. E io mi trovai trascinato da Salvatore Di Benedetto nella casa di Vittorini che lambiva Corso Venezia. Il pomeriggio di tardo luglio si faceva improvvisamente quieto, con quelle luci estive che si piegano nel lungo tramonto, preparando l’ombra della sera. Nella casa c’era Celeste Negarville, uno dei dirigenti del Pci che era riuscito a rientrare clandestino in Italia, mentre si avvicinava il crollo di Mussolini. Nelle nostre goliardate di partito, gli fu appiccicato un nomignolo scherzoso: lo chiamammo il «marchese di Negarville», per la stranezza di quel cognome, e soprattutto per il suo gusto dell’ironia e il successo che aveva tra le donne. Era invece un operaio, e tornava in Italia da un aspro esilio. Mi guardò con un breve sorriso, ed ebbe una battuta scherzosa sul mio «comizio» a Porta Venezia. Emi fu detto che dovevamo preparare il numero dell’Unità sul grande evento. Io fui incaricato di fare la cronaca della manifestazione. Poi, nella casa, ci ponemmo ciascuno al proprio posto di scrittura. E io cominciai a pesare le parole con cui raccontare quella manifestazione, in cui per la prima volta nella mia vita avevo parlato a una massa di popolo di cui sapevo nulla.
Eravamo tutti presi nel nostro compito, quando la porta della stanza si aprì e apparvero due. Io continuai a scrivere. Gente della casa, pensai, compagni sconosciuti. Uno dei due, quasi sorpreso dalla nostra calma, disse due parole che ci lasciarono di stucco: «Siamo carabinieri». In breve ci radunarono. Ci chiesero i nomi. Quando venne il turno mio non sapevo se dare il mio nome clandestino (Vittorio Infantino) o quello vero. Prima di me fu interrogato Negarville: disse quel suo strano nome vero. Tuttavia dissi anch’io il mio nome vero: Pietro Ingrao. I carabinieri arrestarono Elio Vittorini, che figurava come colui che aveva disposto il camioncino per la manifestazione di Porta Venezia, e Salvatore Di Benedetto, che aveva risposto furente alle loro domande: che volevano? C’era o no finalmente la libertà?
La scelta fu di andare a scrivere quel numero dell’Unità in casa di Ernesto Treccani, che ci sembrava protetto da avventure di poliziotti che ancora non avessero capito l’accaduto. Negarville era calmo, persino un po’ pigro, mi sembrava. Ma avevamo appena ricominciato il nostro lavoro di giornalisti neofiti che venne l’allarme: la polizia stava per arrivare anche a casa di Treccani. Ci trasferimmo di corsa alla tipografia Moneta, dove almeno c’era la tutela operaia di fronte a qualsiasi colpo di mano. Negarville era tanto sottile e arguto, quanto lento nella scrittura un po’ prolissa. O forse dovette consultarsi con Roma. Alla fine l’editoriale fu pronto. Il titolo era lungo, calibrato e ridondante. Ma Negarville rifiutò la nostra sollecitazione che chiedeva un titolo più caldo, più breve. Poco dopo, con urla di evviva, un gruppo di operai ci portò stampato quel giornale a due facciate, che recava un nome famoso, così simbolico in quell’istante. E davvero era per me un inizio. Restai nella redazione segreta di quel giornale che non si sapeva se fosse ormai nella legge o ancora aspramente al bando. C’era anche Gillo Pontecorvo, in casa di Vittorini, quando accadde quella irruzione dei carabinieri? Non lo ricordo bene. Ad ogni modo nei giorni che seguirono fummo in tre gli addetti a quel foglio, tutto da fabbricare nell’ambiguo interludio che fu l’estate del ‘43. Celeste Negarville dalla Direzione del partito era stato chiamato a Roma. Girolamo Li Causi era il nuovo direttore (se si possono adoperare queste parole così normali per il subbuglio e le sollecitazioni di quella estate rovente). Nella redazione dell’Unità di Milano eravamo in tre: io, Gillo e Henriette, la fidanzata di Gillo, piombata dalla Francia: una giovane bellezza sconvolgente, venuta a raggiungere di corsa l’innamorato e che sembrava ignorare i rischi terribili che correvano.
I testi di quel breve giornale erano composti in tipografie clandestine nell’hinterland di Milano, da cui li andavamo a ritirare per impaginarli in città: così eravamo come una fluttuante impresa, «new labour» prima del tempo. Essenziale in quella segreta combinazione di lavori era la bicicletta. Ne avevamo una sola, ma con una larga e solida piattaforma in metallo dietro il sellino, splendida per poggiarvi ben mascherati i pacchi di piombo della composizione. La «portapacchi» fu per noi una sorta di arnese di guerra (…). Noi tre giornalisti clandestini eravamo allora molto attratti dalle forme che prendeva quel foglio ancora clandestino, Gillo ancora più di me. Chiedemmo ad Albe Steiner, cervello finissimo, di ridisegnare la testata dell’Unità, poiché quella del tempo di Gramsci ci sembrava bruttissima e ingombrante. Steiner ne immaginò una nuova, forte ed asciutta nel suo modulo razionalizzante d’epoca. Ci parve bellissima. Invece da Roma ci venne un aspro rimbrotto: come osavamo cambiare la gloriosa testata di Gramsci, quel nome favoloso che noi, reclute acerbe, solo allora cominciavamo un poco a conoscere? E tuttavia tenemmo ferma la testata steineriana.
L’articolo integrale è consultabile sul sito www.pietroingrao.it

L’Unità 30.03.14