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"L’età non ha colpe (né meriti)", di Paolo Di Stefano

La ministra dell’Istruzione Giannini ha risposto alla collega Madia, a proposito delle misure sui dipendenti pubblici: «Un sistema sano non manda a casa gli anziani». L’età non ha colpe né meriti. E il merito non ha età. Una società priva di equilibrio tra le generazioni non cresce armonicamente. L’età non è una colpa né un merito. E il merito non ha età. A parte il fatto che ci sono vecchi giovanissimi e giovani (mentalmente) molto anziani, l’età offre l’indiscutibile vantaggio dell’esperienza e della conoscenza, o meglio, della conoscenza diventata esperienza. Tutto ciò che il trionfante slancio giovanilista vorrebbe «rottamare». È vero che l’esperienza fa rima, a volte, con prepotenza, ma non bisogna mai dimenticare che la «giovinezza» come manifesto o come inno evoca inevitabilmente tempi funesti. La giovinezza e la vecchiaia non sono in sé un valore, né sono garanzia di onestà, competenza, intelligenza. Per Benedetto Croce nulla è peggio di un giovane cretino, visto che statisticamente ha la possibilità di durare molto. Non ha torto la ministra dell’istruzione Giannini quando risponde alla collega Madia, a proposito delle misure sui dipendenti pubblici, che «un sistema sano non manda a casa gli anziani». Una società che non riesca a trovare un equilibrio tra le generazioni non può crescere armonicamente. E immaginare che la gerontocrazia si vinca con la gerontofobia o con il paternalismo giovanilista è un errore imperdonabile. Sarebbe ingenuo pensare che capacità e inettitudine abbiano qualcosa a che fare con la data di nascita. Il conservatore Putin è diventato presidente a «soli» 47 anni; il rivoluzionario Francesco è diventato Papa «già» settantaseienne. Contabilità fasulla.
A parte il fatto che tra lolitismi diffusi e senescenze precoci, tra adulti infantili e bambini troppo responsabilizzati, nel sovvertimento del ciclo delle generazioni, bisognerebbe pure recuperare le esatte coordinate biologiche: si arriva al paradosso di definire giovane un quarantenne e di prepensionare un cinquantottenne. Come può mai realizzarsi, con questa cesura mentale prima ancora che sociale, l’indispensabile trasmissione di fiducia, di memoria e di conoscenze? Altro che staffetta generazionale… D’altra parte, se come diceva Mino Maccari è pericoloso dare gratis ai giovani ciò che è costato carissimo ai più anziani, è ingiusto negare ai giovani, per decreto, quel che gli anziani hanno comunque conquistato. Ci sarà pure una via di mezzo tra il troppo facile e l’impossibile .

Il Corriere della Sera 30.03.14

Ma possiamo chiamarlo ancora «Belpaese»?, di Vittorio Emiliani

Si parla tanto di ridurre l’avanzata combinata di asfalto+cemento, ma l’avanzata continua, disastrosamente. Il rimedio? Accusare di «ipertutela» le Soprintendenze e altri organismi che tentano di arginare, con scarsi mezzi e pochi tecnici, l’irruzione nel paesaggio italiano di nuove «villettopoli», «capannopoli», «fabbrico- poli», anche nelle zone vincolate, persino nell’alveo o nelle aree alluvionali di fiumi e torrenti.

Gli ultimi dati forniti dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ri- cerca Ambientale (Ispra) sono a dir poco spaventosi. Già nel 2010 (lo mostra con drammatica evidenza la cartina a colori che pubblichiamo) il Belpaese appariva per buona parte – specie nelle aree metropolitane – impermeabilizzato: rispetto al 1956, nonostante l’aumento di popolazione non sia stato altissimo, l’occupazione di suoli per lo più agricoli è invece passata, in media, dal 2,8 al 7 % circa del suolo nazionale, con alcune regioni galoppanti oltre il 9 e percentuali disastrose nelle aree metropolitane.

Per ogni italiano c’erano già, nel 2010, ben 343 metri quadrati di suolo sepolto sotto la coltre di asfalto+cemento. Tutto ciò mentre la Germania aveva adottato con una legge Merkel criteri restrittivi efficaci e altrettanto faceva nel Regno Unito il governo Blair.

L’AVANZATA

Da noi invece questa avanzata del ce- mento – che ora si vuole senza paletti, senza freni in omaggio alla «modernità» – non ha ancora trovato alcun argine legislativo, né nazionale né regionale, e prosegue inarrestabi- le. Fra 2010 e 2012 Lombardia e Veneto hanno superato infatti il 10 % di suolo impermeabilizzato, Emilia-Romagna, Campania, Lazio, Puglia e Si- cilia sono fra l’8 e il 10 %. Cifre agghiaccianti se si pensa che il consumo di nuovi suoli liberi si concentra in pianura e lungo le coste. I Comuni più cementificati risultano Napoli col 62,1 % seguita da vicino da Mila- no, Torino, Pescara, Monza, Bergamo e Brescia.

Con danni incalcolabili al paesaggio e alla sua bellezza, ma pure alla salute idrogeologica già precaria e a quella di noi abitanti. È l’Ispra a sottolineare infatti che la trasformazione di terreni agricoli o boschivi in asfalto+cemento porta con sé altri guasti terrificanti: a) i suoli resi impermeabili da asfalto e cemento non fanno più filtrare almeno 270 milioni di tonnellate d’acqua all’anno che si riversano dove possono con allagamenti e alluvioni crescenti; b) aumentano i costi di gestione del territorio dal momento che ogni singolo ettaro di suolo «consumato» comporta una maggiore spesa di 6.500 euro per fognature, canalizzazioni, manutenzioni varie, con 500 milioni di co- sto in più; c) le produzioni agricole si riducono per milioni di tonnellate, con minori ricavi annui per circa 90 milioni; d) la cementificazione galoppante immette nell’atmosfera 21 milioni di tonnellate di CO2 per un co- sto complessivo stimato sui 130 milioni annui.
«Nonostante la crisi», osserva l’Ispra, «è ancora record» nei consumi di suolo: perdiamo 8 metri quadrati al secondo. E non soltanto a causa della nuova edilizia, ma in forza di strade asfaltate, parcheggi, piazzali, aree di cantiere, centri commerciali, capannoni industriali, ecc. Con chi prendersela? Ma con le Soprintendenze che «bloccano tutto» (?), con la burocrazia che non concede, oplà, all’istante i permessi per costruire dove e come ciascuno vorrebbe, con le Autorità di bacino che si oppongono (come possono) a quanti vogliono edificare ancora in aree alluvionali o nell’alveo dei corsi d’acqua… . Quando ci sono alluvioni – e ormai ce ne sono sempre più – subito si accusa lo Stato di non fare abbastanza. Gli alluvionati intervistati da emozionati telecronisti esprimono la loro rabbia contro i governi, la politica, i politici e così via. Ma, guarda caso, gli stessi hanno, otto volte su dieci, costruito illegalmente le loro case o villette (diecimila, secondo uno dei pochi bravi giornalisti a denunciarlo, Ernesto Menicucci del

«Corriere della Sera», a Roma verso il mare, fra Infernetto, Axa e dintorni), le hanno alzate «vicino al fiume» (eufemismo televisivo), o le hanno comprate da speculatori criminali.

RIMEDI

Come rimediare a tutto ciò? Anzitutto – va chiesto con forza al neo-ministro Dario Franceschini – sbloccando e rendendo vincolanti i piani paesaggistici che da anni dovrebbero essere redatti insieme da Ministero e Regioni e che invece dormono nel disastro generale.

La sola Toscana – difatti il suo presidente Enrico Rossi non considera (l’ha scritto su questo giornale) le Soprintendenze «una intrusione», al contrario – sta discutendo meritoriamente in Consiglio piano paesaggistico e nuova legge urbanistica. Bisogna inoltre potenziare il personale tecnico delle Soprintendenze: appena 487 architetti per 141.358 Kmq di territorio soggetto a vincoli, 1 ogni 290 Kmq, con centinaia di migliaia di progetti autorizzati da Comuni e Regioni da vagliare.

Invece si vogliono ridurre ancora di più controlli e tutele. Con una politica che ci pone fuori dall’Europa più civile. Ma, ovviamente, pretendiamo che altri milioni di turisti visitino un Belpaese ridotto sempre più ad asfalto e cemento.

Ma il nostro è un Paese di furbi. O di cretini?

L’Unità 30.03.14

"La partita delle riforme è aperta. Anche quella dell’Italicum", di Ninni Andriolo

Il disegno di Legge costituzionale che varerà il Consiglio dei Ministri non sarà la fotocopia del documento presentato dal premier durante la conferenza stampa del 12 marzo scorso. Il governo ha trattato, e domani la sua proposta si discosterà da quella che disegnava un Senato bollato come «dopolavoristico» a Palazzo Madama. La maggioranza si attende un testo non blindato e punta a strappare ulteriori miglioramenti, senza rompere tuttavia il patto per approvare prima delle europee la «riforma storica che cancella il bicameralismo». Chi sperava che il governo si limitasse a dire la sua, rimettendosi al Parlamento, rimarrà contrariato. Ma al di là della «propaganda e degli annunci muscolari» anche questa volta – in realtà – il presidente del Consiglio deve prendere atto della necessità di trattare e mediare. Il testo che arriverà da Palazzo Chigi non risponderà ai molteplici auspici dei parlamentari, ma rivaluterà il Senato rispetto alla bozza iniziale. Sarà diverso, quindi, da quello che lo stesso Renzi auspicava. Si capirà domani in quale misura e quale potrà essere, di conseguenza, l’iniziativa «per migliorarlo ulteriormente» che continuerà a Palazzo Madama, fermo restando l’impegno del Pd e della maggioranza a varare la riforma entro il 25 maggio. Oltre la disputa sui compiti e sulle prerogative da assegnare al “nuovo Senato” si avverte una spinta trasversale all’elezione diretta dei rappresentanti delle Regioni. Anche il presidente Grasso se ne fa carico.

Renzi tuttavia rimane contrario. Al di là delle tensioni che
emergeranno, e che non vanno sottovalutate, il dato politico è che la trattativa con il governo c’è stata e continuerà ancora. Un doppio livello quello che contraddistingue l’iniziativa di Renzi. Quello della discussione pubblica chiusa magari a colpi di voti di maggioranza – come è accaduto durante la direzione Pd l’altro ieri – e quello più sotterraneo del prendere atto che non basta la forza dei numeri. Un decisionismo che fa i conti con le esigenze di un governo di coalizione e di una variegata maggioranza. E degli stessi gruppi parlamentari del Pd, della forza politica cioè che rappresenta la spina dorsale della coalizione. Venerdi scorso, mentre blindava in direzione il decreto Poletti, Renzi ricordava che il patto con Berlusconi sulla legge elettorale – considerato in un primo tempo immodificabile – era stato migliorato alla Camera. Quell’intesa reggerà dopo la decisione del Tribunale di sorveglianza di Milano sul leader di Forza Italia? Reggerà dopo i risultati delle Europee, se questi dovessero rispecchiare i sondaggi che segnano la progressiva flessione degli azzurri? Il caos di queste ore evidenzia un partito azzurro pervaso da faide e divisioni. E lo stesso Verdini, accreditato come ambasciatore di Berlusconi presso il premier, è uno dei bersagli delle faide in atto in Forza Italia. E questo mentre Berlusconi oscilla tra la disperata necessità di ritrovare un’interlocuzione con Renzi che lo rimetta al centro della scena e la spinta inversa a recuperare un’impronta d’opposizione che riapra spazi elettorali a Forza Italia. Come si rifletterà questo sul cammino delle riforme è tutto da capire. Ieri, mentre i giornali parlavano di nuovi contatti tra Renzi e Verdini, il capogruppo Fi al Senato, Romani, attaccava il premier per la precedenza data dal Senato alla riforma costituzionale su quella elettorale. Sul cammino dell’Italicum pochi sono disposti a scommettere ancora, in realtà. Gli stessi azzurri temono di pagare alle politiche il ruolo di terza forza – dopo Partito democratico e grillini – al quale dovrebbero condannarli le Europee.

E lo stesso Renzi, pur continuando a battere sulla necessità di varare presto la riforma elettorale, dovrà prendere atto che non ci saranno i tempi per varare l’Italicum prima del voto per Strasburgo. Nella maggioranza e nel Pd, tra l’altro, molti prevedono il «default» del testo così com’è uscito da Montecitorio e prevedono una radicale modifica e un nuovo meccanismo «con il doppio turno sul modello dei sindaci». Al di là delle «esibizioni decisioniste», si capirà presto dove condurrà il realismo politico della mediazione e della trattativa.

L’Unità 30.03.14

"Più incentivi meno divieti", di Tommaso Nannicini

La discussione innescata dal decreto Poletti sui contratti a termine ci sta facendo ricadere in una trappola che il governo Renzi sembrava intenzionato a evitare. C’è infatti il rischio di disperdere energie e capitale politico in una discussione sulle regole tanto lacerante quanto inutile, visto che la ripresa dell’occupazione non passerà certo da qualche intervento d’ingegneria contrattualistica

Prima di azzuffarci sfoderando le solite bandierine ideologiche, sarebbe utile fare un passo indietro per chiederci quali obiettivi dovrebbero perseguire le nostre politiche del lavoro. Due su tutti: 1) ridurre il dualismo tra garantiti e non garantiti, costruendo un nuovo sistema di tutele per i secondi; 2) favorire una mobilità socialmente sostenibile dei lavoratori dalle imprese meno produttive a quelle più produttive. Il decreto e il ridisegno complessivo annunciato dal governo vanno incontro a questi obiettivi? Al momento, è difficile rispondere, perché tutto dipende dagli interventi che saranno adottati nei prossimi mesi.

Ci sono pochi dubbi che, lasciato da solo, l’attua- le decreto finirebbe per aumentare il dualismo del nostro mercato. Senza fare nessun progresso sul fronte di una mobilità del lavoro i cui costi siano ripartiti in maniera equa tra lavoratori (e generazioni). Tutto dipende dalla qualità degli interventi che arriveranno con il successivo disegno di legge.

Il problema del decreto non è tanto aver allungato il periodo in cui si può ricorrere al tempo determinato senza causale. La causale è uno strumento “rozzo” di tutela, in quanto aumenta solo i costi burocratici e il rischio di cause di lavoro; costi che gravano sull’impresa senza avvantaggiare il lavoratore. Il vero problema è che si potrà assumere lo stesso lavoratore fino a otto volte nell’arco di tre anni, reiterando contratti di pochi mesi. Si finisce per istituzionalizzare un’incertezza sul proprio lavoro che è allo stesso tempo ravvicinata e prolungata.

Per carità: è chiaro che, a fronte di una ripresa a dir poco timida, le imprese riprenderanno ad assumere a tempo prima d’impegnarsi in contratti a tempo indeterminato. Per questo, quando la riforma Fornero rese più rigidi i contratti a termine, qualcuno fece notare che era pericoloso in un periodo di recessione. Ma quella scelta era il frutto di un compromesso trasparente. Adesso, si deci- de di tornare indietro per meri motivi congiunturali? Come si sposa il decreto Poletti con la riforma complessiva annunciata dal governo? Al momento, non è chiaro.

Una delle novità della riforma dovrebbe essere il famoso «contratto unico a tutele progressive». Il nuovo contratto dovrebbe prevedere un periodo di tre anni in cui l’impresa può licenziare il lavoratore (fatta salva la tutela antidiscriminazione) pagando semplicemente una buonuscita. Dopo tre anni, scatta la tutela reale della normativa attuale.

Molti nodi aspettano di essere chiariti, però. Quanti (e quali) contratti flessibili saranno rimossi o irrigiditi per far posto al contratto unico? Si tornerà di fatto indietro rispetto all’attuale decreto? Se si userà l’accetta, il rischio è di produrre effetti negativi sull’occupazione, colpendo anche quella flessibilità in entrata che risponde a reali esigenze produttive od organizzative. Se non si toglierà niente, però, il contratto unico sarà del tutto inutile.

Per far sì che il decreto Poletti non finisca per esasperare la precarietà del lavoro, si potrebbe far leva sugli incentivi economici, anziché sui soliti divieti (facilmente aggirabili), in modo da rende- re più conveniente il tempo indeterminato rispetto a un uso reiterato delle forme flessibili. Per esempio, si potrebbe introdurre una buonuscita compensatoria per qualsiasi forma di lavoro flessibile, esigibile dal lavoratore dopo un prestabilito periodo d’anzianità all’interno di un’azienda, solo nel caso in cui la stessa si rifiuti di stabilizzarlo.

Certo, introdurre una buonuscita (anche se non retroattiva) in un periodo di recessione potrebbe essere insidioso per l’aggravio dei costi delle imprese. Ma l’aggravio scatterebbe solo nel caso in cui un’impresa non sia disposta a stabilizzare lavoratori di cui mostra di continuare ad avere bisogno per un periodo prolungato. Niente cambierebbe per chi usa il lavoro atipico per reali esigenze di flessibilità organizzativa o produttiva.

Qualcuno obietterà che così si rischia di “mercificare” i diritti dei lavoratori. Perché non promuoviamo una bella consultazione diretta, allora, tra i lavoratori flessibili, le finte partite iva e i disoccupati, per chiedergli che cosa ne pensino? Chi vive già in un mercato fortemente dinamico sa che una dote monetaria per muoversi da un’occupazione a un’altra può essere un aiuto prezioso. E soprattutto, dopo anni di interminabili convegni sull’esigenza di creare nuove tutele per i nuovi lavori, sarebbe un primo passo concreto in quella direzione.

L’Unità 30.03.14

"Stipendi, tetto per tutti i dirigenti taglio del 25% nelle società quotate", di Valentina Conte

Estendere anche ai dirigenti il tetto allo stipendio che da martedì prossimo riporterà tutte le buste paga dei manager pubblici (quelli delle società partecipate dal ministero dell’Economia) al livello del primo presidente della Corte di Cassazione. E fare in modo che quel tetto, pari a 311 mila euro, venga calcolato sulla persona e non sull’incarico. E ancora: assicurarsi che le società quotate in Borsa e possedute dal Tesoro — come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna — facciano la loro parte quando a breve rinnoveranno i vertici. E dunque non sfuggano a quel taglio del 25% ai compensi di presidenti e amministratori delegati, scritto nella legge. Ma tutt’altro che scontato, visto che l’assemblea degli azionisti può bocciarlo. Tre snodi fondamentali all’esame del governo in queste ore. E che potrebbero finire nella riforma della Pubblica amministrazione, annunciata per aprile. La direzione è opposta a quella auspicata da Ennio Doris (Medilanum), che ospite di Maria Latella, SkyTg24, si augura sforbiciate solo temporanee ai compensi, per non perdere le menti migliori.
Da una parte dunque, l’esecutivo Renzi è all’opera per evitare un altro paradosso Rai, con il direttore generale Gubitosi che continuerà a percepire 650 mila euro in quanto dirigente, mentre il presidente e anche amministratore delegato Tarantola scenderà tra un paio di giorni a 311 mila. Dall’altra, scongiurare una volta per tutte il ripetersi del caso Mastrapasqua, l’ex presidente Inps assiduo collezionista di poltrone. Chi accetta più di un incarico pubblico, potrà guadagnare in totale e al massimo 311 mila euro. Qualunque sia la combinazione: enti, partecipate, quotate e non. In realtà, la norma c’è. Ma come se non ci fosse. E il governo intende rafforzarla. Il panorama legislativo difatti è assai frastagliato, per quanto riguarda stipendi, tetti, tagli. E le vie per sfuggire ai sacrifici ci sono. Intanto, la soglia pari a 311 mila euro è in vigore da due anni (Salva- Italia di Monti). All’inizio valeva solo per le amministrazioni centrali, poi è stata estesa nel 2012 a tutti i dirigenti e dipendenti di società (non quotate) partecipate direttamente o indirettamente dallo Stato e dagli enti locali, dunque Comuni, Province e Regioni. A partire però dal rinnovo dei Consigli di amministrazione.
Dunque la pletora di municipalizzate è ampiamente dentro questo perimetro. Per dire, vi sono anche l’Atac e l’Atm, le due società di trasporto dei Comuni di Roma e Milano.
La legge di Stabilità del governo Letta ha poi ricompreso nel tetto anche magistrati, professori universitari, Consob, Authority. In pratica, tutti. Mentre per le società quotate e per quelle che emettono bond, cioè obbligazioni, si è fatta un’eccezione. Il tetto non esiste, ma vale il taglio del 25% degli stipendi, a partire dal rinnovo delle cariche. E qui il nodo. Le quotate — come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna — devono approvare il taglio in assemblea. Mentre le altre — come Poste, Cdp, Ferrovie — sono obbligate. Estendere quest’obbligo anche alle quotate — riflessione che il governo sta facendo — aggirando così l’eventuale veto degli azionisti, sembra però complicato. Visto che si tratta di società che rispondono al mercato.
Sia come sia, per ora nessuno sa chi il tetto l’ha rispettato e chi no. La Consob avrebbe aperto già due inchieste per danno erariale contro una ventina di manager pubblici disubbidienti. A complicare la faccenda, le tre fasce introdotte dal ministero dell’Economia. Che valgono però solo per le partecipate del Tesoro e che scattano dal primo aprile (ma i dirigenti nel mirino sono quasi tutti in scadenza). Anche qui un paradosso: se l’ad dell’Atac può guadagnare fino a 311 mila euro, quello dell’Istituto Luce 155 mila (terza fascia) e quello dell’Enav, l’ente nazionale che controlla il traffico aereo (seconda fascia), 250 mila.

La Repubblica 30.03.14

"Troppe domande d’asilo", di Francesco Grignetti

Il ministero dell’Interno annaspa sotto l’urto di tanti, troppi stranieri che accorrono in Italia a chiedere asilo politico. L’anno scorso sono stati quasi 43 mila; nei primi tre mesi dell’anno ne sono arrivati 10.724. Solo ieri le nostre navi militari ne hanno raccolti in mare altri 128. Ma notizie di intelligence parlano di 90 mila profughi siriani già arrivati in Libia, avanguardia di 900 mila in movimento verso l’Europa. E il nostro sistema di accoglienza è prossimo al tilt.

«Quest’anno ci aspettiamo un numero di sbarchi uguale o anche superiore a quello dell’anno scorso», dice il sottosegretario Domenico Manzione, che segue la questione dei rifugiati al ministero dell’Interno. Il punto è che accogliere cinquantamila nuovi profughi non è uno scherzo. Ci sono a disposizione circa 20 mila posti, che nel 2014 saliranno a 30 mila. Ma sono pieni. La settimana scorsa, dovendo piazzare 5000 persone sbarcate in pochi giorni, il ministero ha fatto ricorso alle prefetture chiedendo di assorbire 40/50 profughi ciascuna. «Non potevamo certo lasciarli sul molo di Augusta», spiega Manzione. Eppure c’è chi storce il naso. Arci e Caritas hanno firmato una lettera aperta: «La vicenda della cosiddetta Emergenza Nord Africa è emblematica di un approccio che non paga: non si assicurano condizioni dignitose a tutti i richiedenti asilo, si coinvolgono alberghi e altre strutture inadeguate, si creano tensioni con organizzazioni locali che pure sarebbero disponibili ad accogliere. Evitiamo di fare anche quest’anno gli stessi errori».

Arci e Caritas avrebbero preferito che i nuovi arrivati fossero smistati nel sistema Sprar, che si appoggia non alle prefetture ma agli enti locali. Anche l’Unhcr delle Nazioni Unite, in un’audizione in Parlamento, ha appena auspicato «che il governo italiano intervenga al più presto con un piano per il 2014 che preveda anche il finanziamento alla rete Sprar».

Il Viminale si scontra però con le rigidità di bilancio: siccome lo Sprar dev’essere rifinanziato dal ministero dell’Economia e quest’anno costerà ben 230 milioni di euro, i fondi ancora non sono arrivati e si gratta il bilancio residuo delle prefetture.

Di fronte a numeri così imponenti, intanto, il governo sta studiando soluzioni strutturali. La prima l’ha annunciata qualche giorno fa il ministro Angelino Alfano: aumentare il numero delle commissioni ministeriali che devono stabilire se ogni richiesta di asilo sia fondata oppure no.

Attualmente il richiedente asilo può attendere fino a un anno per avere la risposta. Nel frattempo, però, non ha documenti sufficienti per muoversi in Europa (e se lo trovano in Germania o in Francia lo rispediscono indietro) e tocca allo Stato italiano garantirgli vitto e alloggio. Con più commissioni, i tempi potrebbero ridursi a sei mesi. Dimezzare i tempi di attesa significa dimezzare anche i costi di diaria. E a quel punto l’asilante avrebbe diritto a un permesso di soggiorno valido per l’area Schengen e magari raggiungere i parenti dovunque essi siano.

La seconda mossa del governo Renzi si giocherà nel Semestre europeo: far partire finalmente quella missione dell’Unione europea che doveva subentrare a Mare Nostrum. C’era una promessa dell’agenzia Frontex. Subito dopo la strage di Lampedusa anche molti governi del Nord Europa sembravano mossi a compassione. Ma i mesi sono passati e le posizioni sono tornate ad irrigidirsi. Eppure se ci fosse una missione Frontex di «search and rescue», ossia di ricerca e salvataggio, sull’arco che va da Malta alla Spagna, non soltanto il peso economico della missione sarebbe meglio distribuito tra i Paesi membri, ma anche i numeri dell’accoglienza.

La stampa 30.03.14

Quel messaggio ai violenti: da oggi nessuno può sperare nell’impunità", di Michela Marzano

«La sentenza è giusta. Anche se nulla potrà ripagarmi». È con queste parole che Lucia Annibali ha commentato la sentenza di condanna del suo ex fidanzato, che aveva pagato due sicari per aggredirla con l’acido. Vent’anni di reclusione per stalking e tentato omicidio, come era stato richiesto dal pubblico ministero. Per punire in modo esemplare un crimine esemplare. E mostrare così, speriamo una volta per tutte, che la violenza contro le donne non può restare impunita, che gli uomini violenti non possono più farla franca, che la giustizia, anche in Italia, può fare il proprio lavoro. Certo, nulla potrà mai ripagare Lucia per la sofferenza e l’umiliazione subite. Nulla potrà mai ridarle quello che ha perso per sempre. Nulla potrà cancellare quei mesi di lotte per non lasciarsi travolgere dal dolore ed andare avanti. Ma, adesso, Lucia non sarà più solo un simbolo delle violenze contro donne. Sarà anche il simbolo di una giustizia che, senza cadere nella trappola della vendetta, riconosce alle vittime della brutalità maschile il diritto di essere prese sul serio. Certo, il dramma delle violenze che tante donne subiscono quotidianamente non si risolve solo attraverso la punizione. Come accade ogni volta che si è di fronte ad un problema strutturale, per affrontare adeguatamente questa piaga contemporanea è necessario anche cominciare ad agire sulle cause, organizzando un serio piano di prevenzione. Si dovrà, prima o poi, affrontare concretamente la questione della riscrittura della grammatica delle relazioni affettive, insegnando a tutti, fin da piccoli, la necessità del rispetto dell’alterità e della dignità di ogni essere umano, indipendentemente dal sesso, dal genere o dall’orientamento sessuale. Si dovranno finanziare i centri anti-violenza e proteggere le vittime. Si dovrà trovare il modo per aiutare quegli uomini che, rendendosi conto della propria incapacità a controllare l’aggressività e la frustrazione, cercheranno il modo per evitare di passare un giorno all’atto. Ma come fare a portare avanti strategie di questo tipo se non c’è prima l’azione effettiva e simbolica della legge che interviene per punire i colpevoli?
Condannare i colpevoli e applicare la legge è il primo passo per lottare contro le violenze di genere. Non tanto e non solo per riparare i torti, perché quelli, molto spesso, non possono essere riparati. Quanto per dare a tutti un segnale chiaro e preciso: ci sono cose che non si fanno, crimini che la nostra società non è disposta a tollerare, gesti che saranno duramente sanzionati. Nulla è peggio del sentimento di impunità, quel “tanto poi non succede niente” che ha fino ad ora permesso a tanti uomini violenti di continuare ad agire come prima, di non rimettersi mai in discussione, di pensare che non ci fosse nulla di male a perseguitare o picchiare una donna, a deturparla col l’acido o ad ucciderla. Troppe volte gli uomini maltrattanti ne sono usciti indenni. Troppe volte le donne vittime non sono state ascoltate. Troppe volte sono state lasciate sole, talvolta anche rese responsabili di quanto stavano subendo.
Lucia Annibali porterà per sempre con sé i segni della violenza subita. Quell’acido ricevuto in pieno viso per deturparne i contorni e le forme. Quella volontà di cancellarne la specificità, costringendola all’anonimato dell’informe. Ma sarà anche, e per sempre, il simbolo della capacità che tante donne hanno di battersi e di andare avanti per riconquistare la propria soggettività. Sarà anche, grazie alla sentenza di ieri, il simbolo di una giustizia che accoglie e riconosce veramente il dolore delle vittime, punendo i carnefici in modo esemplare.

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Sfigurata con l’acido condanna esemplare all’ex fidanzato di Lucia

Pena massima (20 anni) a Varani, 14 agli esecutori “Io un simbolo? Avrei preferito non diventarlo”

Ci sono anche gli applausi, per Lucia. «Auguri, brava, forza». Il primo ad uscire dall’aula dove si è svolto il processo con rito abbreviato e a porte chiuse è il procuratore capo Manfredi Palumbo. «Vent’anni a Luca Varani, quattordici ai due albanesi Altistin Precetaj e Eubin Talaban»: il massimo della pena possibile con il rito abbreviato. L’avvocatessa Lucia Annibali si avvia verso la Procura, dove incontrerà i cronisti. «Non volevo certo diventare un simbolo», mormora. Ecco, il processo è finito e il giudice Maurizio Di Palma accoglie in pieno le richieste dell’accusa. Solo i 18 anni chiesti per i due albanesi diventano 14 per l’unificazione di due aggravanti.
Nell’ultima udienza, dedicata alle repliche di accusa e difesa, c’è stato un piccolo giallo. Il Pm Monica Garulli, mostrando una foto dell’appartamento dove è avvenuta l’aggressione, attraverso un ingrandimento indica un orologio abbandonato su uno zainetto. «Non è il mio», dice Lucia. E l’avvocato di Luca Varani, Francesco Maisano, fa mettere subito questa frase a verbale. «Perché quell’orologio non è stato repertato? Se l’Annibali dice che non è suo, allora potrebbe essere stato abbandonato dagli aggressori. Ci potrebbero essere tracce di Dna…».
Il giallo viene presto chiarito. I carabinieri portano i genitori di Lucia nella casa di Urbino, recuperano l’orologio e lo portano in aula. «Lucia — dice il suo avvocato Francesco Coli — non vede bene. Si è sbagliata, quando ha detto che quell’orologio non era suo. Si tratta di un Breil che Lucia aveva riconosciuto come suo e che le era stato consegnato qualche mese dopo l’aggressione».
La difesa di Luca Varani, in questo lungo processo «abbreviato», ha puntato su una tesi: l’uomo voleva soltanto fare uno «scherzo odioso» a Lucia Annibali. Aveva detto ai due albanesi di buttare l’acido sull’auto nuova dell’avvocatessa, un’Audi, e non certo di rovinarle la faccia. «Sono responsabile — aveva dichiarato l’imputato di lesioni gravissime e tentato omicidio — perché poi non ho avuto il dominio della situazione».
La condanna conferma però le richieste dell’accusa e gli avvocati Roberto Brunelli e Francesco Maisano annunciano che ricorreranno in appello.
«Qui a Pesaro c’è stata troppa tensione. Senza il rito abbreviato il nostro assistito avrebbe preso trent’anni e ormai trent’anni non si danno nemmeno a un omicida. Cosa ha detto Luca Varani dopo la sentenza? Se l’aspettava, proprio perché il processo si è svolto a Pesaro. Sono convinto che in appello ad Ancona ed eventualmente in Cassazione avremo altre sentenze».
Per gli avvocati della difesa ci sono anche le grida delle donne dell’Udi.
«Vergognatevi», dicono. «Gli avvocati — risponde secco il difensore Maisano — difendono il giusto processo».
( j. m.)

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“L’incubo è finito”, di JENNER MELETTI JENNER MELETTI

«Voglio una vita tutta mia, una vita felice». Lucia Annibali la ripete più volte, la parola felicità. È appena uscita dall’aula del tribunale dove, per tante sedute, è riuscita a non guardare mai in faccia l’uomo che l’ha fatta sfregiare. Non ha mai pronunciato il suo nome. Adesso, stretta fra il comandante dei carabinieri Giuseppe Annarumma, il Pubblico ministero Monica Garulli e il suo avvocato Francesco Coli, riesce a guardare in faccia i tanti cronisti che le sono di fronte. A sorridere alle telecamere. «L’incubo è finito», dice. Sembra davvero che felicità non sia una parola proibita.
Avvocatessa Lucia Annibali, dove ha trovato questa forza?
«Dentro di me. Anche nei primi 45 giorni di ospedale, quando avevo il volto distrutto e non riuscivo a vedere, ho capito che solo dentro me stessa avrei trovato la forza di reagire. Volevo riprendere la mia vita per uscire dall’incubo e per non dare soddisfazione a chi aveva tentato di distruggermi. L’ho fatto per me, per la mia famiglia, per i miei amici. Lucia, mi dicevo, devi tornare a vivere».
È stato difficile passare tante ore a pochi metri dall’uomo che lei non vuole nominare?
«Quando ha parlato, non l’ho ascoltato. Certo, è stata una prova difficile, ma io mi sono concentrata su me stessa, su ciò che è positivo.
Io so di essere forte. Questa consapevolezza mi ha salvato».
Che progetti ha, per i prossimi giorni?
«Intanto ho un altro intervento all’ospedale di Parma. Voglio che il mio viso sia sempre più bello e voglio anche godermela, questa faccia, così diversa da quella che vidi nei primi giorni di ricovero».
Cavaliere della Repubblica, l’omaggio del Presidente al Quirinale… Lei si sente un simbolo?
«Certo, non avrei voluto diventarlo. Non avevo certo in testa questo obiettivo. Ma se posso essere d’aiuto per le altre donne, mi va bene. Adesso però, lo ripeto, mi sento cambiata. Voglio soprattutto vivere una vita che mi renda serena e felice. Io questa vita non l’ho ritrovata per caso: l’ho riconquistata».
Vent’anni di carcere al suo ex, 14 ai due albanesi che hanno buttato l’acido. Lei disse, dopo la richiesta dell’accusa, che 20 anni le sembravano pochi.
«Non dissi così. Dissi che questa era la pena massima che la Procura poteva chiedere. Voglio essere chiara: per quello che mi è stato fatto, non c’è condanna che possa ripagarmi. Una condanna c’è stata, una sentenza è stata scritta. Ma io devo pensare al mio futuro, concentrarmi sulla mia nuova vita, non guardare al passato ».
Qualcuno le ha già parlato di perdono?
«Anche questo farebbe parte di un passato che oggi si ferma. Dentro di me ci sono sentimento positivi. Non ho mai coltivato rabbia e rancore. Vede, se rischi di perdere la vita, di perdere tutto, poi riesci davvero ad apprezzare le cose belle. La vita ha un sapore diverso».
Il primo pensiero, dopo che il giudice Maurizio Di Palma ha letto la sentenza?
«Adesso, mi sono detta, posso respirare. E possono respirare assieme a me la mia famiglia ed i miei amici. Il primo pensiero, comunque, è stato per la Procura e per i carabinieri. Hanno fatto un buon lavoro e oggi hanno avuto soddisfazione. Una condanna, comunque, non riesce a cancellare il tanto male che mi è stato fatto. Quale male? Ma avete visto il mio volto? È giusto che chi ha commesso questo scempio sia punito nel modo che il giudice ha ritenuto più opportuno. Mi va bene così ma la sentenza non mi libera da una vicenda che resta molto triste e non ha nessuna giustificazione. Non c’era bisogno di arrivare
a tanto».
Il 16 aprile sarà passato un anno dall’aggressione. Non sarà stato facile, ma in questo anno c’è stato qualche momento bello?
«Sì, quando dopo un mese e mezzo di ospedale i medici, che anche oggi ringrazio ed abbraccio, mi hanno detto che potevo alzarmi dal letto e che per qualche
giorno potevo tornare a casa. Rimettersi in piedi è stata una cosa grandiosa. Un’emozione, ritrovare le proprie gambe. Quel mese e mezzo mi è sembrato una vita intera. Il momento più brutto? Non devo nemmeno pensarci: è stato quando mi è arrivato l’acido in faccia ed ho capito che potevo morire».
Un uomo che aveva amato è diventato il suo carnefice. Dall’amore al tentato omicidio con il gas, all’acido in faccia…
«Paradossalmente, quando sono stata aggredita, ho vissuto come una liberazione. Ho capito il passato, sono riuscita a riprendere in mano le redini della mia vita. E non mi rimprovero. Non puoi prevedere simili atrocità. Ho fatto pace con me stessa già nel letto di ospedale. Io sono la vittima senza colpe, lui è l’aggressore ».
Le ustioni sul volto e su una mano. In ospedale ha incontrato tante persone ferite…
«Agli ustionati io dico: credeteci sempre. Ogni minuto e ogni giorno.
Il percorso è lungo e doloroso, ma è un cammino che porta avanti. Si torna alla vita, anche se non è perfetta. Per questo ringrazio ancora i medici e gli infermieri di Parma, che mi hanno sempre detto: Lucia, puoi farcela. E lo dicevano anche quando avevo una faccia che era solo una grande ferita».

La Repubblica 30.03.14