attualità, memoria

"D’Ambrosio, una vita a difesa della giustizia", di Oreste Pivetta

La strage di Piazza Fontana, la morte di Giuseppe Pinelli, lo scandalo di Tangentopoli, momenti indimenticabili e insuperati, malgrado gli anni trascorsi comincino ad essere tanti, momenti per tutti di rottura e di svolta. Li affrontò con senso di responsabilità, con profondo rispetto non solo della legge ma della cultura democratica e civile di un Paese, con la consapevolezza di un ruolo che non poteva essere tradito da opinioni personali, buone o cattive, per amore della verità ben conoscendo i limiti di ogni ricerca della verità. Anche con fatica (aveva sofferto di gravi malanni cardiaci). «Un uomo sopra le parti, nonostante i suoi convincimenti politici», lo ricorda Francesco Saverio Borrelli. Un «magistrato integerrimo»: la definizione sarebbe giusta se non tradisse ritualità, abitudine, esercizio retorico. Gerardo D’Ambrosio era soprattutto un uomo colto e onesto, verso se stesso, per gli altri, davanti ai codici. Lo hanno contato tra le «toghe rosse» milanesi. O addirittura qualcuno lo ha apostrofato alla stregua di «capo delle toghe rosse». Un pallido insulto, che faceva e fa sorridere, considerando le qualità di Gerardo D’Ambrosio.

Lo si poteva incontrare nel suo ufficio dentro Palazzo di Giustizia a Milano. Lo si poteva ascoltare al telefono, per un’intervista, quando ormai aveva lasciato la magistratura ed era entrato in Senato. Colpivano subito quei modi eleganti, raffinati e discreti. Colpiva quel suo accento campano, che restava malgrado i de- cenni trascorsi al Nord, a Milano. Colpivano la disponibilità, la gentilezza e quel modo paziente, pedagogico, di spiegare a chi l’ascoltava come «stavano le cose». Rivelava, negli ultimi anni, la sua amarezza. Lo spiegò in un intervista all’Unità: amarezza per quanto era stato scoperto, denunciato, perseguito, e per quanto, comunque, nel malaffare, nella corruzione, nell’offesa alle istituzioni si era ripetuto negli anni, in una sorta di «tangentopoli infinita». «Il problema del- la corruzione – disse di recente – c’è sempre. Se i risultati sono inferiori al periodo d’oro, quello di Mani Pulite, è solo perché si sono creati gli anticorpi, è stato fatto tesoro dell’esperienza di quegli anni per sottrarsi alle indagini».

Gerardo D’Ambrosio s’era occupato di piazza Fontana, del bomba del dicembre 1969, e grazie al suo coraggio (e al coraggio e all’obiettività di magistrati come Giancarlo Stiz ed Emilio Alessandrini, assassinato dai terroristi di Prima Linea) si giunse all’incriminazione di Franco Freda e di Giovanni Ventura, alla individuazione quindi di quella matrice fasci- sta della strage (Freda e Ventura erano già stati incriminati per le bombe ai treni dell’estate dello stesso anno).

Gerardo D’Ambrosio s’era occupato anche della morte di Giuseppe Pinelli, nella notte che precedette l’arresto di Pietro Valpreda. Gli era toccato il compito di ricostruire quanto era avvenuto dentro un ufficio della questura, a Milano, in via Fatebenefratelli. Non era riuscito a concludere la sua inchiesta come avrebbe voluto, interrogando il commissario Calabresi, ultimo teste, ucciso po- chi giorni prima l’appuntamento. Le conclusioni di Gerardo D’Ambrosio (il «malore attivo») mossero nei suoi confronti polemiche e accuse violente da parte di alcuni ambienti di sinistra (e in particolare di Lotta Continua). Ma D’Ambrosio, giudice istruttore, nella sentenza depositata il 27 ottobre 1975, ebbe parole durissime a proposito dei comportamenti della polizia e del questore. Citò la conferenza stampa, quando il questore dichiarò: «Era fortemente indiziato», «Ci aveva fornito un alibi ma questo alibi era completamente caduto», «Il funzionario e l’ufficiale gli hanno rivolto una ultima contestazione… Poi sono usciti dalla stanza. D’improvviso Giuseppe Pinelli è scattato. Ha spalancato i battenti della finestra socchiusi e si è buttato nel vuoto» … Colpevole dunque. Af-ermazioni vili e menzognere, scrisse D’Ambrosio, rese perché gradite ai superiori, «strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici». Gerardo D’Ambrosio non s’era arreso a un «senso comune» pseudo istituzionale, a un pseudo rispetto del «potere». Per quanto gli era stato possibile aveva difeso una persona, aveva cercato di restituire dignità e giustizia a una persona.

Gerardo D’Ambrosio s’era occupato di Tangentopoli, di Mani pulite. Il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli lo volle coordinatore del pool, del quale all’inizio fecero parte magistrati come Di Pietro, Colombo, Davigo. Era il 1992: il 17 febbraio il socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu colto in flagrante mentre incassava la sua tangente. «Un mariuolo» lo definì Bettino Craxi. L’onda si estese travolgendo ogni confine. L’onda continua.
Nato a Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, era entrato in magistratura nel 1957 ed era arrivato al tribunale di Milano dopo un primo incarico a Voghera. Nel 1981 venne assegnato alla Procura di Milano con funzione di sostituto, per otto anni. In questo periodo sostenne l’accusa nei primi processi per terrorismo e nel processo conseguente allo scandalo dei petroli. Condusse inoltre le istruttorie relative agli illeciti del Banco Ambrosiano, che vedevano tra gli altri imputati Roberto Calvi. Lasciò la magistratura nel 2002, per limiti d’età. Entrò in politica nel 2006, nelle file dei Democratici di sinistra, e fu eletto al Senato, dove rimase fino al 2013.

Il 21 maggio 2012 il consiglio comunale di Santa Maria a Vico, sua città natale, gli negò la cittadinanza onoraria. Il sindaco Alfonso Piscitelli (Pdl) motivò il suo no dichiarando: «Riteniamo che D’Ambrosio non abbia volato troppo in alto, non sia stato al di sopra delle parti».

La Repubblica 31.03.14