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«Antieuropeismo, collante di nuovi fascismi», di Rachele Gonnelli

Una marea nera che si espande, si ramifica, si struttura in collegamenti e derivazioni. Per il professor Carlo Smura- glia, presidente nazionale dell’Anpi, partigiano, giuslavorista, il diffondersi di movimenti di estrema destra in Euro- pa deve far innalzare il livello di allerta, culturale e istituzionale, anche in Italia. «Vediamo processi di possibile saldatura tra formazioni di derivazione dichiaratamente neonazista, neofascista e al- tre forze e movimenti con connotazioni più o meno razziste e xenofobe, basate sull’odio del diverso. Questa possibile saldatura attraverso un collante potenzialmente unificante che è l’antieuropeismo può essere detonante e deve imporre una risposta articolata, anche di tipo normativo», denuncia citando lo storico francese Pierre Milza secondo il quale la storia anche se non si ripete uguale a sé stessa è bene ricordarne le varianti precedenti, per evitare esiti similmente disastrosi, come la fine della Repubblica di Weimar e la resistibile ascesa di fascismo e nazismo. Professore, però le bande di Pravyi Sektor a Kiev non sono certo uguali ai sostenitori del Front National in Francia. E il successo referendario anti-immigrati in Svizzera non può essere paragonato al razzismo di Alba Dorata in Grecia o di Jobbik in Ungheria.
«Certo, però si intravede una tendenza, che del resto segnaliamo da diverso tempo e che ora sembra approfondirsi. La destra tradizionalmente liberale e conservatrice assume connotati nuovi, populistici, razzisti e autoritari. È un an- dare più in là che coinvolge persino la Norvegia dove una nuova destra in asce- sa, pur non assumendo connotati dichiaratamente neofascisti, assume elementi che colorano gli orientamenti in senso populista, omofobo e razzista mai visti finora nei Paesi scandinavi. E ci sono segnali allarmanti di un tentativo di coordinamento a livello europeo che vengono anche dall’Italia. Ci sono stati recenti raduni a Milano e nel Veneto».
Sta dicendo che ci sarebbe un tentativo di creare una internazionale nera? «Questa internazionale nera di cui si parla ancora non c’è ma si sta formando. C’è il rischio di una saldatura con fenomeni più estesi e caratteristiche
che anche se non sono le stesse, si somigliano. Bisogna sempre ricordare che il fascismo e il razzismo sono due cose diverse, ma il fascismo è anche razzismo. L’affermazione di Marine Le Pen ha connotati particolari, raccoglie anche un diffuso malcontento popolare, un voto di protesta e di disagio. Infatti non ha portato via voti alla destra repubblicana dell’Ump, ha pescato nelle banlieue e in ceti popolari in difficoltà che posso- no essere strumentalizzati o possono capire male, cercare un’uscita a destra dalla crisi. Certo che Alba Dorata, che porta simboli nazisti ed entra al Parla- mento di Atene col passo dell’oca, è al- tra cosa. Però è l’unificazione di tutte queste forze centrifughe per l’Europa che deve preoccupare».
Alba Dorata, cambiando solo nome in Alba Nazionale intende ripresentarsi anche alle prossime elezioni europee. Non ci sono norme a livello europeo che posano bloccare la presentazione di liste neonaziste e neofasciste?
«Gli strumenti di questo tipo sono sempre abbastanza modesti. Inoltre spesso queste forze quando si presentano alle elezioni tendono a presentarsi non con l’aspetto peggiore, perché, tra l’altro, cercano di prendere i voti anche di persone che non hanno un orientamento così definito. Perciò risulta difficile controllare le liste. Anche da noi liste razzi- ste e fasciste, anche se non si presenta- no in camicia nera, sono state ammesse. In un caso di ricorso fu presentata un’interrogazione parlamentare e il governo dichiarò la sua impossibilità a intervenire di fronte a una decisione della commissione elettorale. Mancano strumenti normativi ed è rischioso, non tanto per le percentuali spesso irrisorie che ottengono queste liste, ma perché in questo modo cercano di accreditarsi, acquisire una credibilità, psicologica prima che politica, che fa danni. Anche quando siamo intervenuti per impedire raduni e cortei, l’unico strumento è la legge Scelba che vieta la ricostituzione del partito fascista. Secondo la nostra interpretazione non è così. Non c’è solo quella legge ma è tutta la Costituzione che è imperniata sull’antifascismo.
Non c’è solo la XII disposizione transitoria che esclude la ricostituzione del partito fascista, ma qualunque articolo del- la Carta, a partire dall’articolo 3 che ne è il fulcro, serve a tutelare le libertà, contro ogni discriminazione e autorotarismo. In ogni caso, proprio per fare il punto sugli strumenti giuridici e politici e rafforzare una cultura dello Stato contro queste manifestazioni da non tollerare, perché estranee al corpo della Costituzione, come Anpi e Istituto Alcide Cervi organizziamo per il 31 marzo una approfondita riflessione a Roma, all’hotel Nazionale in piazza Montecitorio».
La Lega Nord raccoglie le firme per abolire con un referendum la Legge Mancino. Mentre l’ex ministra Cécile Kyenge intendeva rafforzarla all’interno del suo piano di lotta alle discriminazioni e al razzismo. Che fine farà?
«Per ora la Legge Mancino c’è e si tratta di applicarla. Non so fino a che punto sia entrata nella cultura giuridica. Si fa ancora poco riferimento a questa legge, si dice che riguarda solo il razzismo e non il fascismo ma, ripeto, per noi i connotati dei due fenomeni sono simili. Va un po’ corretta, vanno precisati alcuni punti ma solo per renderla più efficace, ad esempio contro inquietanti manifestazioni di razzismo in tv e sul web. Se si dice che si deve sparare contro gli immigrati, è un affermazione grave, è razzismo. C’è molta indifferenza tanto nelle istituzioni quanto nella scuola, dove è sparita l’educazione civica, dove non si insegna la Costituzione e non si insegna la cultura democratica».
Tra gli adolescenti serpeggia una banalizzazione dei simboli e degli slogan nazisti e fascisti. Forse perché usati allo stadio o perché fanno riferimento ad eventi considerarti troppo lontani nel tempo?
«La Legge Scelba all’articolo 9 dice che il governo favorisce nelle scuole l’insegnamento di ciò che è stato il fascismo, anche se questa norma non è stata mai applicata e la scuola finora ha fatto po- co per la formazione dei cittadini e l’insegnamento della nostra storia recente con fredda oggettività. La scuola è il primo agente formativo, subito dopo vie- ne la famiglia. C’è da dire che con l’ex ministro della Pubblica istruzione Ma- ria Chiara Carrozza avevamo raggiunto un’intesa, che stava per essere formalizzata, per impostare un lavoro di diffusione della conoscenza storica e di educazione alla cittadinanza. Un progetto al quale collaboravamo come Anpi insieme all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione nazionale in Italia, che coordina istituti e centri di studio storici avvalendosi anche de- gli strumenti più moderni. Poi è cambiato governo e ora non si sa più se questo progetto andrà avanti. Proprio in questo quadro abbiamo realizzato, anche con contributi pubblici, un numero speciale della nostra rivista, “Patria”, per il 70esimo della Resistenza. Abbiamo in stampa un gran numero di copie di questo materiale che sarà distribuito il mese prossimo a titolo gratuito e speriamo di legarlo a progetti di insegnamento nelle scuole. Sarà un tassello importante per combattere i tentativi di fascinazione dei giovani che i vari movimenti neofascisti adoperano, anche tramite lo sport e le canzoni».

L’Unità 29.03.14

"Il Pil della poesia ecco perché i versi valgono un tesoro", di Irene Maria Scalise

Italiani popolo di poeti, soprattutto se poesia fa rima con l’anglofono “brand”. Il segreto è tutto lì: abbinare quella parolina inglese, traducibile con qualcosa a cavallo tra marchio e riconoscibilità, a piccoli paesi e autori celeberrimi. L’equazione matematica trasforma borghi, altrimenti ignoti, in luoghi di grande bellezza. I Colli dell’ Infinitofanno triplicare la riconoscibilità di Recanati e La montagna incantataquella di Tenno. Aci-Trezza risplende con I Malavoglia.
Bolgheri furoreggia per I Cipressi. Sirmione rivive le vacanze di Catullo e Longone quelle di Gadda. E così, l’italica prospettiva di sconfiggere la crisi, per una volta è slegata da pizza e mandolini. Centri minori, grazie ai letterati che in quei siti sono nati, hanno soggiornato o sono andati in vacanza, diventano famosi in tutto il mondo.
Mentre infuria la polemica sulla profana ipotesi, assai malvista dal ministro Franceschini, di far sorgere una “country house” sui luoghi dell’infinito di Leopardi, l’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Monza fornisce una mappatura del business della poesia. «Il marchio va oltre l’indotto», spiega Renato Mattioni, segretario generale della Camera di Commercio, «si tratta di un valore economico intangibile che comprende l’indice di reputazione, la vivacità economica, il valore del territorio e la conoscibilità dei luoghi ». Il risultato? Stupefacente. Recanati, grazie a Leopardi, ha un aumento di valore di 1,4 miliardi di euro. I Malavoglia donano ad Aci Trezza 826 milioni. Catullo arricchisce Sirmione di 577 milioni. Levi regala ad Eboli 500 milioni e Collodi 389 alla sua città. E così via per più di venti località. Storceranno il naso i paesi vicini (ad esempio Corridonia distante da Recanati solo 24 chilometri), guardando località gemelle per clima, stile e attitudini, che valgono cento volte in più. Pazienza, succede in tutto il mondo, c’è chi ha maggior fortuna degli altri. La Torre Eiffel di Parigi vale 434 miliardi di euro, il Colosseo 91 miliardi e la Sagrada Familia 90 miliardi.
«Rivalutare la storia e i territori mentre tutti guardiamo alla tecnologia», suggerisce il sociologo Aldo Bonomi autore dellibro Dalla smart city alla smart land, «è una rivoluzione che fa capire quanto può essere un valore la nostra cultura pur se lontana dalla modernità». Per Bonomi vince la tradizione: «La Fondazione Marche ha finanziato un film sulla vita di Giacomo Leopardi, realizzando un investimento sul territorio. Pensiamo a cosa sarebbe Sansepolcro senza Piero della Francesca o la Sicilia senza Sciascia». La macchina del turismo è la prima a rallegrarsi della possibilità di riaccendere le braci del marketing territoriale. Spiega Cristina Tasselli direttore BIT: «La storia è fondamentale, ma non basta ci vuole la reputazione. Il Canada ha conquistato il primo posto, seguito da Svezia e Svizzera, nel Reputation Institute ». Un’occasione perduta per l’Italia? Sembrerebbe, sentenziano da New York: «C’è una stretta correlazione tra la reputazione di un Paese e la decisione di visitarlo. La reputazione è denaro che alimenta l’economia».

La Repubblica 29.03.14

L'Europa cambia se cambia l'Italia e l'Italia cambia se la cambia il PD

“Questa Direzione vuole segnare il punto della situazione del partito per il governo e le future scadenze. Solo parzialmente affronterà il tema delle europee. Una nuova riunione sulle liste elettorali, verrà fissata nella settimana tra il 7 e il 13, magari lunedì 7 o martedì 8 aprile.” Lo ha annunciato il premier e segretario del PD Matteo Renzi, aprendo i lavori della Direzione del PD.

Il PD come motore di cambiamento. “Il PD a 60 giorni dalle prossime elezioni è il motore del cambiamento, ha la responsabilità di aver messo in moto un cantiere che suscita aspettative e speranza. Gli italiani ci danno fiducia, ce lo dice il clima, e sarebbe letale tradirla. Per questo ci vuole un lavoro pancia a terra nei prossimi giorni.
Vorrei che alcuni Comuni – e cito sempre Prato – tornassero a guida PD. Prato è un simbolo del riscatto per me. Noi abbiamo preso degli impegni, durante le primarie, che ora dobbiamo mantenere: a Palermo un importante appuntamento sull’Europa e sul Mediterraneo, dove inviterò Martin Schulz; un evento a Trieste sulla cultura, legata all’innovazione; un grande evento sulla scuola che propongo di fare a Bari, insieme a Firenze la città più grande che va al voto; a Torino, con Piero Fassino, faremo il vertice europeo sulla disoccupazione giovanile a luglio”.

Amministrative. “Rinnoviamo i consigli regionali del Piemonte e dell’Abruzzo, dove siamo all’opposizione, e mi sembra ormai ufficiale che si voterà in Calabria, altra regione in cui siamo all’opposizione, non credo il 25 maggio”, ha annunciato Renzi. “Giochiamo quindi in trasferta dove vincere vale doppio. Il Pd aprirà la campagna elettorale il 12 aprile a Torino, dove con Sergio Chiamparino ci giochiamo la grande sfida della Regione”, ha aggiunto.

Riforme. “E’ stata impressa un’accelerazione sulle riforme, il percorso presenta delle “difficoltà” ma dobbiamo rivendicare lo straordinario insieme di risultati ottenuti sia in termini di partito che di governo. Il testo sulle riforme costituzionali sarà approvato in CdM lunedì – ha chiarito Renzi – quindi nel mese di marzo come eravamo rimasti d’accordo e abbiamo accolto l’invito di tenere insieme il testo, senza dividerlo. La necessità di fare riforme in tempi certi non nasce da una mia schizofrenia personale – ha detto ironicamente – ma dalla consapevolezza che il rispetto dei tempi è elemento di credibilità con i cittadini e con le istituzioni internazionali”. Renzi ha confermato che “ad aprile il governo farà la riforma della Pa, a maggio la delega fiscale e a giugno la riforma della giustizia”.

Italicum. “Abbiamo deciso di affrontare la legge elettorale dopo che il Senato avrà affrontato il disegno di legge costituzionale di revisione del Senato, del Titolo V e di abolizione del Cnel. L’italicum è passato alla Camera con modifiche generalmente considerate positive da parte di tutto il PD. Per noi fare la legge elettorale insieme anche all’opposizione è un valore e se vogliamo modificarla dobbiamo fare uno sforzo”.

Province. “Il ddl sulle Province è una potente dimostrazione che siamo in grado di cambiare le cose. Stiamo facendo quello che ci chiedono i nostri elettori e che gli avevamo promesso: queste sono le tesi del PD da sempre”, ha detto Renzi. “Con il ddl Province si riduce il numero delle persone che fanno politica in Italia. Questa è una potente dimostrazione di serietà da parte della politica”.

Spending review. “La spending review è il tentativo di ripensare il sistema amministrativo, non il taglia qui taglia lì. E’ un modo di ripensare la forma mentis dell’amministrazione pubblica. La vendita delle auto blu ad esempio, ha una sua componente demagogica oggettiva, nessuno pensa che così si risolvono i bilanci dello Stato. Però è vero che da noi c’è un numero sproporzionato di auto blu rispetto agli altri Paesi”.

Europa e crisi della politica. “Di fronte alla crisi della politica noi rispondiamo avendo il coraggio di usare la politica per cambiare le cose e non come tanti fanno in Europa usando l’antipolitica. Cambiare le regole del gioco in Italia è la premessa per avere voce in capitolo nella discussione europea. Tutti siamo convinti che l’Europa debba riflettere profondamente su se stessa. Ma se non siamo nelle condizioni di fare le riforme a casa nostra, con quale faccia e credibilità andiamo a chiedere all’Europa di combattere la burocrazia se poi in Italia bisogna prendersi le ferie per ritirare un certificato”.

No a nome Renzi sul simbolo per le elezioni europee. “Non esiste che ci sia il nome del segretario sul simbolo per le elezioni europee – ha ribadito ancora una volta il segretario nazionale- sarebbe un errore clamoroso per uno 0,3% in più. Chi vuole vincere le Europee deve fare battaglia”.

Vicesegretari PD: Serracchiani e Guerini. “La proposta di due vicesegretari, nella figura di Debora Serracchiani e di Lorenzo Guerini è per me un elemento di garanzia. Formulerò ufficialmente le loro candidature in sede di Assemblea, ma politicamente già da adesso sono i principali collaboratori a cui chiedo di accompagnare il percorso che stiamo già facendo. Non ho intenzione di gestire il partito come avanza-tempo – ha concluso Renzi – Se le altre aree hanno voglia di confrontarsi noi siamo pronti. Per questo non presento una ipotesi di segreteria, lascio a Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani di verificare”.

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"Barack e Matteo asse anti-austerity", di Paolo Soldini

«Barack Obama per noi è un modella»: nelle parole pronunciate ieri da Matteo Renzi c’era qualcosa di più d’una espressione di cortesia diplomatica verso il Grande Alleato venuto d’oltre Oceano. Almeno per quanto riguarda la politica economica, non c’è dubbio che l’iniziativa dell’attuale amministrazione Usa, nel primo mandato e all’inizio del secondo, sia stata una fonte di ispirazione almeno per gli ultimi due governi italiani.

La cosa è evidente per quanto riguarda le misure per il lavoro, tanto evidente da aver indotto il capo del governo italiano, quando ha voluto definire il proprio progetto, ad usare un anglicismo come Jobs Act, criticabile quanto si vuole sul piano della lingua ma rivelatore efficace della natura delle suggestioni.

Ma non c’è soltanto il lavoro. La campagna che l’attuale amministrazione di Washington sta conducendo da almeno un paio d’anni per convincere Bruxelles e soprattutto Berlino a convertire la politica economica dal rigore alla crescita, dalle strette ai bilanci pure e dure agli investimenti e agli stimoli alla domanda interna, ha aiutato parecchio chi, come soprattutto l’Italia, metteva sui tavoli europei le stesse esigenze. L’America di Obama è stata qualcosa più di un alleato lontano. Quando il presidente mandava il suo ministro del Tesoro a «impicciarsi» in modo alquanto improprio delle decisioni dei consessi Ue, le tensioni con Bruxelles e i tedeschi erano evidenti ma i ministri italiani (e anche spagnoli e francesi) non nascondevano il proprio compiacimento. Così come i governanti di Roma e Parigi non presero certo le parti di Berlino quando Obama e i suoi, prima dell’avvento della große Koalition, criticarono aspramente le scelte neoliberiste del centro-destra di Angela Merkel, praticando ingerenze che in altri tempi sarebbero state respinte con sdegno.

Per quanto riguarda l’economia, i rapporti tra l’Europa e gli Stati Uniti hanno avuto spesso una geometria variabile. Un tempo prevaleva, anche sul piano economico e finanziario, la special relationship con Londra, che ebbe il momento più alto nell’apoteosi liberista di Reagan e della signora Thatcher ma durò ben più a lungo, e anche nell’America ufficiale ha regnato l’ostilità, culturale prima ancora che politica verso il welfare europeo. Con questo presidente democratico, e assai più che con i suoi predecessori della stessa fede politica, la geometria è cambiata. Al punto da indurre buona parte della destra europea – e buona parte della finanza – a diffidare esattamente come la destra americana del quasi socialista che s’è insediato alla Casa Bianca.

Ma negli incontri di Roma non si è parlato solo di economia, dove l’assonanza dei toni è stata evidente e sinceramente conclamata. Fino al punto da far dichiarare a Renzi (previa consultazioni con i partner Ue?) che cercherà di stringere i tempi dell’accordo sull’area di libero scambio Usa-Europa, bloccata dallo scoppio dello scandalo delle intercettazioni illegali americane, addirittura entro il semestre di presidenza italiano. O comunque – ha aggiunto per- ché s’è reso conto d’aver esagerato – entro il 2015. C’era il capitolo dell’alleanza politica, della Nato e degli impegni comuni nella sicurezza. E, ovviamente, l’Ucraina e il rapporto con la Russia di Vladimir Putin.

Anche su questa parte dei colloqui s’è esibita l’intesa. Ma forse qui c’è sta- ta più diplomazia che accordi di sostanza. Alla vigilia del suo arrivo a Roma il presidente Usa era stato chiaro, e abbastanza duro, sulla necessità che gli europei, e particolarmente gli italiani, mantengano gli impegni in fatto di difesa comune, e non solo per quanto riguarda gli F35. A Bruxelles gli osservatori meno giovani debbono aver avuto una sensazione di déjà vu. Da quando esiste la Nato, esiste, per gli americani, la questione del burden sharing, ovvero del riequilibrio in base al quale gli europei dovrebbero contribuire alle spese dell’alleanza per almeno il 2% ciascuno. In tempi di crisi come quelli attuali si tratta di un pio desiderio, giacché le spese militari da questa parte dell’Atlantico scendono quasi dappertutto, anche rispetto alla media dello 0,8% degli anni passati che gli americani trovavano già «scandalosa».

Il contrasto resta. E qualche differenza si percepisce anche rispetto alla questione più attuale, più complicata e potenzialmente esplosiva del che fare con la Russia dopo la Crimea. «Siamo d’accordo sull’Ucraina», ha detto Renzi. Ma l’impressione è che l’accordo ci sia perché nessuno si azzarda, per ora, a scendere troppo nei particolari, anche in materia di sanzioni. È dubbio che gli europei, soprattutto i tedeschi ma anche gli italiani, siano davvero disposti a conformarsi alle attuali intransigenze di Washington. Già arrivano i distinguo di Berlino sulla «cacciata» di Mosca dal G8 e (certi dettagli contano) sulla praticabilità delle profferte per l’eventuale sostituzione del gas russo con quello americano ricavato con il fracking, che in Germania è demonizzato come antiecologico. Niente di drammatico: anche in materia di relazioni con la Russia una certa geometria variabile dei rapporti interatlantici non è una novità, considerato che le differenze esistevano perfino ai tempi dell’Unione Sovietica.

L’Unità 28.03.14

"Voti gonfiati al referendum veneto", di Davide Lessi

Per citare Dostoevskij si potrebbe dire che la famiglia degli indipendentisti veneti è infelice a modo suo. «Il referendum è stato una truffa», tuona dal suo blog il venetista Loris Palmerini. E giù statistiche e diagrammi per spiegare che al voto i partecipanti non sono stati «più di 100 mila». Un numero infinitamente più basso rispetto a quello riecheggiato venerdì sera a Treviso. «Con oltre 2 milioni di voti è rinata la repubblica veneta», aveva annunciato con toni trionfali Gianluca Busato, leader del comitato Plebiscito.eu. La consultazione, sull’onda di quella in Crimea, è rimbalzata sui media internazionali pur non avendo alcun valore legale. Le preferenze correvano sul web, è proprio partendo da internet che le cifre non tornano.

Nessuna «secessione da clic», insomma. Secondo i dati di quattro contatori (Trafficestimate, Calcusta, Semrush e Alexa), che monitorano il traffico in entrata e in uscita in un sito, la media degli accessi quotidiana a Plebiscito.eu è stata di 22,5 mila. Moltiplicando il dato per i sei giorni di voto online si arriva a 135 mila. Cifra che si discosta dagli oltre 2 milioni di voti «ufficiali», il 63 per cento degli aventi diritto in regione. C’è di più. Dall’analisi dei flussi si è scoperto, come riportato ieri dal Corriere del Veneto, che un elettore su 10 si sarebbe collegato dal Cile. Numerosi sarebbero anche gli accessi anche da Germania, Spagna e Serbia. Che il sistema possa avere avuto delle falle lo conferma Davide Pozzi, esperto di web-marketing: «Generare finte mail, compilare dei dati anagrafici o trovare un numero di carta d’identità, tutte cose utili alle votazione, è più facile di quanto si pensi». E così c’è il sospetto che sia stato usato un software per moltiplicare le utenze. «Senza tutti i dati non possiamo esprimerci. Si possono fare stime, come quelle fatte dai contatori come Alexa e pensare che le cifre siano gonfiate. Ma se manca trasparenza sulla comunicazione è difficile».

Busato, tra un’intervista in tv e l’altra in radio, fa spallucce. «Sono tutte congetture, sabato pomeriggio a Sappada (Comune del Bellunese, ndr) smentirò i critici con dei numeri certificati», dice. E cita una commissione di «osservatori internazionali» con a capo un «ex ambasciatore della Georgia». Robe da far impallidire Putin. Ma il leader tira dritto: «Abbiamo già decretato l’obiezione fiscale. Il passo successivo sarà l’adozione di una fiscalità veneta e poi la creazione di un’assemblea costituente». Tutto questo nel radioso domani.

Ieri, intanto, è arrivata l’annunciata analisi del referendum da parte di tre riviste tecnologiche americane (PcWorld, Network World, Computer World). Le uniche, secondo Busato, ad avere i dati. Eppure nell’indipendente stampa estera non c’è una parola sull’attesa «certificazione» del voto. Solo i numeri del comitato e vaghi riferimenti alla storia dell’indipendentismo veneto. C’è una nota di colore: a realizzare i tre articoli – identici in tutte le testate – è stata la stessa persona, tale Philip Willian, dal suo ufficio in centro a Roma.

La Stampa 28.03.14

"La bellezza matematica nascosta nel mondo", di Piergiorgio Odifreddi

L’artista, il musicista e il poeta percepiscono le meraviglie del mondo attorno a sé, raffigurandole e trasfigurandole nelle loro opere. Osservano i variopinti colori dei fiori nei prati, riproducendoli in tele realiste o impressioniste. Ascoltano i gorgheggianti canti degli uccelli, riverberandoli in composizioni pastorali. Guardano oltre una siepe, fingendosi sovrumani silenzi e profondissima quiete. Osservano la danza della graziosa e silenziosa Luna, domandandosi che ci fa in cielo.
Ma rispetto all’artista, al musicista o al poeta, il matematico va oltre, e non al-trove. E la sua visione del mondo non sottrae bellezza alla descrizione dell’umanista, ma gliene aggiunge. Perché la bellezza c’è a tutti i livelli della Natura, dal microcosmo al macrocosmo: non solo al livello antropico, al quale siamo tutti abituati e allertati, ma che rimane marginale e secondario rispetto al tutto.
Ad esempio, quando il matematico osserva un fiore, dietro al numero dei suoi petali nota la successione di Fibonacci e la proporzione aurea alla quale essa tende. Dietro ai suoi colori, riconosce le lunghezze e le frequenze di velocissime onde luminose. Dietro alle infinite gradazioni della tavolozza della Natura o del pittore, isola le tre lunghezze corrispondenti ai tre colori fondamentali intercettati dai tre tipi di coni della retina dei nostri occhi. Dietro alla “luce visibile”, identifica la piccola finestra aperta dalla nostra vista sullo spettro elettromagnetico, e ne riconosce molte altre aperte dalla scienza del Novecento, dalle onde radio alle microonde ai raggi X.
E poi, quando il matematico ascolta il canto di un uccello, dietro alla sua altezza e al suo volume riconosce la lunghezza e l’ampiezza di più lente onde sonore. Dietro al suo timbro, isola i suoni puri delle componenti armoniche, esattamente come fa l’orecchio attraverso la complessa struttura del timpano. E condensando le informazioni di ciascuna armonica in tre soli numeri, corrispondenti alla lunghezza, l’ampiezza e la fase della rispettiva onda, può approssimare le caratteristiche di ciascun suono mediante liste di terne di numeri, che vengono scrittedigitalmentenei compact disk e rilette acusticamentedai lettori cd.
E ancora, quando il matematico guarda agli andirivieni palesemente errabondi della Luna e dei pianeti, vi scorge l’effetto della regolarità nascosta di moti
di cerchi su cerchi su cerchi. E descrive la sovrapposizione di questi moti nello stesso modo in cui descrive la sovrapposizione delle armoniche dei suoni, scoprendo e confermando il potere unificatore del linguaggio astratto delle formule.
Naturalmente, questi non sono che esempi dello sguardo del matematico sul mondo, che si estende a ogni branca del sapere, da quelle frequentate dal pittore, dal musicista o dal poeta, a quelle praticate dal teologo, dal filosofo e dal politico. L’intera scolastica, ad esempio, fu un tentativo di affrontare il discorso su Dio dal punto di vista razionale della logica. La filosofia moderna iniziò con un Discorso sul metodo, che identificava appunto nella matematica il modello da seguire per fare discorsi chiari e distinti. E la politica alta, purificata dai bassi interessi, si affida a numeri, curve e teoremi per risolvere problemi che vanno dalle leggi elettorali alle scelte decisionali.
Ma se la matematica costituisce uno strumento così versatile, fertile e indispensabile per capire il mondo naturale e umano, com’è che quasi tutti la odiano visceralmente, e si vantano di non averci mai capito niente? Che gli artisti, i musicisti e i poeti si lasciano guidare più dalle viscere, che dalla testa? I credenti si affidano più alla fede irrazionale, che al pensiero logico? I filosofi seguono le chiacchiere degli esistenzialisti, più che i ragionamenti dei razionalisti? I politici incarnano l’arte del voltagabbana, e disdegnano la legge di non contraddizione? I media rincorrono avidamente scrittori e artisti, anche da quattro soldi, ma evitano accuratamente gli scienziati, anchedaNobel?E, amarus in fun-do, gli studenti considerano la matematica la loro bestia nera e il loro incubo?
Una prima spiegazione, fisiologica, l’ha data Howard Gardner nei suoi studi sui vari tipi di intelligenza. A un estremo, la prima a svilupparsi nel bambino è l’intelligenza musicale, fin dai primi anni di vita. All’altro estremo, l’intelligenza logico-matematica è l’ultima ad arrivare, con la pubertà e l’adolescenza. Così, mentre si conoscono geni precocissimi come Mozart o Mendelssohn, che a quattro anni suonano e compongono, anche matematici precoci come Pascal o Gauss sono sbocciati solo tra i sedici e i diciott’anni. Il che significa che la matematica richiede una maturità e uno sviluppo che non si hanno ancora alle elementari e alle medie, quando la si subisce come una perversa violenza e la si interiorizza come un indelebile trauma.
Una seconda spiegazione, psicologica, deriva dalla natura stessa di un gioco come la matematica, in cui non si può sgarrare, e tanto meno barare: basta lasciarsi scappare un segno sbagliato, o non chiudere una parentesi, per subire una débâcle. Molto più facile abbassare il tiro, seguire le linee di minima resistenza e rivolgersi a giochi con regole meno vincolanti o, come nel romanticismo, addirittura inesistenti. E lasciar perdere una disciplina che costringe a estenuanti esercizi e sfibranti concentrazioni, incompatibili con la tempesta di “stacchi pubblicitari” a cui si viene diseducati fin da bambini.
Una terza spiegazione, sociologica, ha a che fare con il potere. La maggioranza dei ruoli dirigenziali, dai ministeri ai media, è distribuita per tradizione in accordo al motto di Croce: «Comanda chi ha studiato greco e latino, e lavora chi conosce le materie utili». E non si può pretendere che gli umanisti aprano passivamente le porte al “nemico”, o evitino attivamente di denigrarlo, magari con la scusa che «così vuole la gente»: i due terzi della quale comunque non legge un libro all’anno, mentre il rimanente terzo si concentra sui romanzi.
Un’ultima spiegazione, pedagogica, ha a che fare con l’anacronismo della nostra scuola. Ministri e funzionari insensibili e inesperti, programmi e testi antiquati e aridi, esercizi sadici e noiosi inflitti con metodi di insegnamento antidiluviani, completano l’opera di allontanamento anche degli studenti meglio disposti.
Con queste premesse, non c’è da stupirsi che la matematica sia così poco apprezzata e capita: semmai, ci sarebbe da stupirsi del contrario. Peccato però che, in un mondo tecnologico, chi non la conosce finisca per rimanere un vero e proprio analfabeta. Con gran cruccio di quei governi e di quelle società che prima fanno di tutto per bruciare la terra attorno alla matematica, e poi si preoccupano di esserci riusciti, domandandosi impotenti e tardivi come rimediare.

La Repubblica 28.03.14

"Province addio, 160 sì", di Claudia Fusani

La campagna delle riforme parte. Ma le serve una bella spinta per non restare inchiodata ai blocchi di partenza. La legge che svuota le Province, in attesa che la riforma costituzionale le abolisca, strappa la fiducia al Senato e torna alla Camera per la terza e definitiva lettura. Ma i numeri pronunciati ieri sera alle sette dal presidente Grasso non sono una festa per il premier. Su 296 presenti, votano 193 senatori e il ddl Delrio passa con appena 160 sì. I no sono 133. Sono ventidue voti di differenza. Per chi ha in mente gli equilibri numerici del Senato, è subito chiaro che senza i venti voti di Popolari e Scelta civica la prima delle tante invocate riforme sarebbe stata bocciata. Ed è inevitabile chiedersi cosa sarebbe successo se Forza Italia fosse stata presente al gran completo. Il leghista Roberto Calderoli si frega le mani, a modo suo: «Questo governo è fermo a 160, non ha la maggioranza che è 161. In queste condizioni non potrebbe neppure eleggere il Presidente del Senato ». Calderoli è abile nel tirare i numeri dalla sua parte. Ma non c’è dubbio che il 25 febbraio, giorno della di fiducia al governo, Renzi strappò 169 voti. Che ieri, secondo test a palazzo Madama, non ci sono stati.
Quando Grasso legge i numeri al banco del governo ci sono Graziano Delrio, Maria Elena Boschi, il ministro della Difesa Roberta Pinotti e il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. I sottosegretari Gianclaudio Bressa e Pizzetti presidiano l’aula dalla mattina. Nessuno di loro esulta. «È stato importante cominciare, non potevamo uscire di qua con l’ennesimo rinvio, la gente non avrebbe capito. Questo è un segnale, un primo passo», ripete Claudio Martini (Pd), ex governatore della Toscana a cui sono toccate le dichiarazioni di voto. E nessuno s’azzarda a fare un tweet. Anche perché in serata i gruppi del Pd si riuniscono per discutere la campagna delle riforme, per decidere quale testo per riformare Senato e Titolo V. E sarà quello il momento di regolare i conti in casa.
Dopo le docce fredde e le montagne russe di martedì – quando la maggioranza è andata due volte sotto in commissione e il ddl Delrio si è salvato per quattro voti in aula sulle pregiudiziali – ieri mattina il governo decide di mettere la fiducia. Riunione veloce, alle otto, mentre il premier sta per volare in Calabria, a Scalea, in visita a una scuola. Alle undici il ministro Boschi arriva in aula a palazzo Madama per porre la questione di fiducia su un testo, un maxi emendamento, che però ancora non c’è. Manca anche la relazione tecnica. Boschi ammette che il testo è in commissione Bilancio. Il solito Calderoli infierisce: «Ministro, questo vuol dire che il testo non è ancora licenziato, non è disponibile…». Selva di fischi. Il presidente Grasso interviene a tutela del giovane e inesperto ministro.
Non un bell’inizio. E il resto del giorno non sembra volgere al meglio visto che i centristi sono sul piede di guerra. Senza i loro voti non c’è certezza di farcela. Anzi, possono essere i cecchini. Linda Lanzillotta (Sc), vicepresidente del Senato, decide di mettere ai voti la richiesta di sospensiva (voluta da Calderoli) che passa ancora una volta per i soliti quattro voti. Un rischio, un’ulteriore umiliazione, che Lanzillotta poteva forse evitare.
All’ora di pranzo Popolari e Scelta civica si riuniscono. Decidono, separatamente, di riporre le armi. Voteranno la fiducia. In cambio di cosa? «Senso di responsabilità», dice l’ex ministro Mario Mauro. Che si sfoga nel primo pomeriggio davanti alla buvette del Senato: «Abbiamo votato una legge sulla parità di genere che non dà parità di genere; votiamo una legge per l’abolizione delle province che però non abolisce le province e il risparmio sarà zero (lo dice e lo ripete facendo il tondo con le dita, davanti a molti testimoni, ndr). Io sono strutturalmente filo governativo ma sia chiaro che questo è un governo che dà i titoli e non scrive i capitoli… ».
Il disegno di legge Delrio svuota nei fatti le province, sottrae e ridistribuisce le funzioni, impedisce che il 25 maggio si vada a votare per 52 consigli provinciali, su un totale di 110, in scadenza. Non è la migliore legge. Non c’è dubbio. Resta zoppa finché non sarà riformato il Titolo V della Costituzione che le abolisce del tutto. Ma crea un risparmio immediato (circa 600 milioni). Avvia un processo di semplificazione nell’organizzazione dello Stato. Ed è il primo vero segnale che qualcosa si muove. Che finalmente la politica, abilissima nel conservare ed alimentare se stessa, sa dire stop. Ed inizia a riformarsi.
Forza Italia ha voltato le spalle all’accordo di maggioranza sulle riforme. Il partito di Berlusconi, a un passo dall’implosione e con il terrore di diventare il terzo polo dopo Pd e M5S con il voto per le Europee, ha il problema di dover dire a 45 presidenti di provincia azzurri che non hanno più la poltrona. Una brutta botta in termini di consenso in campagna elettorale. Ieri però qualche assenza azzurra è stata preziosa ai fini della contabilità di governo. E forse non è stata casuale. Hanno tenuto il punto altri piccoli, SVP, socialisti, autonomie. E Nuovo centro destra. «Ancora una volta la stagione riformista va avanti per merito nostro», dice in serata Gaetano Quagliariello che denuncia come «ad ogni passaggio riformista saltino fuori problemi politici estranei al merito su cui si vota».
In serata al Senato girano documenti che spiegano come «in ogni caso, il comma 325 della legge di Stabilità del 2013 già prevede il commissariamento di tutte le province». Disegno di legge a parte, la loro fine sarebbe stata già segnata.

L’Unità 27.03.14