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Ma possiamo chiamarlo ancora «Belpaese»?, di Vittorio Emiliani

Si parla tanto di ridurre l’avanzata combinata di asfalto+cemento, ma l’avanzata continua, disastrosamente. Il rimedio? Accusare di «ipertutela» le Soprintendenze e altri organismi che tentano di arginare, con scarsi mezzi e pochi tecnici, l’irruzione nel paesaggio italiano di nuove «villettopoli», «capannopoli», «fabbrico- poli», anche nelle zone vincolate, persino nell’alveo o nelle aree alluvionali di fiumi e torrenti.

Gli ultimi dati forniti dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ri- cerca Ambientale (Ispra) sono a dir poco spaventosi. Già nel 2010 (lo mostra con drammatica evidenza la cartina a colori che pubblichiamo) il Belpaese appariva per buona parte – specie nelle aree metropolitane – impermeabilizzato: rispetto al 1956, nonostante l’aumento di popolazione non sia stato altissimo, l’occupazione di suoli per lo più agricoli è invece passata, in media, dal 2,8 al 7 % circa del suolo nazionale, con alcune regioni galoppanti oltre il 9 e percentuali disastrose nelle aree metropolitane.

Per ogni italiano c’erano già, nel 2010, ben 343 metri quadrati di suolo sepolto sotto la coltre di asfalto+cemento. Tutto ciò mentre la Germania aveva adottato con una legge Merkel criteri restrittivi efficaci e altrettanto faceva nel Regno Unito il governo Blair.

L’AVANZATA

Da noi invece questa avanzata del ce- mento – che ora si vuole senza paletti, senza freni in omaggio alla «modernità» – non ha ancora trovato alcun argine legislativo, né nazionale né regionale, e prosegue inarrestabi- le. Fra 2010 e 2012 Lombardia e Veneto hanno superato infatti il 10 % di suolo impermeabilizzato, Emilia-Romagna, Campania, Lazio, Puglia e Si- cilia sono fra l’8 e il 10 %. Cifre agghiaccianti se si pensa che il consumo di nuovi suoli liberi si concentra in pianura e lungo le coste. I Comuni più cementificati risultano Napoli col 62,1 % seguita da vicino da Mila- no, Torino, Pescara, Monza, Bergamo e Brescia.

Con danni incalcolabili al paesaggio e alla sua bellezza, ma pure alla salute idrogeologica già precaria e a quella di noi abitanti. È l’Ispra a sottolineare infatti che la trasformazione di terreni agricoli o boschivi in asfalto+cemento porta con sé altri guasti terrificanti: a) i suoli resi impermeabili da asfalto e cemento non fanno più filtrare almeno 270 milioni di tonnellate d’acqua all’anno che si riversano dove possono con allagamenti e alluvioni crescenti; b) aumentano i costi di gestione del territorio dal momento che ogni singolo ettaro di suolo «consumato» comporta una maggiore spesa di 6.500 euro per fognature, canalizzazioni, manutenzioni varie, con 500 milioni di co- sto in più; c) le produzioni agricole si riducono per milioni di tonnellate, con minori ricavi annui per circa 90 milioni; d) la cementificazione galoppante immette nell’atmosfera 21 milioni di tonnellate di CO2 per un co- sto complessivo stimato sui 130 milioni annui.
«Nonostante la crisi», osserva l’Ispra, «è ancora record» nei consumi di suolo: perdiamo 8 metri quadrati al secondo. E non soltanto a causa della nuova edilizia, ma in forza di strade asfaltate, parcheggi, piazzali, aree di cantiere, centri commerciali, capannoni industriali, ecc. Con chi prendersela? Ma con le Soprintendenze che «bloccano tutto» (?), con la burocrazia che non concede, oplà, all’istante i permessi per costruire dove e come ciascuno vorrebbe, con le Autorità di bacino che si oppongono (come possono) a quanti vogliono edificare ancora in aree alluvionali o nell’alveo dei corsi d’acqua… . Quando ci sono alluvioni – e ormai ce ne sono sempre più – subito si accusa lo Stato di non fare abbastanza. Gli alluvionati intervistati da emozionati telecronisti esprimono la loro rabbia contro i governi, la politica, i politici e così via. Ma, guarda caso, gli stessi hanno, otto volte su dieci, costruito illegalmente le loro case o villette (diecimila, secondo uno dei pochi bravi giornalisti a denunciarlo, Ernesto Menicucci del

«Corriere della Sera», a Roma verso il mare, fra Infernetto, Axa e dintorni), le hanno alzate «vicino al fiume» (eufemismo televisivo), o le hanno comprate da speculatori criminali.

RIMEDI

Come rimediare a tutto ciò? Anzitutto – va chiesto con forza al neo-ministro Dario Franceschini – sbloccando e rendendo vincolanti i piani paesaggistici che da anni dovrebbero essere redatti insieme da Ministero e Regioni e che invece dormono nel disastro generale.

La sola Toscana – difatti il suo presidente Enrico Rossi non considera (l’ha scritto su questo giornale) le Soprintendenze «una intrusione», al contrario – sta discutendo meritoriamente in Consiglio piano paesaggistico e nuova legge urbanistica. Bisogna inoltre potenziare il personale tecnico delle Soprintendenze: appena 487 architetti per 141.358 Kmq di territorio soggetto a vincoli, 1 ogni 290 Kmq, con centinaia di migliaia di progetti autorizzati da Comuni e Regioni da vagliare.

Invece si vogliono ridurre ancora di più controlli e tutele. Con una politica che ci pone fuori dall’Europa più civile. Ma, ovviamente, pretendiamo che altri milioni di turisti visitino un Belpaese ridotto sempre più ad asfalto e cemento.

Ma il nostro è un Paese di furbi. O di cretini?

L’Unità 30.03.14