attualità, economia, lavoro, politica italiana

“La Ue cambi su crescita e occupazione”, di Massimo Giannini

Voglio un’Italia che cresca di più, e in modo sostenibile. Voglio una crescita che sia molto più alta di quella che abbiamo conosciuto negli anni che hanno preceduto la Grande Crisi. E soprattutto voglio una crescita che sia ricca di lavoro, di nuova e buona occupazione, in un Paese che sia finalmente in grado di far funzionare l’economia e lo Stato in modo di gran lunga più semplice rispetto al passato. Abbiamo tre anni di tempo per cambiare l’Italia: possiamo e dobbiamo farcela». Nel solito ufficio che fu di Quintino Sella, Pier Carlo Padoan riassume così la sua «visione» dell’Italia che, renzianamente, «cambia verso». Un’Italia stretta tra i vincoli europei, «che rispetteremo tutti», e le resistenze corporative, «che non possono e non devono fermarci». Il ministro dell’Economia non nasconde le difficoltà, «che sono tante», ma si concentra sulle «opportunità», «che ci sono e vanno colte». Padoan è preoccupato dallo scossone populista che scuote l’Europa.
Le elezioni europee sono a un passo, l’onda antieuropeista cresce ovunque. Come si può arginare?
Come deve cambiare il paradigma europeo? «In Europa – risponde Padoan – abbiamo conosciuto diversi stadi di aggiustamento. L’aggiustamento fiscale, che ha dato risultati importanti sulla finanza pubblica, da non rimettere in discussione. L’aggiustamento competitivo, che ha aiutato il riequilibrio delle partite correnti, soprattutto in Paesi come la Spagna. L’aggiustamento del sistema finanziario, che ha prodotto ‘Asset Quality Review” e nuova vigilanza bancaria. Quella che è completamente mancata finora è la fase della crescita e dell’occupazione. E qui l’Europa è a un bivio. Dalla recessione può uscire in due modi. Il primo è quello che gli inglesi definirebbero ‘muddling through’: cioè vivacchiare, tra bassa crescita e deflazione. Il secondo è l’opposto: cioè crescita sostenuta, rilancio dello sviluppo e del lavoro. Ora la scelta che abbiamo di fronte è tra queste due opzioni. E la differenza tra le due la fa l’agenda di politica economica, che può cambiare radicalmente le prospettive dell’intero continente».
L’INTERVISTA
MINISTRO, questo lo dicono in molti. Ma cosa significa, in concreto?
«In un’Europa fatta di tanti Paesi, ognuno con i suoi problemi, significa adottare una strategia che, mentre contiene la crisi, affronta e risolve i problemi ‘strutturali’. So che questo termine abusato non piace a molti, ma è così. Vanno riformati mercato del lavoro, mercato dei beni e sistema fiscale, vanno semplificate norme e strutture di governance, vanno sconfitte le burocrazie e riscritte le regole elettorali. Per un Paese come l’Italia, che si accinge ad assumere la presidenza del semestre europee, queste e non altre sono le vere priorità».
Su queste priorità, obiettivamente, l’Europa ha fallito.
«In parte è così. La prova è che il Continente ristagna ormai da vent’anni, e che la crescita era molto bassa già prima che esplodesse la crisi del 2008. Ma ora finalmente qualcosa si muove. È interessante notare che nemmeno Jens Weidmann, considerato da molti il falco della Bundesbank, esclude interventi di ‘quantitative easing’ della Bce».
Nel frattempo le amministrative in Francia sono un allarme per tutti. L’Unione monetaria è davvero convenuta solo alla Germania?
«La Germania ha reagito meglio degli altri alla crisi dell’euro, perché ha fatto le riforme prima che la crisi esplodesse. Ma ha cominciato a sua volta a fare alcune concessioni. Un graduale processo di mutualizzazione delle risorse è cominciato, e basti pensare al Fondo di risoluzione delle crisi bancarie. Certo, vorrei che quel processo fosse più esteso e più veloce».
A due mesi dalle europee, Grillo e le destre lanciano la campagna contro l’euro.
«Argomento pericolosissimo. La richiesta di uscire dall’euro è la classica scorciatoia che illude i popoli. Purtroppo, visto il disagio sociale in cui vivono milioni di persone, questo messaggio fa breccia. L’unico modo per combatterlo
è riavvicinare l’Europa al suo popolo, riscrivendo l’agenda europea. Ne parlo in un libro scritto con Michele Canonica e consegnato all’editore prima di assumere questo incarico».
Renzi rilancia l’ipotesi di un uso dei fondi cofinanziati dalla Ue al di fuori del calcolo del deficit.
«Stiamo verificando. Le anticipo fin da ora che le risorse residue su cui operare sono importanti, ma non di dimensioni gigantesche».
Il premier è tornato dal suo tour europeo convinto che anche «l’Europa cambia verso», Squinzi obietta che la Merkel ci ha strapazzato. Ci dica lei, com’è andata?
«Guardi, posso dirle che nel mio incontro con il collega Scheuble, che non è certo considerato una colomba, la nostra agenda di riforme strutturali, dal lavoro alla semplificazione e alla giustizia civile, ha colpito nel segno».
Non dubito. Ma dopo gli incontri di Renzi a Bruxelles non è chiara la natura dei nostri impegni con l’Europa.
«Per quanto mi riguarda è chiarissima. Gli impegni vanno rispettati, tutti. Per noi stessi, non perché ce lo chiede l’Europa. Noi non siamo vincolati solo a Maastricht, ma anche al Fiscal compact. Dunque tutti gli scostamenti eventuali dal sentiero di risanamento strutturale programmato vanno approvati dal nostro Parlamento prima ancora che dalla Commissione europea. Per un Paese con un debito gigantesco e una crescita zero come il nostro i risultati fin qui raggiunti con tanti sacrifici vanno difesi. Aggiungo che siamo sotto osservazione continua dei mercati, che oggi ci scrutano con sguardo benigno, ma domani potrebbero cambiare atteggiamento, tra una crisi esplosiva come quella ucraina e una politica monetaria americana che potrebbe riportare in alto i tassi di interesse».
Si continua a ripetere «l’Italia rispetterà gli impegni», con riferimento a Maastricht e al 3% di deficit/Pil. Ma i vincoli più severi per noi riguardano proprio il Fiscal Compact, cioè l’abbattimento del deficit strutturale e il rientro di un ventesimo l’anno della quota di debito che eccede il 60% del Pil. Rispetteremo anche questi?
«Lo ripeto: rispetteremo tutti gli impegni. Faremo l’aggiustamento strutturale, che riguarda deficit e debito. Ma questo è il punto: ‘strutturale’, cioè con misure che riflettono l’andamento sottostante dell’economia. Questo vuol dire che, con l’effetto concreto e al tempo stesso ‘segnaletico’ della nostra agenda riformatrice, siamo convinti di far ripartire crescita, che è la via maestra per l’aggiustamento fiscale».
Il governo è partito col turbo. Ma in un mese è stato varato un solo decreto legge. A che punto siete con il Def?
«Di carne al fuoco ne abbiamo messa tanta. Stiamo lavorando alle misure concrete, che saranno il ‘cuore’ del Def e del Piano Nazionale delle Riforme. Voglio tranquillizzare chi teme che non ce la faremo con i tempi. Entro la prima metà di aprile sarà tutto fatto».
Resta ancora oscuro il tema delle coperture, a partire dal taglio del cuneo fiscale per 10 miliardi. Sono davvero coperti? E come, se non a colpi di una tantum?
«Su questo voglio dire una cosa, con assoluta chiarezza: è mia convinzione che i tagli fiscali permanenti, come quelli previsti sull’Irpef, debbano essere finanziati da coperture permanenti, cioè da tagli di spesa. E se entrate una tantum ci saranno, le destineremo ad altri impieghi, e non certo alla copertura di sgravi permanenti».
Ce la farete a far scattare il beneficio nelle buste paga di maggio? E come, detrazioni Irpef o bonus?
«Onoreremo la promessa. E lo strumento sarà quello delle detrazioni Irpef, che è appunto uno sgravio permanente».
Si è discusso a lungo se privilegiare le famiglie o le imprese. Lei è soddisfatto di com’è finito il derby Irpef-Irap, secondo la definizione di Renzi?
«Più che un ‘derby’, questa è una ‘amichevole’. In base alle simulazioni di medio termine, gli sgravi Irpef o gli sgravi Irap danno risultati simili, in termini di sostegno alla crescita e all’occupazione. Ma al di là di questo mix, l’intera politica economica del Governo è costruita per benefici a svariati segmenti della popolazione».
Non è una partita di giro finanziare il taglio dell’Irap con un aggravio sulle rendite finanziarie? E dopo la «patrimonialina » degli ultimi due governi non si penalizza troppo il risparmio?
«La nostra ipotesi di tassazione delle rendite ci allinea alla media europea. Capisco che per coprire lo sgravio Irap aggraviamo un’altra imposta. Ma c’è evidenza empirica che, anche a parità di gettito complessivo, se si tassano più le rendite e meno l’impresa e il lavoro l’economia cresce di più. È quello che vogliamo».
Eppure sindacati e Confindustria vi attaccano. Le parti sociali sono davvero il «fronte della palude»?
«L’azione di un governo si giudica nel suo insieme. Promuoverla o bocciarla per un singolo aspetto è davvero ‘unfair’. Noi lavoriamo per tutti, non per una singola parte della società italiana. Certo, nel disegnare l’azione del Governo non si ignorano le parti sociali, ma queste non potranno essere un fattore di blocco ».
Il documento Cottarelli sulla spending review affonda la lama nella carne viva della spesa pubblica. Ma persino il presidente della Repubblica dice ‘basta ai tagli immotivati’. Lei che ne pensa?
«Sul tavolo non ci sono tagli lineari, come nel passato. La revisione della spesa non è un elenco di misure-spezzatino, ma un quadro organico di risparmi. L’operazione funziona se lo sforzo è ben distribuito. Ed è significativo, e perfino simbolico, che il presidente del Consiglio abbia spostato a Palazzo Chigi la funzione della Spending Review».
Intanto i ministri stanno smontando pezzo per pezzo il piano Cottarelli…
«Mi rendo conto che questa sia l’impressione. Ma abbiamo avviato una ricognizione con i singoli ministeri e le singole amministrazioni, per definire i risparmi di spesa da inserire nel Def. Anche qui, quello che conta è il metodo: la Spending Review funziona solo se è un’operazione strutturale che mira a cambiare stabilmente i meccanismi di spesa».
Sulle pensioni interverrete o no?
«No. Su questo punto il presidente del Consiglio si è già espresso. E non c’è altro da aggiungere».
Ma di questo passo cosa resterà dei 34 miliardi di tagli «a regime» previsti di qui al 2016?
«Il piano indica un tetto massimo. Noi cercheremo di essere conservativi, per garantirci il risultato finale. Ma abbiamo anche individuato nuove fonti di risparmio».
C’è chi dice che Cottarelli è sempre più isolato. A quando l’hashtag #carlostaisereno?
«No, Cottarelli non è affatto solo. Le dirò di più: quando lavoravamo insieme al Fondo monetario giocavamo a squash, e spesso vinceva lui…».
Altra promessa, altro rischio-flop: la restituzione dei crediti della PA alle imprese. Il ddl sembra già arenato. Come farete a estinguere tutti i debiti entro luglio?
«Con il provvedimento a cui stiamo lavorando puntiamo a mettere in piedi meccanismi che accelerano il pagamento dei debiti pregressi, e a costruire un sistema per evitare che in futuro si riproducano questi ritardi. Valuteremo il tutto all’interno del Def. Ma voglio smentire che abbiamo accantonato il ddl. Non è così».
Lavoro: il decreto legge sui contratti a termine rende ancora più precaria l’occupazione. Il Jobs Act è affidato a una legge delega, che richiederà due anni di discussione. Lei non vede una contraddizione?
«Attenzione: la parola chiave della nostra manovra sul lavoro non è ‘flessibilità’, ma semplificazione. E chiarezza sugli incentivi. Quanto alla legge delega, è uno strumento che ha costi e benefici. Non possiamo intasare il Parlamento di decreti. E mi rendo conto che la delega richiede più tempo, ma è anche vero che garantirà un consenso parlamentare più ampio ».
Non le tremano i polsi, a dover attuare tante cose in così poco tempo? Non state creando troppe aspettative?
«Dobbiamo farcela. So che è retorica, ma uso sempre la formula gramsciana sull’ottimismo della volontà. Non posso non farlo, dopo che una sera di febbraio ho preso al volo un aereo da Sidney per venire qui a Via XX Settembre…».
Se ne è pentito? Già si parla di dissidi tra lei e Renzi. E non le da fastidio che a Palazzo Chigi il premier abbia creato una sorta di ministero ombra dell’Economia’?
‘Sono chiacchiere stucchevoli. I miei rapporti con Renzi sono ottimi. Qualcuno ci descrive così: lui è Mandrake, io sarei Lothar. Mi sembra una rappresentazione efficace… Ma satira a parte, auspico che a Palazzo Chigi ci sia una struttura che aiuta, perché questo aiuterebbe anche il nostro lavoro qui a Via XX Settembre. E se glielo dico io, che sono stato consigliere economico di due presidenti del Consiglio, mi deve credere».

La Repubblica 27.03.14