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"Carlo Rubbia: vado a vivere su Marte", di Dario Cresto-Dini

Nella sua bella faccia giuliana dalla non lontanissima somiglianza con quella dell’attore americano John Wayne, ciò che più colpisce sono gli occhi di bambino messi su un uomo antico alto quasi un metro e novanta e spalancati sulla meraviglia. «Sa, mi sembra impossibile che io abbia ottant’anni. Ho vissuto a cavallo di due secoli, conosciuto una quantità innumerevole di persone e tra queste menti geniali come Enrico Fermi, Niels Bohr, Richard Feynman, Wolfgang Pauli. Ho imparato che la vita è un recipiente, devi considerarlo sempre mezzo pieno. Sono nato in un tempo di tragedia in cui non potevi non essere ottimista. I miei mi raccomandavano: credi in te, guarda sempre avanti. Penso di averli ascoltati, guardo molto avanti ancora oggi, fino al limite del possibile. Sono sempre curioso. Cerco ancora dentro di me lo stupore ingenuo dell’infanzia. È nel bambino che vediamo la scintilla della curiosità, nel bambino che rompe il giocattolo perché vuole sapere com’è fatto. La curiosità, non la saggezza, ha trasformato l’uomo. Se da vecchi si ha la fortuna di possedere una mente che funziona ancora, bene, una parte di essa occupatela nel tentativo di accudire il vostro spirito infantile. Mi crede se le dico che Einstein non ha fatto più nulla di veramente significativo dopo i trent’anni?».
Carlo Rubbia festeggerà i suoi ottant’anni tra una settimana. «Sono cresciuto a Gorizia in un mondo molto diverso da quello di oggi. Mi ricordo di un’umanità che si reggeva su un sistema lineare: si poteva soltanto andare avanti o indietro, una sopravvivenza quasi primordiale. Ma allora, forse, era più facile trovare se stessi». È in giacca e cravatta, camicia azzurra, scarpe da ginnastica o, meglio, mi sembra di capire da mezza montagna e calzini scozzesi, le mani grandi cercano un paio di volte in una tasca un fazzoletto di stoffa di quelli che le madri di una certa generazione allungavano ogni mattina ai figli, come un’ultima carezza sulla porta di casa: «Mia madre, Beatrice, era maestra elementare, di discendenza e cultura austroungarica. Il suo cognome, Lietzen, venne italianizzato in Liceni». «Mio padre, Silvio, era ingeg nere elettronico, si occupava di telefoni a Trieste. Gorizia era una frontiera, un luogo bellissimo pieno di colori e lingue e dialetti, un luogo complicato e aperto. Il mondo entrava in casa da una radio che mio padre aveva attaccato a un palo della luce. Inseguendo le voci che uscivano da questa grande radio ricevente costruita con vecchie valvole a vuoto ho cominciato a prendere le misure di un altro mondo e dei miei desideri. Il primo viaggio è stato una fuga. Da Gorizia a Venezia durante la guerra, la sola città in cui ancora oggi mi sento pienamente felice, anche se sta evaporando come la nebbia perché purtroppo è una città offesa dalla modernità per la sua stessa natura».
Il Nobel per la Fisica segna un altro anniversario tondo: trent’anni, era il 1984. Gli viene assegnato, assieme all’olandese Simon van der Meer, per aver scoperto le particelle responsabili dell’interazione debole, cioè i bosoni denominati W+, W- e Z, con un esperimento che doveva verificare la teoria elettrodebole di Abdus Salam e Steven Weinberg. Non approfondiamo l’argomento, il professore intuisce che comprenderei nulla o poco. La notizia del premio lo colse su un taxi da Milano a Malpensa, doveva prendere un aereo per Trieste e a mezzogiorno la radio dell’auto — ancora una volta la radio — diede con un flash la notizia che un italiano aveva vinto il Nobel per la fisica.
Ma chi è questo Rubbia, domandò il tassista. E lui disse: sono io. Con un tono allegro, privo di sorpresa perché sapeva di essere nel novero dei candidati e perché, come confessò con umiltà qualche tempo dopo in un’intervista, «era semplicemente uno dei tanti eventi della vita che agli occhi degli altri ti trasforma in James Bond, mentre tu rimani lo stesso perché non ti dà l’immortalità». Gli domando se continua a pensarla nello stesso modo anche ora, dopo aver attraversato un così lungo tratto di vita. Mi dice con un sorriso serafico e disarmante: «Una cosa conosciuta non mi interessa più».
Professore, come si diventa scienziati?
«Da piccolo il regime fascista mi fece vestire da balilla, mio padre era partigiano, mia madre profondamente antifascista. Mi hanno educato alla libertà e alla conoscenza. Ho sempre prediletto il domani rispetto all’oggi e mi è sempre piaciuta l’invenzione. Per un’invenzione ancora non diffusa avrei potuto morire. La penicillina, scoperta nel 1929, non fu disponibile se non dopo la guerra. Fortunatamente riuscii ugualmente a guarire dalla broncopolmonite. Nell’immediato dopoguerra la voglia di progredire era una spinta fortissima, una carica di energia che non si è mai più rinnovata con la stessa forza. La conoscenza è basata sull’incertezza, sui traguardi che appaiono impossibili, sulle piccole cose che scorgiamo lontanissime, indefinite e spaventose ma che ci attraggono come un magnete. Solo gli intrepidi e gli avventurieri le vedranno da vicino. Il mondo è stato cambiato dall’eccezione, non dalla media».
Sta dicendo che siamo troppi in copia conforme e così tremebondi o prudenti da non riuscire a pensare che il progresso di domani non sia altro che l’assurdo di oggi?
«Dal giorno in cui siamo scesi dall’albero sono vissuti sulla Terra appena settanta miliardi di uomini e nel corso della mia breve esistenza la popolazione si è moltiplicata per tre. Oggi siamo sette miliardi, in un solo spaziotempo rappresentiamo il dieci per cento dell’intera umanità transitata sul nostro pianeta. Sette miliardi di persone connesse ventiquattro ore su ventiquattro,
un affollamento che contribuisce al conformismo e che limita l’affermarsi della differenza, dove il genio rischia di passare per un pazzo e consumarsi inutilmente come tale. Ma non era una pazzia l’uomo che vola di Leonardo o la conquista della Luna preconizzata da Von Braun?».
Ci facciamo poche domande?
«Non ce ne facciamo abbastanza. Avremmo bisogno di rincorrere le idee impossibili, come dicono gli americani. La scienza è un’avventura piena di dubbi, di fallimenti e di momenti di emozioni straordinarie. Molte volte ciò che propone non funziona, dovremmo continuare a chiederci: perché non così? perché non così? Romperci la testa in laboratorio. E, invece, il fallimento non è ammesso. Siamo conservativi, ostinati nel pensare che quello che ha funzionato nel passato continuerà a funzionare nel futuro. Ma il più delle volte è un errore. Ci resta quasi tutto da capire, è la cosa che ci differenzia dalle altre specie. A me piace guardare. Un quadro, un libro, un film, un ingranaggio, non c’è separazione tra il lavoro e il divertimento. Si concentri per qualche minuto sulla cosa più semplice che conosce, scoprirà quanto poco sa di essa».
Rita Levi Montalcini confessò di avere deliberatamente rinunciato agli affetti. La mia sola missione, diceva, è stata la ricerca. La scienza è un mestiere solitario?
«Ho una famiglia, figli e nipoti, un’esistenza normale. Posso dire che la scienza ha illuminato la mia vita. È solitaria l’idea, ma spesso ad essa ci si arriva collegando la propria intuizione al contributo di molti di coloro che ci hanno preceduti su quel cammino. Fu così anche per Galileo Galilei. Alla sua realizzazione poi concorrono molte persone, al Cern ho guidato esperimenti con oltre cento ricercatori. La ricerca è sempre un lavoro di squadra».
Come fisico si è mai sentito straniero in Italia?
«Sono sempre vissuto da italiano all’estero, non ho mai avvertito il bisogno di crearmi un’altra esistenza. Nella cerimonia del Nobel il mio inno è stato quello di Mameli come per Marconi e Fermi. Tutti gli altri fisici italiani premiati a Stoccolma avevano dovuto rinunciare alla loro cittadinanza naturale. Incontro scienziati italiani di primo livello come ruolo e funzioni ovunque vado: negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone, in Australia e in Cile. In Italia è difficile fare ricerca applicata. Mancano strutture e un sistema di carriera semplificato. Quando sono sbarcato all’Università di Pavia i diciassette anni di insegnamento ad Harvard non sono stati presi in considerazione. E mancano soldi, i finanziamenti pubblici sono inferiori all’uno per cento del Pil mentre negli altri grandi paesi europei si sono da tempo attestati al tre come concordato dalle intese comunitarie. È questo, dopo quello del deficit, l’altro nostro grande Problema 3%, quello nascosto».
Sulla soglia degli ottant’anni che cosa va ancora cercando?
«Ciò che ha cercato ogni civiltà, l’inizio della vita. Ha visto, vero? Riceviamo segnali dal Big Bang, ma il novantacinque per cento della massa dell’universo originata nei primi tre minuti della creazione ci è completamente sconosciuto. La grande avventura è arrivare a qualche milionesimo di secondo dall’origine del cosmo. Le immagini più antiche dell’universo che risalgono a trecentomila anni dopo il Big Bang ci hanno rivelato una sua struttura molto uniforme. In laboratorio creiamo delle goccioline di quell’universo per replicare il Little Bang con l’obiettivo di produrre dei protoni uguali a quelli di tredici milioni di anni fa. Ci sono leggi fisiche che pre-esistono alla materia e alla sua evoluzione, un sistema straordinariamente ordinato e privo di qualsiasi forma di caos».
Quanto c’è di divino nella vita, Dio ha davvero detto all’uomo: governa la Terra?
«È una riflessione molto vasta che affronto con una certa umiltà. Esiste la fede e esiste la religione. Io ho una grandissima fede ma non sono tecnicamente un credente. C’è qualcosa che sta sopra di noi, è un ordine delle cose. Chi vuole è libero di pensare che si tratti di Dio. Non c’è molto altro da dire».
Crede esistano altre forme di vita simili alla nostra nelle galassie dell’universo, insomma gli extraterrestri?
«La risposta è forse sì, ma saranno certamente differenti. Anche l’umanità oggi sarebbe diversa se sessantacinque milioni di anni fa un asteroide dal diametro di dieci chilometri non fosse precipitato sulla penisola dello Yucatán che separa il Mar dei Caraibi dal Golfo del Messico provocando una glaciazione che ha eliminato dalla faccia della Terra ogni essere vivente dalle dimensioni superiori ai tre centimetri. La storia è sempre stata cruenta, immagino lo sia stata anche su altri pianeti».
Dopo la morte torneremo a essere nulla, esattamente ciò che eravamo prima di nascere?
«Non so rispondere ma il difetto non mi preoccupa. Né mi preoccupa la mia, di morte. Le cose sono e continueranno a essere, resterà ciò che abbiamo costruito, l’amore che abbiamo saputo offrire, l’amore che abbiamo meritato. Vado avanti come se niente fosse, imparerò quello che ancora riuscirò ad imparare. Come si dice? The show must go on,
ballerò fino al giorno prima di sparire».
Coltiva ancora una follia intellettuale?
«Un rimpianto preventivo. È un enorme peccato che non si vada su Marte con i piedi e la bandiera. La Luna è un sasso, nulla. Marte invece ha tutto: il Nord, il Sud, l’equatore… Senza un motore a propulsione nucleare però non ce la possiamo fare. Il problema non è andare, ma tornare da Marte sulla Terra. E centrarla la Terra… È una lunga storia: bisognerebbe aspettare lassù un anno e mezzo prima di trovare la finestra giusta per la traiettoria Homan di rientro. Eppoi, dimenticavo, ci sarebbe Europa, il quarto satellite di Giove, uno dei pianeti galileiani. Dove ci sono acqua, ghiaccio e ancora acqua sotto i ghiacci, un’altra Antartide. Ah, mi creda, sarebbe un posto fantastico da visitare… se solo ne avessimo il tempo».
Carlo Rubbia è stato nominato senatore a vita il 30 agosto 2013. Dice che l’esperienza nei palazzi politici romani è interessante, anche se la vive come «un alieno che viene dal passato più che dal futuro». Qualche giorno dopo il laticlavio è morta a Ginevra sua moglie, Marisa Romè, madre di Laura, medico, e André, ingegnere. Aveva settantotto anni. Non sempre si può rendere grazie anche ai giorni bui. Mentre mi racconta fugacemente e timidamente di lei — di loro due — i suoi occhi di bambino si smarriscono per il tempo che occorre a pronunciarne il nome.

La Repubblica 23.03.14

"Il potere della (Dis)informazione nell’era della grande credulità", di Walter Quattrociocchi e Gianni Riotta

La Camera Alta della Repubblica ha stanziato la cifra con 257 voti a favore e 165 astensioni. Come capirete, in questa stagione di corruzione politica e sdegno popolare contro i privilegi della «casta » l’improvvida iniziativa del senatore Cirenga ha sollevato online, nel cosiddetto «popolo del web», un’ondata di proteste. In oltre 36 mila condividono l’appello per denunciare Cirenga, la sua pagina Facebook, con tanto di foto, è consultata con irritazione, peccato però che non ci si accorga – Google sta lì per questo – che nessun senatore si chiama Cirenga, che il sito del Senato non reca notizia della legge, che la somma dei voti è 422, mentre i senatori son 315 (più i senatori a vita). 134 miliardi di euro sono un decimo circa del Prodotto interno italiano, cassaforte eccessiva perfino per l’ingordigia dominante.

Perché in tanti abboccano a una notizia palesemente falsa, «una bufala » in gergo, come mai la Rete diffonde e discute sui siti un’ovvia finzione, come si informano online gli utenti e come distinguono tra testate con un controllo professionale dei testi e homepage dove invece ciascuno posta quel che gli aggrada senza controlli? Secondo una ricerca 2014 del World Economic Forum, curata dalla professoressa Farida Vis dell’Università di Sheffield, tra i dieci pericoli maggiori del nostro tempo c’è «la diffusione di false notizie», capaci di disorientare il dibattito politico dai temi reali, la Borsa e i mercati dall’economia concreta e sviare l’opinione pubblica sumiti come l’Aids non legato all’Hiv, i vaccini che diffondono autismo, le scie chimiche degli aerei seminatrici dimorte.
Come dunque individuare le fonti inquinate dell’informazione e chi sono i cittadini più esposti alle fole? Se lo chiede un team di studiosi della Northeastern University di Boston, dell’Università di Lione e del Laboratory of Computational Social Science (CSSLab) del Centro Alti Studi Imt di Lucca (Delia Mocanu, Luca Rossi, Qian Zhang, Màrton Karsai, Walter Quattrociocchi) in una ricercadal titolo rivelatore: «Collective Attention in the Age of (Mis)information», l’attenzione collettiva nell’età della (dis)informazione (http://goo.gl/6TxVfz). Dai risultati, purtroppo, si evince che l’attenzione pubblica è scarsa e la disinformazione potente al punto che spesso è considerata dai cittadini pari all’informazione classica.

Per molti utenti della Rete il tempo dedicato ai miti e quello speso analizzando i fatti si equivalgono. Chi comincia a bazzicare siti dove complotti, false notizie e deformazioni vengono creati in serie, rapidamente si assuefà e perde senso critico. Lo studio conferma una delle caratteristiche più infide del nostro tempo online: su testate satiriche o forum aperti, i «trolls», utenti anonimi che diffondono battutacce, menzogne, grossolane e comiche esagerazioni, vengono spesso equivocati per fonti autorevoli e il loro teatrino scambiato per realtà. Un esempio recente, quando la voce dell’enciclopedia Wikipedia relativa al filosofo Manlio Sgalambro è ritoccata nelle ore della sua morte, rendendo l’austero studioso «autore di “Madama Doré” e “Fra Martino Campanaro”». All’assurda «trollata» credono persone comuni e autorevoli testate. Lo studio ha seguito oltre 2.300.000 persone su social media come Facebook durante la campagna elettorale politica italiana del 2013 e i risultati negano la tesi popolare dell’«intelligenza collettiva» che animerebbe la Rete, provando invece l’esistenza di un iceberg grigio di «credulità collettiva». I seguaci delle «teorie del complotto» credono che il mondo sia controllato da persone, o organizzazioni, onnipotenti, e interpretano ogni smentita alle proprie opinioni come una manovra occulta degli avversari.

La ricerca prova come la dinamica sociale di Facebook, mischiando in modo apparentemente neutrale vero e falso, finisca per affermare le menzogne sulle verità. Gli attivisti online via Facebook evitano di confrontarsi con fonti che contraddicono le loro versioni, persuasi che spargano falsità per interessi spregevoli. Il dibattito langue, le versioni diverse non trovano una sintesi, i «trolls» spacciano sarcasmi per notizie. Preoccupazione suscita la par condicio online tra fonti prive di autenticità e siti professionali, chi cerca informazioni finisce per dedicare la stessa attenzione a bufale tipo «Senatore Cirenga» e alla vera riforma del Senato, spesa pubblica, governo. «Ex falso sequitur quodlibet» è massima della logica tradizionale, attribuita spesso al filosofo Duns Scoto, ma in realtà di autore ignoto: da premesse fasulle potete far derivare sia proposizioni «vere» che «false», con la terribile conseguenza di non potere distinguere bugie e realtà. Il web, dimostra la ricerca sulla (Dis)informazione, può trasformarsi in guazzabuglio «Quodlibet» alla Cirenga.

E un cittadino, quando si avvia per la strada dei miti online, tende a perdersi nel labirinto delle bugie: chi è disposto a comprare la bubbola dell’Aids che non deriva dal virus Hiv, deduce poi che l’Aids è stato creato dal governo americano per decimare gli afroamericani, e così via via per l’11 settembre, il Club Bilderberg che controlla l’economia mondiale, le scie chimiche: date uno sguardo al web, edicole e talk show…

La Stampa 22.03.14

"Ma non c’è solo il mercato", di Massimo Adinolfi

Magari, se potessimo parafrasare Pascal, potremmo perfino trovarci d’accordo: il mercato ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Nell’originale si trattava del cuore, e Pascal ne rivendicava per l’appunto le ragioni, irriducibili ad una razionalità «étriquée», più ristretta e insensibile alle dimensioni sulle quali il cuore è capace invece di sporgersi.

Nel caso di Mauro Moretti, l’amministratore delegato delle Ferrovie che ieri è intervenuto sul taglio degli stipendi ai supermanager, non si tratta del cuore ma di reclamare le ragioni del mercato, la razionalità nella de- terminazione dei compensi dei manager posti al vertice di imprese grandi e complesse, che è il mercato, secondo Moretti, a dover fissare. Secondo l’impeccabile logica della domanda e dell’offerta. Secondo questa logica, peraltro, Moretti non è certo il più bravo di tutti, visto che non è quello che prende più soldi di tutti. Lui stesso tiene a informarci che il suo collega tedesco prende tre volte e mezzo più di lui (che già guadagna cifre di poco sotto al milione di euro). Ma noi vorremmo invece continuare a pensare che il nostro amministratore delegato è davvero il più bravo di tutti, e, come vi sono le ragioni del mercato, così vi è un’altra più importante ragione per rimanere comunque al proprio posto, in Italia, specie in tempi di crisi, a guidare le ferrovie dello Stato e a dare così una mano al Paese.

Certo, quell’altra ragione si presenta con il volto della politica, che oggi appare ai più deturpato (e pure di questo in verità ci sono le ragioni). Ma forse non dobbiamo arrivare per questo al punto di capovolgere il detto di Pascal, e mancare di riconoscere non la razionalità economica, ma una più larga e comprensiva razionalità, che a quella non si riduce.

Così Moretti dice: è una cosa sbagliata parametrare lo stipendio dei dirigenti pubblici di aziende di Stato a quello del Presidente della Repubblica, e chiedere che si stia al di sotto. Dice che è una cosa sbagliata ma intende: non è razionale, non rientra nella logica del mercato. Ed effettivamente alla Presidenza della Repubblica non si arriva come si arriva alla guida dell’Enel o delle Ferrovie. Il Quirinale è ancora, chissà per quanto, fuori mercato. Ma il senso del riferimento all’appannaggio del Presidente sta evidentemente nel far presente a chi opera sul mercato che, contemporaneamente, come uomo e come cittadino opera anche in una società e in uno Stato, anche se a volte sembra proprio che non riconosca questi altri luoghi in cui soltanto possono mantenersi le istituzioni del mercato. E ciò, si vorrebbe aggiungere, al netto di qualunque considerazione sulla perfezione del regime concorrenziale che vi regnerebbe, e che in realtà non vi regna affatto.

Qualche tempo fa, il filosofo Avishai Margalit ha pubblicato un libro dal titolo molto promettente: «The Decent Society», la società decente. In quel libro Margalit non si preoccupava tanto della giustizia quanto, appunto, della decenza. Una società può essere giusta nella distribuzione dei beni o dei diritti primari e tuttavia, sia detto per inciso, Margalit non aveva certo in mente l’Italia contemporanea come esempio di società giusta e tuttavia infliggere umiliazioni ad una parte significativa dei propri cittadini, anche quando questi non avessero a subire alcun torto. Esemplifichiamo a nostro vantaggio. Un’espressione come quella che parla di «schiaffo alla miseria» ha a che fare con l’offesa che può essere recata ai membri poveri di una società, anche quando si riferisce a fatti, episodi, circostanze che rientrano nel pieno diritto di chi assesta quello schiaffo, poiché per esempio è nel diritto di chiunque viva in una società liberale di mercato guadagnare (così come sperperare) cifre spropositate, se soltanto si trova qualcuno disposto a offrirle. Le ragioni del mercato, potremmo dire, non conoscono schiaffi alla miseria. Ma la ragione umana e non dico qui nemmeno la ragione politica, o la ragione morale quegli schiaffi li conosce e come, e di solito è ragione, si riconosce cioè come ragione, proprio in quanto cerca di non tirarli.

Ora, nessuno pensa che Moretti intendesse ieri mollare qualche schiaffo. Le sue preoccupazioni sono anzi condivisibili, anche perché sono sicuramente slegate dall’interesse personale. E quand’anche invece fossero ad esso legate, non vi sarebbe nulla di male a considerare il proprio personale interesse, nelle scelte professionali e non solo in quelle. Ma dicevamo le preoccupazioni. In breve, nessuno vuole depauperare il patrimonio (che supponiamo volentieri grandissimo) di competenze, professionalità, conoscenze a disposizione dell’Amministrazione pubblica e dello Stato. Ma la scelta del governo non intende affatto provocare nulla del genere. Posto però, come ha detto il premier Renzi ieri, che se ne riconosca la ratio. Ma così siamo daccapo a Pascal, e alla necessità di conoscere le ragioni di tutti, e non solo quelle del mercato.

L’Unità 22.03.14

"La neutralità della Rete e i diritti dei cittadini", di Giovanna De Minico

Un esempio può essere seguito in tutto o anche in parte, essenziale è che non sia accolto solo negli esiti senza condividerne il metodo. L’esempio è la politica statunitense impegnata a cambiare il volto dell’amministrazione, da erogatrice di certificati cartacei e servizi materiali al cittadino a partner di un dialogo virtuale, remoto, equiordinato e rispettoso del cittadino, che riceve da casa certificati e prestazioni immateriali. Il risultato è un’amministrazione amichevole ed efficiente, perché incontra la domanda del cittadino e asciuga i costi per lo Stato; i mezzi si articolano su due livelli: sviluppo delle reti in fibra ottica, le sole idonee a supportare gli E-service, e disegno di una regolazione a garanzia della neutralità della rete.
Quanto al primo mezzo, l’Amministrazione Obama ha investito nelle nuove reti dando prova di fantasia politica: dal coordinamento degli investimenti privati a forme atipiche di partenariato pubblico-privato, senza trascurare gli incentivi fiscali agli imprenditori che investono sulla fibra.
Quanto alla regolazione sulla net neutrality (neutralità della rete) il discorso è ancora in itinere. È del gennaio 2014 la pronuncia della Corte di appello, distretto della Columbia, con cui si è riconosciuto alla Federal Communication Commission (Fcc) – pur annullandone una specifica determinazione – un potere regolato- rio della rete volto a vietare ai fornitori di connessione di rallentare un contenuto a vantaggio di un altro o di impedire l’esecuzione di talune applicazioni. L’intento è assicurare al consumatore il diritto di scegliere tra una molteplicità di contenuti e servizi ugualmente acquisibili, e il fondamento del potere è visto nell’artico- lo 706 del Telecommunication Act, che consegna nelle mani della Fcc la tutela delle libertà fondamentali esercitate tramite le reti. E qui si chiude il cerchio della politica strategica statunitense: per risparmiare si devono tagliare gli sprechi, quindi digitalizzare l’amministrazione, a tal fine occorrono rete veloce e indisponibilità di chi ha in mano le chiavi del traffico di Internet ad accelerarlo o rallentarlo a favore di taluni fornitori di contenuti, diversamente si violerebbe il diritto fonda- mentale del cittadino-consumatore di scegliere le idee che più gli aggradano. Data la rilevanza dei valori costituzionali in gioco nella cultura americana c’è bisogno di net anche se i fornitori di capacità trasmissiva non sono dominanti e la competizione non è in pericolo, perché il bene ultimo, non è l’equilibrio competitivo degli operatori di rete, ma il diritto assoluto alla libera scelta dei contenuti, compromesso dallo slittamento di talune fonti informative su strade virtuali lente e come tali disertate.

Insomma, Internet non è riducibile a un mercato dei beni, ma è in primo luogo la piazza senza confini per la circolazione e la mescolanza delle idee, la cui riduzione a poche fonti è vista come male in sé e, come tale, da evitare. Emerge con chiarezza una cosa: la politica statunitense è diretta dove non arriverà quella dell’Europa, convinta che non occorra difendere la net neutrality perché la normativa antitrust già basterebbe a tal fine. Qui l’Ue sembra non cogliere che la net neutrality intende porre le condizioni di effettività del diritti fondamentali del cittadino navigante e quindi opera in prevenzione; mentre la disciplina antitrust di- fende l’assetto competitivo e quindi opera in repressione dell’illecito commesso per ricondurre gli equilibri allo stadio in cui erano prima dell’abuso. Ancora, l’Europa si ritiene soddisfatta se il consumatore è informato di una pratica discriminatoria prima di firmare il contratto. Un atteggiamento farisaico. Alla fine dei giochi i consumatori saranno comunque lesi, ma con consapevolezza di esserlo stati.

E infine, qualche parole riguardo a noi. C’è poco da dire perché al momento il nostro governo nelle sue dichiarazioni programmatiche e anche nel suo programma economico non ha speso una parola sulle Ngn (reti di prossima generazione), né sulla net, pur accarezzando l’ambizioso obiettivo della crescita occupazionale e taglio del cuneo fiscale, senza però percorre- re la via dei risparmi dei costi connessi alla digitalizzazione, la cui premessa è nelle Ngn e nella Net. Forse l’approvazione con riserva di Bruxelles del nostro piano economico servirà a sollecitare i nostri governanti a riflettere sul fatto che se di un esempio si accettano gli esiti positivi, si deve condividere anche il metodo per conseguirli.

L’Unità 22.03.14

Rivoli (To) – Conferenza nazionale del Partito Democratico sull'edilizia scolastica

Centro Congressuale Comunale in corso Francia, 98.
PROGRAMMA (non definitivo)

Ore 9.00
Accoglienza ospiti e partecipanti

Ore 9.15
Saluto del Sindaco di Rivoli Franco DESSI’

Ore 9.30
Relazione introduttiva Umberto D’OTTAVIO, Commissione Istruzione Camera dei Deputati

Ore 9.45
Intervento di Piero FASSINO, Sindaco di Torino, Presidente nazionale ANCI Associazione Comuni italiani

Ore 10.00
Intervento di Vanessa PALLUCCHI, Responsabile nazionale Scuola e Formazione Legambiente

Ore 10.15
Intervento di Paolo BUZZETTI, Presidente nazionale ANCE Associazione Costruttori Edili

Ore 10.30
Intervento di Manuela GHIZZONI, Vicepresidente Commissione Istruzione Camera dei Deputati

Ore 10.45
Intervento di Francesca PUGLISI, Capogruppo PD Commissione Istruzione Senato della Repubblica

Ore 11.00
Intervento di Antonio SAITTA, Presidente nazionale UPPI Unione Province Italiane

Ore 11.15
Intervento di Raffaele GUARINIELLO, Sostituto procuratore della Repubblica

Ore 11.30
Intervento di Matteo SCAGNOL, consulente Fondazione Giovanni Agnelli

Ore 11.45
Intervento di Adriana BIZZARRI,Coordinatrice nazionale della Scuola di Cittadinanzattiva

Ore 12.00
Interventi programmati di associazioni, esperti, docenti, genitori, studenti

Ore 13.00
Intervento di Roberto REGGI, Sottosegretario Ministero Istruzione Università Ricerca

Ore 13.15
Pausa lavori

Ore 14.30
Gruppi di lavoro:
1) Sicurezza e investimenti
Coordina Silvia FREGOLENT, Commissione Finanze Camera dei Deputati
Gianna PENTENERO, Consigliere PD Regione Piemonte

2) La responsabilità nelle scuole
Coordinano Simona MALPEZZI, Commissione Istruzione Camera dei Deputati
Andrea APPIANO Presidente Consulta Istruzione ANCI Piemonte, Gabriella MORTAROTTO, Dirigente scolastico

3) Sostenibilità ambientale
Coordinano Raffaella MARIANI, Commissione Ambiente Camera dei Deputati
Marcello MAZZU’, Responsabile Scuola PD Provinciale Torino

4) Nuovi spazi per una nuova didattica
Coordinano Vanna IORI, Commissione Parlamentare Infanzia e Adolescenza
Enzo PAPPALETTERA, Dirigente Scolastico, Domenico CHIESA, Forum Regionale delle Associazioni professionali, Maria Teresa SCIOLLA, Presidente emerito UCIIM

Ore 16.00
Relazione dei gruppi con proposte al Parlamento e al Governo

Ore 17.00
Interventi conclusivi di
Davide FARAONE, Deputato, Responsabile Scuola Segreteria nazionale PD

E’ stata invitata Stefania GIANNINI, Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca

"Fare i conti con l’Europa", di Massimo Adinolfi

Che non sia facile capire i termini del confronto tra il
governo italiano e l’Europa lo dimostra la varietà di chiavi di lettura che ritroviamo nei titoli dei nostri quotidiani. Da chi sottolinea i sorrisi di sufficienza degli esponenti
della Commissione, a chi enfatizza le dichiarazioni fiduciose e sicure del premier, agli interrogativi perplessi dei giornali tedeschi.
Non è chiaro se siamo di fronte ad un aspro confronto o magari ad un gioco delle parti che nasconde una sostanziale condivisione di vedute.
Il dubbio ha peraltro una sua base nell’aritmetica dei conti pubblici. Prima di aver letto il Documento di Economia e Finanza atteso per metà aprile, possiamo solo ragionare per deduzioni. Se il quadro dei conti è sostanzialmente quello del governo Letta (ma c’è il rischio che una crescita inferiore al previsto possa consegnarci risultati meno favorevoli); se tali conti già rappresentavano il massimo consentito nel rispetto di un percorso di convergenza al pareggio strutturale di bilancio come previsto dal fiscal compact; se rispetto a tali obiettivi il nuovo governo ha annunciato una riduzione di imposte che comporterebbe già nel 2014 un maggior fabbisogno stimabile, solo per la parte relativa agli sgravi Irpef, in 6-7 miliardi; se le coperture individuate appaiono ancora piuttosto incerte, specie dopo la mezza sconfessione delle ipotesi messe in campo dal commissario Cottarelli: ebbene, se vale quanto detto, allora è difficile credere che rispetteremo tutti gli impegni presi. Il che non significa che, a fronte del riconosciuto fallimento della cura finora somministrata, tali impegni non possano essere legittimamente ridiscussi.

Molto opportunamente è stato ricordato che il dibattito italiano è vittima della confusione tra il vincolo del 3% (il cui mancato rispetto farebbe scattare la procedura di infrazione per deficit eccessivo) e il fiscal compact, che pone un obiettivo di pareggio in termini strutturali e fissa un ambizioso sentiero di riduzione dello stock di debito. Il fatto che rispettiamo il 3% non implica che rispettiamo anche il fiscal compact; anzi, portarsi sul limite del 3 invece che poco sopra il 2,5% come previsto dal governo Letta vuol dire proprio questo: ridiscutere il sentiero di convergenza. Un esito che ci sembra il punto di arrivo inevitabile dei colloqui di questi giorni.

È chiaro come tutto giri a questo punto attorno alle elezioni europee. Nessuno si illude che una vittoria del socialisti possa da sola determinare quel cambio radicale di rotta a lungo invocato. Ne è testimonianza la timidezza della piattaforma di Martin Schulz su molti temi economici. Tuttavia, è lecito attendersi che una commissione a guida socialista possa introdurre interpretazioni meno rigide dei parametri, avvalendosi degli elementi di flessibilità e discrezionalità presenti nei trattati. Con un po’ di ottimismo si potrebbe sperare, se non in una piena golden rule, almeno nella possibilità di escludere alcune spese di investimento dal conto del deficit. Renzi può contare su una certa forza contrattuale, che gli viene dalla diffusa consapevolezza in Europa che un suo fallimento aprirebbe le porte a prospettive ben più incerte sul fronte della fedeltà europea.

Niente di risolutivo, certo. Ma è importante fare almeno qualche passo. Su quale sia la strada per mettere in sicurezza l’euro c’è ormai consenso ampio tra gli economisti, eppure si stenta a procedere. Sull’unione bancaria solo pochi giorni fa ha prevalso ancora una volta la linea minimale voluta dalla Germania. E anche sugli altri fronti (politiche monetarie più espansive che scongiurino il rischio di deflazione, rilancio della domanda nei Paesi in surplus commerciale) non si vedono spiragli. Ciò che manca è la volontà politica, per via dei soliti interessi nazionali ma anche per la convinzione che l’unico modo di curare la crisi sia quello di tenere i Paesi del Sud Europa sotto schiaffo, con l’incombente minaccia di una nuova crisi degli spread.

Da questo punto di vista, le rivendicazioni di orgoglio nazionale da parte del presidente Renzi, a partire dal fatto che non abbiamo nulla da farci perdonare nella gestione recente del bilancio pubblico, non sono solo un tratto del suo stile politico, ma un ingrediente utile sia all’esterno verso i partner europei, sia all’interno. Il nostro dibattito è spesso vittima di una sorta di complesso di inferiorità. In virtù degli innegabili difetti nazionali siamo spesso i primi a non ritenerci legittimati a richiamare i nostri partner alle loro responsabilità. Responsabilità che, è bene rimarcarlo, non sempre sono state esercitate in modo adeguato negli anni passati.

L’Unità 21.03.14

"Università, il miraggio della laurea: ci arriva solo il 45,3% degli iscritti", di Salvo Intravaia

Studenti italiani bamboccioni o percorsi universitari ad ostacoli? Quello descritto dall’Anvur col Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013, più che un disastro annunciato, appare un disastro conclamato. I dati parlano di carriere universitarie infinite, quando non si interrompono a metà. E di studenti “inattivi”, che si iscrivono e pagano consistenti tasse ma che poi non riescono a superare neppure una materia – o a conseguire crediti, come si dice più correttamente adesso – per un anno intero e forse più. Parcheggiati in attesa di fare altro o alle prese con un difficile adattamento al nuovo percorso di studi?

Sta di fatto che, una volta iscritti all’università, in tutti gli altri Paesi europei gli studenti riescono a laurearsi prima dei nostri ragazzi. In Italia, la situazione descritta dai numeri appare piuttosto grave: il cosiddetto “tasso di completamento dell’istruzione universitaria” è pari al 45,3 per cento, contro il 79,4 del Regno Unito, il 72 per cento della Finlandia e il 64 per cento della Francia. Sarebbe anche questa la causa del penultimo posto in classifica dell’Italia per giovani 25/34enni in possesso di una laurea. In Europa soltanto la Turchia fa peggio di noi. Ma spulciando i dati messi a disposizione dall’Anvur si capisce perché in Italia i laureati sono ancora troppo pochi.

Analizzando gli immatricolati nei corsi triennali dell’anno 2003/2004, a nove anni di distanza – nel 2012/2013 – cioè dopo un lasso di tempo pari al triplo della durata legale dei corsi, soltanto il 55 su cento risultano laureati. Ben 38 hanno nel frattempo lasciato gli studi e 7 su cento sono ancora iscritti nella speranza di ottenere l’agognato diploma di laurea. In altre parole, su poco più di 300mila immatricolati ai corsi di primo livello, ben 115mila hanno abbandonato l’università. Il fatto è che, mediamente, i ragazzi italiani impiegano quasi 5 anni a conseguire la laurea di primo livello, quella triennale. Stando a sentire coloro che si cimentano ogni giorno con lezioni ed esami, la riforma del 3+2 varata nel 1999 ha ridotto la durata dei precedenti percorsi quinquennali – con 25/30 materie – in percorsi triennali.

Ma con un numero molto simile di materie, che spesso conservano le stesse difficoltà e programmi soltanto alleggeriti di poco rispetto a prima della riforma. Nel 2011 soltanto un quarto dei laureati – il 25,5 per cento del totale – ha concluso in regola il percorso degli studi, contro il 6,5 per cento dei laureati prima della riforma – nel 1999 – ma allora i percorsi erano quadriennali o quinquennali. Il 30 per cento circa dei laureati del 2011 ha raggiunto il traguardo con un solo anno in più dei tre fissati, ma altri 3 studenti su dieci non riescono a laurearsi prima di 6 o più anni di frequenza. Poi ci sono gli “inattivi”, coloro che in 12 mesi non sono riusciti ad acquisire crediti, e quelli che rinunciano.

I primi, nel 2010/2011, sfioravano il 13 per cento di tutti gli immatricolati l’anno prima. Un dato in calo rispetto al periodo ante-riforma. Mentre gli studenti che, iscritti al primo anno, non confermano l’iscrizione al secondo sono quasi al 16 per cento. Il maggior numero di abbandoni tra il primo e il secondo anno si registra nella facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, col 33,6 per cento. Seguono Farmacia e Agraria che superano il 27 per cento di forfait ad un anno dall’immatricolazione.

La Repubblica 21.03.14