attualità, cultura

"Norberto Bobbio", di Massimo Novelli

Domani il Centro Gobetti di Torino celebra con un convegno il grande filosofo scomparso dieci anni fa. La sua lezione attuale e profetica emerge anche nel testo di un discorso del 1969 che qui pubblichiamo in parte.
Quando il 4 ottobre del 1969, durante una tavola rotonda alla Fondazione Cini di Venezia, Norberto Bobbio tenne l’intervento sulla crisi di partecipazione politica nella società contemporanea, di cui pubblichiamo ampi stralci grazie al Centro studi Piero Gobetti di Torino, l’Italia stava entrando nel cuore di tenebra della strategia della tensione. Il successivo 12 dicembre, a Milano, le bombe di piazza Fontana lo avrebbero tragicamente dimostrato. Ma la lucidità dell’analisi del filosofo della politica, verrebbe da dire la sua preveggenza, andavano ben oltre la situazione di quel momento, segnato peraltro dalla contestazione studentesca, che Bobbio aveva accolto da uomo del dialogo quale era, e dagli scioperi operai.
Nel delineare quel giorno a Venezia, in occasione dell’ottavo congresso nazionale di filosofia del diritto, il «diffondersi di un certo disinteresse per la politica», la crisi delle ideologie e dei partiti, così come la burocratizzazione
del potere, la manipolazione del consenso «attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa»e le illusioni di risolvere ogni problema con la «democrazia diretta», l’autore del Profilo ideologico del Novecento descrivendo «l’apatia politica» del suo tempo, quella crisi, ne intuiva l’onda lunga, prefigurando sostanzialmente l’Italia odierna. Altrimenti non si potrebbe definire, se non profetico, il passaggio in cui asseriva che «mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia (proclamata) può coincidere con la più grande autocrazia (reale)». Il testo di Bobbio, che uscì poi solo su una rivista destinata a studiosi, terminava con un’affermazione che, riletta adesso, appare egualmente di attualità bruciante: «Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti serve soltanto ad aumentare la confusione».
L’eredità di Bobbio, il riascoltare la sua voce nei libri e negli articoli, caratterizzano il nutrito programma di seminari, di incontri, di mostre, di ristampe delle opere, con cui la famiglia Bobbio e il Centro studi Gobetti gli rendono omaggio per tutto il 2014, a cominciare dalla celebrazione torinese di domani, nella ricorrenza del decennale della scomparsa, avvenuta il 9 gennaio del 2004 all’età di 94 anni. Proprio all’appuntamento di Torino, che avrà luogo nella sala del Consiglio comunale della città, il professor Luigi Bonanate, uno dei suoi allievi, rammenterà nella sua relazione che «di fronte alla crisi morale o addirittura esistenziale che il mondo attuale conosce, Bobbio ha un’infinità di cose da dirci». Per Bonanate, soprattutto, «sostanzialmente sicuro che Bobbio consentirebbe», s’impone il tema della democrazia. Come scriveva il filosofo ne L’età dei diritti, ricordando che i diritti umani, la democrazia e la pace sono «i tre momenti necessari dello stesso movimento storco: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti».

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“Manipolare la democrazia uccide la politica”, di NORBERTO BOBBIO
COME tutte le espressioni correnti del linguaggio politico, anche l’espressione “crisi di partecipazione politica” viene comunemente adoperata in diversi significati. Credo che il miglior modo d’avviare una discussione sul tema sia quello di cominciare a fare qualche distinzione. A mio parere, conviene distinguere tre usi diversi dell’espressione. Il che val quanto dire che il fenomeno di cui intendiamo occuparci ha (almeno) tre diverse manifestazioni.
Nel senso più generale e anche più facile, quando si parla di crisi di partecipazione, s’intende fare riferimento al fenomeno dell’apatia politica, cioè al diffondersi di un certo disinteresse per la politica, che sembra una delle caratteristiche della società di massa. L’apatia politica è un aspetto del fenomeno più ampio della “depoliticizzazione”. La quale, a sua volta, sembra connessa, da un lato, allo sviluppo della società tecnocratica, dall’altro, all’ingigantirsi e al rafforzarsi, nella società delle grandi organizzazioni, degli apparati burocratici.
Come tutte le espressioni correnti del linguaggio politico, anche l’espressione “crisi di partecipazione politica” viene comunemente adoperata in diversi significati. Credo che il miglior modo d’avviare una discussione sul tema sia quello di cominciare a fare qualche distinzione. A mio parere, conviene distinguere tre usi diversi dell’espressione. Il che val quanto dire che il fenomeno di cui intendiamo occuparci ha (almeno) tre diverse manifestazioni.
Nel senso più generale e anche più facile, quando si parla di crisi di partecipazione, s’intende fare riferimento
al fenomeno dell’apatia politica, cioè al diffondersi di un certo disinteresse per la politica, che sembra una delle caratteristiche della società di massa. L’apatia politica è un aspetto del fenomeno più ampio della “depoliticizzazione”. La quale, a sua volta, sembra connessa, da un lato, allo sviluppo della società tecnocratica, dall’altro, all’ingigantirsi e al rafforzarsi, nella società delle grandi organizzazioni, degli apparati burocratici. E infatti, una delle caratteristiche dell’ideologia tecnocratica è di credere e di far credere che le grandi decisioni siano di natura tecnica e non politica. Orbene: se le grandi decisioni possono essere prese con
strumenti tecnici, non c’è più bisogno dei politici generici e tanto meno della partecipazione popolare ancor più generica; bastano i competenti specifici. […] Tecnocrazia e burocrazia si congiungono al di sopra della sfera tradizionale riservata alla politica. La conseguenza di questa congiunzione è appunto la depoliticizzazione. Un’altra variante di questa crisi della partecipazione politica come crisi della politica tout court è il fenomeno della crisi delle ideologie: in genere si crede che alla depoliticizzazione si accompagni la deideologizzazione come sua ombra. Volendo stringere in un solo nesso tecnocrazia, burocrazia e crisi delle ideologie, si può dire così: più si tecnicizza il processo di decisione, più si burocratizza il processo di potere; più si burocratizza il processo di potere, più si de-ideologizza il processo delle scelte fondamentali.
In un secondo senso si parla di crisi di partecipazione per indicare non già il fenomeno della mancanza di partecipazione bensì il fenomeno della partecipazione distorta o deformata. […] La partecipazione distorta o deformata è la partecipazione ottenuta con le tecniche della manipolazione del consenso. È una partecipazione non attiva ma passiva, non libera ma coatta, non spontanea ma forzata, non autodiretta ma eterodiretta. Ci si domanda se si possa ancora parlare appropriatamente di partecipazione: alcuni vorrebbero chiamarla piuttosto mobilitazione, usando un termine con un evidente significato emotivo negativo che serva a metterne immediatamente in luce il carattere di fenomeno deviante. Sotto questo aspetto, crisi di partecipazione vuol dire risoluzione della partecipazione in mobilitazione. Questa crisi di partecipazione è l’effetto del sempre maggior rilievo che nella moltiplicazione e nella diffusione delle comunicazioni di massa acquista il potere ideologico accanto ai tradizionali poteri economico e politico. Intendo per potere ideologico il potere che si esercita attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, cioè dei mezzi con cui chi detiene il potere cerca di ottenere il consenso dei soggetti ad esso sottoposti. […] Vi è infine un terzo significato in cui si parla di crisi di partecipazione politica: la partecipazione ha luogo, e quindi non vi è mancanza di partecipazione; si può anche ammettere che sia libera e quindi non manipolata, cioè sia vera e propria partecipazione (e non, per esempio, mobilitazione). Ma vi può essere un’altra ragione per cui la partecipazione sia insoddisfacente, e pertanto sia legittimo parlare di crisi: la partecipazione non produce gli effetti che da essa ci si attende, cioè è inefficace e quindi inutile. Si partecipa e quindi non si resta assenti dalla competizione politica; ci si può anche muovere nell’ambito delle scelte politiche con una certa libertà, e quindi non si può parlare di vera e propria manipolazione (dove vi è concorrenza tra le varie parti che si contendono il potere, rimane sempre un certo spazio per il formarsi di una opinione personale). Ma la partecipazione non raggiunge il proprio scopo che è quello di dare all’individuo partecipante una parte effettiva nel processo al cui termine c’è la decisione politica. È un fatto che nella misura in cui aumenta il numero degli elettori nelle società di massa sembra che le grandi decisioni vengano prese indipendentemente dalla maggiore o minore partecipazione di coloro al cui interesse quelle decisioni sono rivolte. […] Appare subito chiaro che una soluzione adatta per risolvere la crisi di partecipazione politica nel primo senso non è detto che sia adatta per risolvere anche il problema aperto dalla crisi di partecipazione politica nel secondo senso, e così di seguito. […] Tanto per cominciare, è noto che uno dei grandi rimedi proposti per risolvere l’attuale crisi della partecipazione politica è l’estensione della partecipazione dai centri di potere politico ai centri di potere economico. Giustamente si osserva che nelle società industriali avanzate le grandi imprese sono Stati nello Stato, e le loro scelte hanno un valore condizionante per tutta la collettività: se per decisioni politiche s’intendono quelle decisioni che incidono sulla redistribuzione delle risorse nazionali, non c’è dubbio che le decisioni delle grandi imprese sono decisioni politiche. Perché ci sia corresponsabilità di tutti alle grandi decisioni non basta la partecipazione al potere politico, come avviene nelle democrazie di tipo tradizionale, occorre anche una qualche partecipazione, nelle forme più convenienti ed efficaci, al potere economico. L’allargamento della democrazia dalla sfera politica alla sfera economica è uno dei temi ricorrenti della pubblicistica di sinistra. Benissimo. Però è subito evidente che una riforma di questo genere può risolvere il problema dell’assenteismo o
dell’apatia ma non certo quello della manipolazione né quello dell’inefficacia della partecipazione. […] L’altro grande rimedio — un vero e proprio toccasana dal modo con cui è presentato — è quello della democrazia diretta. In ogni discussione sulla crisi della partecipazione, gira gira, si torna sempre alla riproposta della democrazia diretta. I regimi democratici non funzionano perché sono fondati sulla democrazia rappresentativa, che è un inganno cui non crede più nessuno, e così via discorrendo. Eppure, a ben guardare, anche la democrazia diretta, posto che sia attuabile, e nei limiti in cui è attuabile, non è un rimedio universale. Delle tre malattie della partecipazione essa è in grado di curare quasi esclusivamente la terza, cioè la partecipazione inutile. […] Non vedo invece come possa venir meno, per il solo fatto che la democrazia diventi diretta, l’inconveniente della manipolazione. I plebisciti ne sono una prova. […] Il problema della partecipazione — lo vediamo sempre più chiaramente — non è un problema di quantità ma di qua-lità: o per lo meno non è soltanto un problema di quantità. Non si tratta tanto di sapere chi partecipa (problema dell’apatia) e neppure riguardo a che cosa (problema dell’efficacia della partecipazione); ma come. […] Mai come oggi ci si accorge che attraverso le tecniche di manipolazione del consenso la più grande democrazia (proclamata) può coincidere con la più grande autocrazia (reale). […] Accettare senza una verifica storica e razionale i miti correnti serve soltanto ad aumentare la confusione.

La Repubblica 20.01.14