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«Sugli omosessuali basta rinvii A loro i diritti di tutte le coppie», di Alessandra Arachi

«L’intervento di Renzi sulle unioni civili anche omosessuali deve essere ascoltato. Questo non è un problema che deve aspettare, non più». Maria Cecilia Guerra, viceministro per il Lavoro, ha tra le mani la delicata delega per le Pari opportunità. Non ha intenzione di lasciarla sulla carta.
Cosa intende fare per dar seguito alle parole del segretario Matteo Renzi sulle unioni civili omosessuali, un decreto del governo?
«No, il governo è maggioranza. E questo non è un tema che deve essere affrontato da una maggioranza o da una parte politica. Non deve essere un tema da campagna elettorale. Deve essere un dibattito trasversale, sereno. Il Paese è maturo per questo. Ci sono leggi già in Parlamento sulle unioni civili, bisogna dare seguito a quelle».
Quali? Ce ne sono tante…
«Lo deciderà il Parlamento».
Ma lei quale legge vorrebbe?
«Esprimo un parere personale. E dico che non ci sono motivi per trattare in modo diverso una coppia omosessuale rispetto ad una coppia eterosessuale. Siamo sempre davanti a due persone che hanno un rapporto d’amore e sono disponibili ad una relazione di reciprocità fatta di diritti e doveri, di responsabilità rispetto alla società. Del resto in molti Paesi d’Europa i due tipi di coppie sono già equiparate».
Intende quei Paesi dove sono leciti i matrimoni fra omosessuali?
«Già. Sono tanti. La Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda, la Svezia, il Belgio, la Danimarca. Poi ci sono anche la Germania e il Portogallo, lì però ci sono dei distinguo che riguardano le adozioni per le coppie omosessuali».
Lei pensa che sarebbe giusto concedere anche la possibilità di adozione alle coppie omosessuali?
«Personalmente penso di sì perché sono a favore di una piena equiparazione. Ma intanto penso si debba convenire sul fatto che se all’interno della coppia omosessuale c’è un genitore naturale single, credo che il partner debba avere la possibilità di adottare quel figlio. E non vedo che tipo di obiezioni potrebbero esserci a una cosa simile».
Si rende conto che le prime obiezioni potrebbero arrivare proprio dall’interno del suo partito, il Pd?
«Non è un problema di partito. Un tema di questo genere, l’ho già detto, non deve essere appannaggio di un partito o di un altro. È un tema talmente sensibile che deve essere affidato alla coscienza di ognuno. E io vorrei che con coscienza ognuno mi spiegasse qual è il problema a trattare gli esseri umani alla stessa maniera. Del resto anche la Corte costituzionale ci ha sollecitato, fin dal 2010, a legiferare in tema di diritti alle coppie omosessuali. E il Paese è maturo per questo. Lo dicono i sondaggi».
Quali? E cosa dicono?
«L’Istat ha scoperto che il 62,8% degli italiani pensa che sia giusto che una coppia di omosessuali che convive possa avere per legge gli stessi diritti di una coppia sposata. Il 43,9% pensa sia addirittura giusto che si sposino. Non crede che il Paese sia maturo? Non pensa sia giusto smetterla con gli alibi che dare i diritti alle coppie omosessuali costa?».
Se parliamo di concedere la pensione di reversibilità un costo in effetti c’è…
«Ma ci può essere anche un risparmio se parliamo di assegni familiari o di detrazioni fiscali: se non si riconosce una famiglia omosessuale qui lo Stato ci va a rimettere. Questo per anticipare alcune obiezioni che, comunque, in un momento così sembrano fuori luogo. Del resto anche il Papa ha fatto grandi aperture in tal senso».
Allude alle frasi di papa Francesco di pochi giorni fa di bambine con due madri?
«È una grande apertura di ascolto, molto importante».
Ma lei si rende conto che siamo stati bocciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo anche per una cosa semplice come il diritto della madre a dare il cognome in esclusiva al proprio figlio?
«Questo è un problema relativamente semplice al quale il governo sta lavorando per trovare una soluzione. E presto formalizzeremo una proposta. Anche su questo la Corte costituzionale aveva invitato il legislatore ad occuparsi del tema. In questo caso possiamo essere veloci».
Nell’altro caso meno…
«Dobbiamo essere una società inclusiva. E capire che questo problema delle coppie omosessuali non può davvero più aspettare. Non dico che devono essere tutti d’accordo con me, ma porsi il problema del rispetto delle persone sì».
Alessandra Arachi

"Piano di Renzi: otto mesi per un nuovo codice del lavoro", di Maria Zegarelli

Non sarà una rivoluzione dolce quella che ha in mente Matteo Renzi e che i suoi tecnici stanno trasformando in un Job Act con l’ambizione di cambiare il volto dell’economia e del mercato del lavoro in Italia. La premessa: «L’Italia ha tutto per farcela. È un Paese che ha una forza straordinaria ma è stato gestito in questi anni da una classe dirigente mediocre che ha fatto leva sulla paura per non affrontare la realtà (straordinaria la pennellata di De Rita nella relazione Censis di quest’anno)». Nessun intervento soft, annuncia il segretario Pd, ma «un cambiamento radicale», «partendo dall’assunto che il sistema Paese ha le risorse per essere leader in Europa e punto di attrazione nel mondo. E che la globalizzazione non è il nostro problema, ma la più grande opportunità per l’Italia. Un mon- do piatto, sempre più numeroso e sempre più ricco, che ha fame di bello, quindi di Italia. A noi il compito di non sprecare questa possibilità; abbiamo già sprecato la crisi, adesso non possiamo sciupare anche la ripresa». Parte da qui il segretario, da una aspra critica alla classe dirigente che ha guidato il Paese fin qui. I dati sulla disoccupazione, dice, «sono una fotografia devastante. Bisogna correre, allora. Fermare l’emorragia dei posti di lavoro. E poi iniziare a risalire la china».

Come? Secondo Renzi attraverso il suo Job Act, tre capitoli e un programma di lungo respiro, «che creerà polemiche», ma non fermerà il Pd, assicura. Il primo capitolo è dedicato a interventi di sistema e misure volte soprattutto ad agevolare le aziende, a partire da un taglio dei costi dell’energia, perché il «dislivello tra aziende italiane e europee è insostenibile e pesa sulla produttività». Quindi, meno 10% da subito, soprattutto per le piccole imprese e poi meno tasse per chi produce lavoro, attraverso un aumento delle imposte sulle azioni finanziarie consentendo un taglio del 10% dell’IRAP per le aziende.

Sulla revisione della spesa il Job Act (documento che è aperto alla discussione e che verrà presentato definitivamente in direzione il 16) prevede il vincolo di ogni risparmio di spesa corrente che arriverà dalla revisione della spesa alla corrispettiva riduzione fiscale sul reddito da lavoro. Interventi anche sull’agenda digitale con fatturazione elettronica, paga- menti elettronici, investimenti sulla rete. Rivoluzione nelle Camere di commercio: via l’obbligo di iscrizione, piccolo risparmio per le aziende ma soprattutto segna- le concreto contro le corporazioni, scrive il segretario nella sua enews. Via, e questa sarà una misura destinata a creare polemica, la figura del dirigente a tempo in- determinato nel settore pubblico, si en- tra a tempo indeterminato soltanto se si vince un concorso.

Per snellire la burocrazia è previsto un intervento di semplificazione amministrativa sulla procedura di spesa pubblica sia per i residui ancora aperti, sia per le strutture demaniali sul modello che va- le oggi per gli interventi militari. Saranno i sindaci a decidere le destinazioni, con un parere entro 60 giorni di tutti i soggetti interessati e da quel momento in poi si procede, stabilendo così una certezza sui tempi del provvedimento amministrativo. Sulla trasparenza amministrazioni pubbliche, partiti, sindacati «hanno il dovere di pubblicare online ogni entrata e ogni uscita, in modo chiaro, preciso e circostanziato». Un capitolo a parte è dedicato alla creazione di nuovi posti di lavoro, sette i settori individuati ( Cultura, turismo, agricoltura e cibo, Made in Italy, ICT, Green Economy, Nuovo Welfare, Edilizia, Manifattura) per ognuno dei quali ci sarà un piano industriale ad hoc. E solo il terzo step di questo piano prevede un intervento massiccio sulle norme e i contratti. L’obiettivo: semplificare la giungla di leggi sul mercato del lavoro entro otto mesi con un codice del lavoro «che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero». Riduzione drastica anche delle forme di contratto oggi in vigore, 40, per arrivare ad «un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti. Superamento della cassa integrazione in deroga e previsione di un assegno universale per chi perde il posto di lavoro, estendendolo a chi oggi non può goderne legandolo però all’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro. Trasparenza anche sulla formazione con l’obbligo di rendicontare on line tutte le spese sostenute con i finanziamenti pubblici, «criteri di valutazione meritocratici delle agenzie di formazione con cancellazione dagli elenchi per chi non rispetta determinati standard di performance». Infine: un’Agenzia unica federale per il coordinamento dei centri per l’impiego e legge sulla rappresentatività sindacali sui luoghi di lavoro.

L’Unità 09.01.14

"Franceschini: legge dei sindaci e voto nel 2015", di Monica Guerzoni

«Il 2014 sarà l’anno che cambia il Paese». Non esagera, ministro Dario Franceschini?
«A leggere le cronache ci sarebbe da essere pessimisti. Scioglimento delle Camere? Voto anticipato? No, io sono molto ottimista. Anche se questa è una legislatura anomala e fragile perché non c’è stato un vincitore alle elezioni, penso che riusciremo a fare cose mai realizzate quando tutto sembrava stabile».
Vi proponete di portare a casa, in un anno, le riforme mancate nell’ultimo ventennio, ma le condizioni non sembrano favorevoli: il governo procede a colpi di incidenti, Renzi incalza…
«Se non si fanno le riforme perde di credibilità tutto il sistema e per questo nel 2014 centreremo obbiettivi che metteranno in condizione di governare chiunque vincerà nel 2015. Prima delle Europee dobbiamo fare tre cose. Un’agenda di governo con al centro lavoro e crescita, per uscire dalla crisi. Un sistema monocamerale, con una sola Camera elettiva e un Senato che rappresenta le autonomie e le regioni. E una legge elettorale per la Camera, che dia stabilità al governo».
Entro maggio?
«Sì, le prime due letture della riforma costituzionale con il monocameralismo e l’approvazione definitiva della legge elettorale. La proposta avanzata con piena legittimità dal segretario del Pd è rivolta giustamente a tutti i partiti, si parte dalla maggioranza per cercare il consenso più largo possibile. Renzi non ha detto “prendere o lasciare”. Ha indicato tre modelli e io penso che l’unico sistema che garantisce stabilità senza forzature sia quello dei sindaci, il doppio turno di coalizione».
È un patto che Renzi può sottoscrivere?
«Lui ci sta lavorando e le condizioni per un accordo ci sono. Ovviamente funziona in un sistema monocamerale e il percorso deve andare avanti parallelamente. Approvi la legge elettorale e poi, con i tempi dell’articolo 138, entro il 2014 approvi il monocameralismo. E nel 2015 vai a votare».
E se Renzi non avesse rinunciato alla tentazione di votare a maggio?
«So che pochi ci credono, ma non lo ha mai pensato. Del resto con quale legge elettorale, per curiosità? Mantenendo il sistema bicamerale com’è? Non mi pare la soluzione, perché chi vincesse queste teoriche elezioni di maggio si troverebbe a ripartire da capo… L’interesse di Renzi è costruire il Pd e ottenere un risultato forte alle Europee. Gli interessi del governo e quelli del nuovo segretario del Pd coincidono. Per Renzi, per Alfano e per i due partiti nati da Scelta civica le Europee saranno la prima verifica e presentarsi col carniere pieno è interesse di tutte le forze di maggioranza».
Bei propositi, ma il mare del 2014 è pieno di scogli. Dopo il Salva Roma ecco il pasticcio dei 150 euro chiesti indietro agli insegnanti…
«Incidenti parlamentari ne capitano da sempre. L’errore commesso sugli insegnanti è stato grave, ma corretto nel giro di poche ore».
Resta l’impressione di una maggioranza confusa, poco compatta.
«Sembra che abbiamo scoperto la luna! Questo non è un governo che ha vinto le elezioni e che ha i numeri per governare, ma come disse Letta il primo giorno è un governo di servizio, fatto da avversari. Le intese vanno trovate passaggio per passaggio, faticosamente. Però il bicchiere è mezzo pieno, prova ne sia che lo spread è sotto i duecento».
Farete il rimpasto?
«Togliamo di mezzo questa parola, che suona come un residuo del passato. Prima si mette a punto l’agenda e poi si decide la squadra che lo applica».
E il colpo d’ala invocato da Renzi dov’è? Come farete a trovare un accordo con Alfano su unioni civili e legge Bossi-Fini?
«Non è stata e non sarà una passeggiata. Sapevamo che l’anomalia che ha generato il governo ci avrebbe messo in condizione di avere più fischi che applausi».
I fischi spesso arrivano dal suo partito, che è anche quello di Letta. Il pressing di un premier ombra non vi preoccupa?
«Questi problemi ci sono stati anche in passato. Ma dove sta scritto che un segretario nuovo, forte di una grande investitura popolare, deve per forza entrare in conflitto con un premier che l’Europa intera apprezza?».
Temo che il conflitto sia già iniziato.
«Non è assolutamente vero e non c’è un premier ombra. Se i partiti tirano ognuno la coperta dalla propria parte, il governo media. Questo schema è figlio di quel che è stato detto in Parlamento dopo l’uscita di Forza Italia. Letta gestisce l’agenda e i partiti gestiscono le trattative su riforme e legge elettorale, che riguardano un perimetro più ampio della maggioranza. Ed è naturale che questo percorso lo faccia il leader del partito più grande. Sono due lavori paralleli e diversi, non vedo sovrapposizioni».
Neanche quando Renzi dice che non ha «alcun interesse a sciogliere i nodi con cui vi siete attaccati alle vostre poltrone»?
«Io so dall’inizio che Renzi avrebbe cercato di sostenere il governo svolgendo una funzione di pungolo e di stimolo. Sarò testardo, ma resto convinto che segretario e premier non entreranno in conflitto. Conservi questa intervista e fra qualche mese mi dirà se avevo ragione».
Magari le dirò che siete rimasti a Palazzo Chigi per galleggiare.
«Non è retorica la mia, sarà un anno di svolta. Altrimenti il sistema non regge».
L’addio di Fassina al governo è il preludio alla scissione del Pd?
«Fantasie dietrologiche. A me dispiace che il viceministro si sia dimesso, stava facendo un ottimo lavoro. Ma non vedo tracce di scissione, è una cosa che non esiste».
E la gestione padronale da parte del leader, esiste?
«Come si fa a parlarne a un mese dalle primarie? Mi sembra un’accusa preventiva e ingiusta» .

Il Corriere della sera 09.01.14

«Quattro edifici su 10 sono insicuri. Serve l’anagrafe», di Adriana Comaschi

Le scuole italiane si confermano insicure: quattro su dieci sono prive del certificato di agibilità, quasi altrettante – il 37% – avrebbero bisogno di manutenzione «urgente». Perché vecchie, collocate in edifici pensati come abitazioni o edificate senza criteri antisismici in zone a rischio terremoto – ben il 62% delle 42 mila scuole italiane è stato edificato prima del 1974; solo l’8,8% secondo criteri anti- sismici. Questa la fotografia del 14° rapporto Ecosistema scuola di Legambiente: l’unico esistente perché, e questo già dice tutto, dopo vent’anni ancora si aspetta dal Miur l’istituzione di una anagrafe degli edifici scolastici.

Un’indagine che restituisce un quadro a tutto tondo degli spazi scolastici tra certificazioni, servizi offerti, efficienza energetica, rischi specifici (presenza di amianto o radon), investimenti in corso nei 5.301 stabili di competenza di capoluoghi di provincia esaminati ovvero scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado (discorso a parte per le secondarie di secondo grado, in capo alle Province le cui competenze devono ora passare ai Comuni).

La prima certezza per Legambiente è che «l’emergenza delle nostre scuole rimane la messa in sicurezza strutturale, accanto però alla sicurezza e salubrità degli ambienti che vede l’assenza di certificazioni importanti come l’agibilità: ne è privo il 40% degli istituti». Un adeguamento necessario, «a cui il ministero dell’Istruzione riconoscendone l’emergenza ha dedicato uno stanziamento straordinario di 10 milioni», ricorda Legambiente. Ma il senso dell’urgenza lo dà anche il dato sulla prevenzione incendi, «che manca in più del 60% dei casi».

La situazione delle classi italiane è però, al di là di questi drammatici tratti comuni, ancora una volta molto articolata tra nord e sud del paese. Per dare un’idea, nella classifica di Legambiente i primi cinque capoluoghi di provincia per qualità si trovano tutti al nord – Trento, Prato, Piacenza, Pordenone e Reggio Emilia -, ben quattro città sulle prime dieci si trova- no in Emilia-Romagna, la prima città del sud (se non si conta l’Aquila, la cui situazione è anomala per le scuole collocate nei moduli della ricostruzione post terremoto) è Lecce, al 27° posto. Un paradosso, visto il dramma di ieri. La realtà degli istituti pugliesi del resto è complessa: sembra positivo il 20,5% di edifici bisognosi di manutenzione urgente, a fronte di una media nazionale appunto del 37%; il dato stride però se confrontato con il 17,8% di edifici in possesso del certificato di agibilità, contro il 61% della media nazionale. Ci sono poi situazioni particolari. Una su tutte quella del- la capitale, «non pervenuta»: Roma da anni risulta non classificabile, i da- ti sulle sue scuole sono troppo incompleti. E ancora, da segnalare la nota di Legambiente sulla Sicilia: «Non è possibile che ancora nel 2013 quasi l’88% delle scuole siciliane non abbia il certificato di agibilità e il 74% non abbia avuto il collaudo statico a fronte di un 98,2% di edifici che si trovano in area sismica!».

LE RICHIESTE

Anche per questo tra le richieste di Legambiente al governo per migliorare davvero la situazione c’è quella di investire certo in termini di risorse finanziarie (1,3 i miliardi messi in campo da decreto del fare e legge istruzione, di cui 40 milioni di fondi statali per mutui trentennali in deroga al Patto di stabilità), ma anche di programmazione degli interventi e monitoraggio, rimasti invece «a un punto morto». Quanto agli stanziamenti nelle singole regioni, la media degli investimenti per manutenzione straordinaria nel nord risulta quadri tre volte quella del sud, «dove pure vi è una maggiore necessità di interventi».

L’Unità 09.01.14

"Si chiacchiera mentre l’Italia declina", di Luigi La Spina

Il cittadino comune che, in questi giorni, legge i giornali e guarda la tv sta passando momenti di grande sconcerto. Da una parte, vede la classe politica occuparsi sostanzialmente di tre argomenti: la discussione su una nuova legge elettorale tra modello spagnolo modificato, Mattarellum risuscitato e un sindaco nazionalizzato, l’ipotesi di un rimpasto di governo e la scommessa su quando Renzi riuscirà a prendere il posto di Letta.

Dall’altra, avendo la fortuna (?) di possedere una casa ha perso ogni speranza di capire se, quando e quanto dovrà pagare per misteriose sigle e aliquote di tasse sull’abitazione che, ogni giorno, si annunciano diverse. Il suo sconforto aumenta, poi, quando lo stesso commercialista di fiducia si dimostra confuso, giustificando il suo smarrimento per aver contato, negli ultimi mesi, ben 38 modifiche sulla legislazione per la casa e sapendo che, nelle prossime settimane, questo record sarà sicuramente battuto. Per l’aggiornamento sulle ultime notizie, infine, gli viene comunicato dall’Istat che, tra i disoccupati, i giovani in Italia sono il 41 per cento. Vuol dire che se il suddetto cittadino comune abita in Meridione può prevedere che per suo figlio quella percentuale si alzi al 70-80 per cento.

Il distacco tra gli interessi, i problemi, le preoccupazioni degli italiani e la cosiddetta agenda di governo e Parlamento sta diventando davvero enorme. Anche perché l’impressione è che la classe politica discuta, polemizzi, si divida su questioni che hanno ben poco rapporto con la concreta realtà. Prendiamo, ad esempio, l’argomento che più ha caratterizzato l’inizio d’anno: la riforma elettorale. Renzi, come vogliono del resto tutti gli italiani, vuole una legge per la quale si sappia, la sera stessa dello spoglio dei voti, chi sarà il nuovo presidente del Consiglio e quale sarà la maggioranza sulla quale potrà contare. Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che, con l’attuale bicameralismo, nessun sistema elettorale garantisce maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento. Prima, perciò, bisognerebbe riformare la Costituzione su Camera e Senato e, quindi, anche se si trovasse un accordo tra i partiti, ci vorrebbe almeno un anno perché possa essere approvata una simile riforma. Non esiste la probabilità, perciò, che si possa andare a nuove elezioni nel corso del 2014 e tutte le elucubrazioni che in questi giorni si fanno a tale proposito sono assolutamente inutili.

Si era sostenuto che il passaggio dalle cosiddette «larghe intese» alle cosiddette «ridotte intese» avrebbe favorito la coesione della maggioranza e, quindi, una maggiore efficacia e rapidità delle decisioni governative. La farsesca vicenda sugli stipendi degli insegnanti dimostra che quelle speranze erano piuttosto illusorie, perché i contrasti, le incertezze, le retromarce si sono trasferiti, dai partiti, addirittura ai ministri. Al di là della figuraccia, quello che colpisce e amareggia è un metodo di governo che affastella annunci su annunci, molte volte contraddittori e che non rispetta le elementari regole nei confronti dei cittadini, i quali hanno diritto di conoscere, con la massima chiarezza e con sufficiente anticipo di tempi, le disposizioni in materia di leggi, soprattutto di quelle tributarie. Tutte le promesse sulle sbandierate semplificazioni si sono sempre scontrate con una realtà applicativa del tutto deludente. Nell’esperienza quotidiana degli italiani l’oppressione burocratica e le incertezze interpretative sono aumentate e non sono affatto diminuite negli ultimi mesi.

Se la classe politica parlasse meno di riforma elettorale, di rimpasto, dei duellanti Renzi e Letta, forse, potrebbe occuparsi con maggior profitto, ad esempio, del problema che annuncia il vero, prossimo declino dell’Italia nel mondo, legato non tanto al valore dello spread e neanche al nostro enorme debito pubblico, ma al dramma dell’emigrazione forzata dei migliori giovani del nostro Paese.

Ogni cittadino italiano paga, per la formazione scolastica e universitaria, una quota notevole delle tasse che versa allo Stato. Soldi ben spesi perch é l’investimento ha una resa soddisfacente. Nonostante le scarse risorse, le note difficoltà, le modeste soddisfazioni professionali ed economiche dei professori, dalle nostre scuole e dai nostri atenei escono ragazzi con una preparazione molto apprezzata all’estero. Così, da anni ormai e con ritmi sempre più frequenti, i migliori giovani italiani, ricercatori, medici, professionisti, ma anche tecnici, l’ipotetica futura classe dirigente del nostro Paese, è costretta a cercare lavoro in terra straniera. Una selezione di cervelli migranti che avviene per merito, ma anche per classe, ingigantendo un’ingiustizia sociale che costituisce un vero tradimento ai principi di uguaglianza proclamati nella nostra Costituzione. Poiché alti stipendi e valorizzazione delle capacità premiano le carriere di questi nostri giovani all’estero, ben pochi pensano di ritornare a lavorare in Italia, anche perché le esperienze umilianti di coloro che, per varie ragioni, hanno avuto il coraggio di farlo, sconsigliano un così deludente rimpatrio.

Si può essere fiduciosi nel futuro dell’Italia se la parte migliore e più fortunata degli italiani è costretta ad abbandonarla? È quella che, a scuola, definivano una domanda retorica, perché la riposta, purtroppo, è una sola: no.

La Stampa 09.01.14

"Il Padrino proibizionista", di Roberto Saviano

Ho sempre detestato droghe leggere e pesanti.
Sono quasi astemio, un occasionale bevitore di alcolici. Ma sono, invece, profondamente antiproibizionista. Indipendentemente dal mio rapporto con qualunque tipo di sostanza, dal mio stile di vita, dalle mie passioni e dalle mie repulsioni. Si ritiene, sbagliando, che essere antiproibizionisti significhi tifare per le droghe. Sottovalutarne gli effetti, incentivarne il consumo. Niente di più falso. Spesso, in Italia, le discussioni sui temi più delicati sono travolte da un furore ideologico che oscura i fatti e impedisce un dibattito sereno. È successo con l’aborto, con l’eutanasia, succede con le droghe. E non è possibile che una parte dei cittadini, che la parte maggiore delle istituzioni religiose — con il peso che la Chiesa Cattolica ha in Italia — e che la politica tutta, tranne pochissime eccezioni, si rifiutino di affrontare seriamente e con responsabilità questo tema. Non è possibile che la risposta alla tossicodipendenza sia nella maggior parte dei casi il carcere, che tracima di spacciatori e consumatori, ultimi ingranaggi di un meccanismo che irrora di danaro l’intero nostro Paese.
Proprio dalle pagine di Repubblica un grande giornalista scomparso prematuramente, Carlo Rivolta, raccontava di come la prima generazione di tossicodipendenti veri in Italia, quella degli anni Ottanta, fosse stata abbandonata a se stessa da uno Stato patrigno e non padre. Da uno Stato che preferiva considerare quei ragazzi zombie, morti viventi, tossici colpevoli. Ai quali nessuna mano andava tesa, e dei quali si aspettava solo la morte. Erano causa del loro male. Ci si domanda cosa sia cambiato a distanza di trent’anni, se nemmeno nel dibattito pubblico questi temi hanno trovato posto.
So che la legalizzazione delle droghe è un tema complicato, difficile da proporre e da affrontare. So che pone molti problemi soprattutto di carattere morale, ma un Paese come il nostro, che ha le mafie più potenti del mondo, non può eluderlo. Con tutti i problemi che ha il paese dobbiamo pensare alle canne, ai tossici e ai fattoni? Nulla di più superficiale che questo commento.
Bisognerebbe partire da una semplice, elementare
constatazione: tre sono le forze proibizioniste
più forti, e sono camorra, ’ndrangheta e Cosa nostra. Del resto Maurizio Prestieri, boss di Secondigliano (rione Monterosa per la precisione) ora collaboratore di giustizia, mi disse una volta durante un’intervista: con tutto il fumo che i ragazzi “alternativi” napoletani compravano da noi, sostenevamo le campagne elettorali di politici di centrodestra in provincia.
Il proibizionismo (degli alcolici) ha già condotto l’uomo e lo Stato nell’abisso cento anni fa: non ha senso ripetere errori già commessi. La legalizzazione non è un inno al consumo, anzi, è l’unico modo per sottrarre mercato ai narcotrafficanti che, da sempre, sostengono il proibizionismo. D’altronde, è grazie ai divieti che guidano l’azienda pi ù florida al mondo con oltre 400 miliardi di dollari di fatturato annuo. Più della Shell, più della Samsung. Se esiste una merce che non resta invenduta è proprio la droga. L’unica che non conosce crisi, che nonostante sia illegale ha punti vendita ovunque. È la merce più reperibile del mondo disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Nonostante questo, quando in Italia si arriva finalmente a discutere di antiproibizionismo, mancando la consuetudine, mancano finanche le informazioni basilari. I nostri ministri, sul narcotraffico, si limitano a fare encomi quando ci sono sequestri di droga, a elencare latitanti finiti in manette o ancora da arrestare. Eppure l’economia della droga è la prima economia: cemento, trasporti, negozi di ogni genere, grande distribuzione, appalti, camion, banche, compro oro, campagne elettorali–el’elenco sarebbe interminabile – vengono alimentati dalle arterie del narcotraffico.
Gran parte della politica italiana (con poche eccezioni tra cui i Radicali da decenni impegnati nella lotta al proibizionismo) ritiene la questione legata esclusivamente alla repressione o alle dipendenze. Il dibattito si riduce a un problema di “drogati” o di “mafiosi” e in definitiva — questo è lo sbaglio maggiore — non si vede in che modo possa incidere nella vita quotidiana delle persone. Nulla di più falso.
La verità è che non abbiamo scelta: la situazione attuale impone un’analisi accurata del mercato delle droghe e l’attuazione di un programma che non sarà la soluzione definitiva e immediata, e che forse sarà un male minore, ma necessario. Lasciare il mercato delle droghe nelle mani delle organizzazioni criminali non renderà immacolate le coscienze di quanti ritengono che lo Stato non possa farsi carico di produrre e distribuire sostanze stupefacenti. È proprio questo il punto da affrontare e l’inganno da sfatare. Ad avere occhi per vedere.
Umberto Veronesi da anni si dichiara favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, pur nella consapevolezza di quanto queste possano essere dannose per gli organismi. Ma adduce ragioni di buon senso che condivido. La proibizione di qualsiasi sostanza crea mercato nero, quindi guadagni esponenziali per le mafie. Fa aumentare il costo delle sostanze stupefacenti, quindi chi ha dipendenza ma non i mezzi economici, finisce per rubare, prostituirsi o spacciare a sua volta. In ultimo le sostanze provenienti dal mercato nero non hanno alcun tipo di controllo e le morti spesso sono causate non da dosi eccessive, ma da sostanze letali usate per i tagli. All’altro capo del mondo, il magistrato brasiliano Maria Lucia Karam, membro del Leap (Law enforcement against prohibition), esprime, a favore della legalizzazione, le stesse motivazioni. Del resto, non dimenticherò mai quanto mi disse una assistente sociale del Nucleo Operativo Tossicodipendenze di Napoli riguardo ai danni che anche semplicemente l’assunzione prolungata di hashish e marijuana possono avere su individui sani. Mi disse che non si trattava semplicemente di capire che effetti avessero hashish e marijuana, ma un cocktail di sostanze incredibilmente varie spesso utilizzate per pompare i panetti di fumo o per rendere gli effetti dell’erba più pesanti. Plastica, cera per scarpe, grassi animali, pezzetti di vetro, ammoniaca. Esistono studi sugli effetti che le sostanze stupefacenti — allo stato puro — hanno sugli organismi; non esistono ovviamente studi per capire che effetti hanno sugli organismi la cera per scarpe o l’ammoniaca, se assunte regolarmente seppure in piccole dosi, ma per anni. E la risposta non può essere “che smettano di farsi se non vogliono essere avvelenati, se non vogliono morire”.
Ad aprile del 2012 a Cartagena, in Colombia, si è tenuta la sesta “Cumbre de las Americas” (Vertice delle Americhe) e si è discusso anche di legalizzazione delle droghe. Gli Usa, al tavolo del confronto – come Onu e Ue –, si sono dichiarati
contrari alla legalizzazione. Ma hanno però preso atto che le “wars on drugs” sono destinate a fallire. Del resto in alcuni stati federali, la distribuzione di marijuana a scopi terapeutici è stata legalizzata, e a Denver la vendita è stata permessa tout court.
Secondo molti paesi latinoamericani, direttamente interessati dal fenomeno, la strada del proibizionismo non è quella giusta: per comprendere le loro posizioni bisognerebbe studiare a fondo le loro economie e mappare il peso che produzione e distribuzione di sostanze stupefacenti hanno al loro interno.
La Colombia vive una fase di crescita economica inaspettata. Se da un lato ha certamente contato la diminuzione della corruzione delle istituzioni, dall’altro la pressione dei cartelli e della guerriglia è diminuita non per gli interventi del governo americano, ma dei cartelli messicani che oggi sono i padroni delle piantagioni in Colombia distruggendo di fatto i più potenti narcos colombiani. Il presidente uruguayano José Mujica è arrivato alla legalizzazione perché si è reso conto che l’invasione dei cartelli messicani già avvenuta in Colombia, Cile e in Argentina avrebbe compromesso la vita sociale in Uruguay, come sta accadendo al Guatemala, al Belize, all’Honduras, al Salvador, al Perù, dove le fragili democrazie sono totalmente compromesse dal potere dei narcos. La legalizzazione è stato il gesto del governo uruguayano più determinante nel senso della salvaguardia dei propri mercati.
Io credo che la legalizzazione, e non la liberalizzazione, sia l’unica strada. Due termini simili che spesso vengono confusi, ma che indicano due visioni completamente diverse. Legalizzare significa spostare tutto quanto riguarda la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti sotto il controllo dello Stato. Significa creare un tessuto di regole, diritti e doveri. Liberalizzazione è tutt’altro. È privare il commercio e l’uso di ogni significatività giuridica, lasciarlo senza vincoli, disinteressarsi del problema, zona franca. Invece legalizzare è l’unico modo per fermare quel silenzioso, smisurato, violento potere che oggi condiziona tutto il mondo: il narco-capitalismo.

La Repubblica 09.01.14

"Se i docenti ritrovano la voce", di Mila Spicola

Voglio che questo commento sulla vicenda degli scatti dei docenti da restituire sia quello che vuole essere: una lettera ai miei colleghi e alle mie colleghe. Il provvedimento di decurtazione è stato ritirato. Siamo stati 10.500 i firmatari della petizione che avevo messo on line domenica sulla piattaforma change.org per un doppio obiettivo: chiedere l’annullamento del provvedimento ma, nello stesso tempo, informare noi colleghi, perché la maggior parte non ne sapeva assolutamente nulla.

In modo dignitoso ma determinato abbiamo detto no a un atto ingiusto che comunque avrebbe stabilito un precedente ignobile per l’Italia intera: togliere dalle tasche dei lavoratori somme giustamente percepite e già erogate. Vi aggiorno su quello che è accaduto in questi ultimi giorni. Ho letto, come alcuni di voi, della nota del Mef sabato sera. L’ho segnalata a Davide Faraone, responsabile scuola del Pd, esattamente sabato sera, 4 gennaio. Mi ha risposto che si sarebbe attivato subito per capire cosa stava accadendo. Anni di proteste nel movimento per la scuola però ormai mi han fatto comprendere che solo quando c’è una fortissima pressione sociale e un «polverone mediatico» le richieste vanno in porto. È orrida come cosa, lo so, il buon senso e la giustizia dovrebbero bastare da soli, ma così è, e noi non potevamo rischiare di fare ennesimi buchi nell’acqua. Come fare però per raggiungere tutti i docenti alla vigilia della Befana e compattarci in una sola voce ma con un boato sostanzioso? Ecco la petizione. Può piace- re o non piacere come mezzo, ma questo avevamo e questo abbiam fatto, visto che nessun mezzo di stampa o media ne parlava. Poi vi ho inviato, a tutti i firmatari, un messaggio per chiedervi di inonda- re tutti di mail: ministri, giornalisti, redazioni. E abbiamo rotto il muro del silenzio. La stampa se n’è accorta, i media si sono scossi e siamo stati noi a farlo. A quel punto, con tutti i «mezzi aria terra mare» allertati, ci hanno ascoltato. Perché la cosa che adesso è cambiata, non è solo il fatto che abbiam protestato, lo facciamo da anni. Quello che è mutato è l’interlocutore. Va detto per onestà mentale. Quando alcuni di noi nel 2009 hanno fatto persino lo sciopero della fame contro i tagli della Gelmini abbiamo trovato un muro di cemento alto di fronte. Non è che sia andata diversamente con il governo Monti.

Addirittura ci definì ingrati conservatori perché non volevamo lavorar sei ore in più gratis. Salvo poi, la sua categoria di superstipendiati muovere causa contro lo Stato per non aver decurtato manco un centesimo e su stipendi ben più sostanziosi dei nostri. Adesso forse il verso cambia. C’è un partito capace di interloquire, di accelerare o di bloccare atti di questo governo, piaccia o non piaccia. È di poco fa il tweet di Enrico Letta che su questa vicenda il governo ha fatto il dietro- front.

Devo ringraziare Faraone, Renzi e Carrozza. Ma voglio tornare a ringraziare noi. La nostra domanda amara adesso è: questo provvedimento era esecuzione di una decisione presa a settembre. Possibile che nessuno l’abbia segnalata alla stampa? O a noi docenti? So che nella Commissione Cultura della Camera in tanti l’avevano criticata e tentavano di far fare marcia indietro al ministro Saccomanni, e so anche che la nostra pressione è servita a Renzi per far fare marcia indietro al governo: ma tutti costoro non potevano chiamarci in soccorso, per difendere noi stessi tra l’altro, prima? È possibile desiderare adesso una politica sulla scuola che agisca in modo autonomo dai conti, pur tenendoli in conto, ma per il meglio, per il buon senso e per i diritti, senza subire gli effetti di una ragioneria di Stato sempre più asfittica e pasticciona, e dover vivere la scuola senza ricorsi, senza pasticci, senza petizioni e senza lotte estenuanti per avere solo il giusto? È possibile affrontare i problemi della scuola in modo organico, stabilire cosa fare, programmare e definire azioni e tempi ed evitare queste follie, segno di una perenne navigazione a vista, che mentre toglie a chi non può togliere, la scuola, mantiene comunque intatti privilegi e sprechi insostenibili in altri ambiti, con tanto di avallo burocratico e amministrativo? Per dirne una a Saccomanni: come è possibile che dirigenti statali con stipendi oltre i diecimila euro si stabiliscano da soli premi di produttività che non hanno nessun segno più d’appoggio e ravanare il fondo del barile degli stipendi dei docenti? Abbiamo capito, noi docenti, che essere uniti e com- patti e presenti è meglio che essere disgregati, contrastanti e assenti. Gli interlocutori adesso sono attenti, la scuola, che sia un proposito, uno slogan o la verità, adesso è in cima. Sta a noi vigilare. Critichiamoci tra di noi quanto vogliamo, ma per difendere il nostro dobbiamo essere compatti, anche per pro- porre e passare da un ruolo passivo a uno attivo, in qualunque parte o ruolo o funzione, civile, professionale, etica, associazionistica, sindacale o politica ci troviamo.

Io ho un ruolo politico, ma conta l’azione non il contenitore. E l’azione può compiersi in ogni modo, ambito o momento. Sono solo contenitori che mutano se ci siamo, ma non mutano nulla se non ci siamo. Siamo la scuola italiana ed è il momento di esserci.

L’Unità 09.01.14