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"Pasticcio scatti 2013, interviene Letta. Non ci sarà nessun prelievo in busta paga", da corriere.it

Il prelievo dei soldi già percepiti dalle buste paga degli insegnanti diventa un caso politico. Mentre il governo è al lavoro per rimediare al «pasticcio» degli scatti di anzianità erogati erroneamente nel 2013, è scaricabarile tra il titolare dell’Economia Maurizio Saccomanni e il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. «C’è stato un problema di comunicazione – dice Saccomanni- Il ministero dell’Economia è un mero esecutore. Aspettavamo istruzioni che non ci sono pervenute». In un comunicato ufficiale, il Mef precisa di aver informato il Miur il 9 dicembre scorso, quindi un mese fa, che avrebbe proceduto al calcolo e al recupero delle somme relative agli scatti, dando al Miur il tempo necessario a formulare diverse istruzioni. Istruzioni che però non sono mai arrivate, stando al ministero delle Finanze: motivo per cui «le strutture operative del Mef hanno proceduto secondo le informazioni disponibili e come disposto dalla legge in vigore». La Carrozza per ora chiosa, e parla di «impicci burocratici amministrativi» che possono, come in questo caso, portare ad un «pasticcio» senza che «i ministri e il governo ne sappiano niente»: «Tra Natale e Capodanno sono stati presi questi provvedimenti per inerzia amministrativa senza comunicare ai ministri competenti cosa stava avvenendo», ha spiegato il ministro. Chiarendo di non avercela con Saccomanni: interpellata sull’eventualità di dimissioni del ministro, chiarisce: «Non condivido quest’impostazione: Saccomanni è al lavoro, non ha preso un minuto di vacanza». Intanto il presidente del Consiglio, Enrico Letta, garantisce: «Gli insegnanti non dovranno restituire i 150 euro percepiti nel 2013 derivanti dalla questione del blocco degli scatti». Ma la «figuraccia» politica, per dirla con le parole di Matteo Renzi, resta: «Il governo ci ha messo una pezza. Era già accaduto con le slot machines, con gli affitti d’oro, con le polemiche dell’Anci- dice Matteo Renzi – dobbiamo trovare un diverso modo di lavorare insieme, Basta figuracce gratis».

PRELIEVO IN BUSTA PAGA – Centocinquanta euro in meno al mese nella busta paga, fino alla restituzione dei soldi percepiti in più nel 2013. E’ questa la stangata che stava per abbattersi sugli insegnanti italiani, che per effetto del Dpr 122/2013, emanato a settembre e d entrato in vigore il 9 novembre, si sono visti bloccare sia il rinnovo del contratto collettivo di lavoro che gli scatti stipendiali. Al punto che il ministero dell’Economia era stato costretto, con una nota del 27 dicembre, a richiedere indietro i soldi a chi ha già percepito l’aumento dello stipendio per effetto dello scatto. Una richiesta che ha sollevato le polemiche di tutti i sindacati della scuola, e che è stata contestata anche dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, che martedì su Twitter ha annunciato: «Ho chiesto al ministro Saccomanni di sospendere la procedura di recupero degli scatti stipendiali per il 2013». Pronta la replica del ministero dell’Economia : «Non dipende dal Tesoro, è un atto dovuto. Se il Miur riesce a trovare dei risparmi nell’ambito del suo dicastero per derogare al blocco degli scatti, il governo a quel punto potrà erogare gli scatti». Ed è questa la soluzione attorno a cui si sta lavorando in queste ore, per evitare che nel cedolino di gennaio 45mila tra insegnanti e ausiliari si ritrovino il recupero dei soldi percepiti in più.

I SINDACATI – I primi a sollevare la protesta erano stati i sindacati, minacciando lo sciopero generale. «Mi sembra una decisione inevitabile perché non era assolutamente comprensibile la scelta di chiedere ai lavoratori della scuola una restituzione», commenta ora Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. «Sciatteria di Saccomanni o polpetta avvelenata?», si chiede Raffaele Bonanni (Cisl). «Accogliamo con soddisfazione il dietrofront dichiarato dal governo ma adesso aspettiamo che all’annuncio politico seguano atti giuridici rilevanti», sottolinea Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti. E Massimo Di Menna(Uil) avverte: «Controlleremo che non ci siano sorprese».

Il Corriere della Sera 09.01.14

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“La ministra accusa i burocrati L’allarme (inascoltato) dei sindacati”, di Andrea Garibaldi

La ministra Carrozza ieri ha rinviato la sua partenza per Washington. Ha quindi parlato di «impicci burocratico amministrativi» e ha detto che questi avvengono «a volte senza che i ministri e il governo ne sappiano niente». Da una parte, Carrozza si mostra vittima in comune con Saccomanni. Dall’altra, ammette che il ruolo politico rischia, talvolta, di essere irrilevante. La burocrazia dell’Economia ha avvertito la burocrazia dell’Istruzione senza che nulla sia avvenuto a riparare quello che politicamente era per forza un errore. Carrozza ieri ha appreso questa lezione e la proclama: «La filiera tra la decisione politica e l’attuazione deve essere corta. Non è pensabile che da una parte si decidono le cose e dall’altra come e quando si pagano gli stipendi».
In realtà a volere sapere, i due ministri avrebbero potuto sapere. «Da novembre abbiamo denunciato sul nostro sito la possibilità che lo Stato avrebbe bussato alle porte dei lavoratori della scuola per chiedere soldi», dice Domenico Pantaleo, Cgil scuola. Il 30 novembre si svolge una manifestazione dei sindacati della scuola e il pericolo viene gridato dal palco. Massimo Di Menna, Uil scuola, racconta: «Sono venuto a conoscenza della nota del ministero dell’Economia il 27 dicembre. Il 29 dicembre ho cercato Carrozza per avvertirla che s’addensava una enorme nube. Mi hanno detto: è in Consiglio dei ministri. Il 3 gennaio ho scritto alla ministra per pregarla di affrontare il caso. Nessuna risposta». Lo stesso 29 dicembre l’allarme appare anche sul sito della Cisl.
Ecco, la Cisl. Il segretario generale Bonanni ha chiesto ieri sera di indagare su cosa c’è dietro «questa incuria o sciatteria di Saccomanni, una sciatteria politica. Chi ha preparato questa polpetta avvelenata? Potrebbe essere un caso creato dolosamente da qualcuno al ministero? Non sarebbe la prima volta». Proviamo a capire. Un’ipotesi è che nelle stanze della Ragioneria generale qualche alto dirigente complotti per far fuori il ministro e lo trascini in questo guaio. La seconda ipotesi è che nelle stesse stanze si sia tentata una vendetta contro gli «scatti di anzianità», che ormai sono un diritto solo per militari, giornalisti e personale scolastico. Carrozza ha avviato un’indagine nel suo ministero, per capire chi ha deciso di non avvertire i ministri di ciò che stava per accadere.
E adesso? Ce la faranno all’Economia a correggere gli stipendi di gennaio? Dove troverà il ministero dell’Istruzione gli oltre cento milioni per «rimborsare» l’Economia? Quasi certamente sottraendoli al Mof, i fondi destinati alla formazione, ai corsi di recupero, alle supplenze, all’autonomia scolastica. Con buona pace del risanamento della scuola pubblica.
Il Corriere della Sera 09.01.14

"Quel che resta della politica se dalle piazze si passa al web", di Riccardo Luna

Una consultazione online fa molto chic e ancora non impegna (purtroppo). Come certi bracciali di bigiotteria che servono a fare scena per una sera e basta. Con lo stesso meccanismo, quando non si sa bene cosa fare, con la e-democracy non si sbaglia. E così accade che la democrazia elettronica, che pure sarebbe un obiettivo teoricamente meraviglioso, è diventata l’ultima moda della politica in crisi di autorevolezza e a corto di idee, non solo in Italia; e come tutte le mode rischia di sparire al prossimo cambio di stagione. Non funziona!, diranno per sbarazzarsene. Quando in realtà stanno facendo di tutto per non farla funzionare. E se davvero dovesse andare così sarebbe un peccato perché in tanto confuso attivismo c’ è del buono. C’è la promessa di una trasparenza dei dati pubblici utile e non legata al mito grillino degli scontrini del bar. C’è la speranza di una partecipazione dei cittadini alla vita pubblica non rissosa o biliosa, ma competente e collaborativa (possibile con l’aria fetida che si respira a volte sul web? Pare di sì). E c’è il mito del governo “open”, “aperto”, quale unica via per rafforzare e rilanciare l’esangue democrazia rappresentativa.
Gli ultimi segnali in questa direzione sono molto forti. E indurrebbero un cauto ottimismo. Per esempio alla fine di novembre nel Regno Unito il presidente della Camera dei Comuni John Bercow, un cinquantenne di punta del partito conservatore, ha convocato i leader di Facebook, Twitter, Google, Apple e Microsoft non per chiedere loro conto di come usano i nostri dati personali, visti i rapporti del servizio segreto inglese con la Nsa americana, ma addirittura per aver suggerimenti su come favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica in una auspicata transizione verso la democrazia elettronica. La più antica democrazia del mondo che chiede aiuto alla Silicon Valley: a qualcuno sarà andato di traverso il whiskey. E qualche giorno dopo da Nashville, nel Tennessee, l’imprenditore-attivista americano Rod Massey, che in estate aveva raccolto 780mila dollari di finanziamenti per la sua startup Citizengine(più o meno: motore-cittadino), lanciava la prima app, iCitizen grazie alla quale seguire il dibattito politico statunitense e intervenire sulle questioni calde, ovvero «tutta la forza della democrazia sul vostro telefonino!», come recita lo slogan sul sito. Il tono è quello della réclame di fustino di detersivo, è vero, ma la app non è affatto male.
Il fenomeno della e-democracy non nasce oggi, anzi: viene da lontano (sono dieci anni esatti che si parla di rafforzare la democrazia con la rete); vanta alcuni successi clamorosi (la bozza di Costituzione islandese riscritta anche attraverso la partecipazione dei cittadini attraverso i social media; il voto elettronico in Estonia; il bilancio partecipato in certi comuni del Brasile); e ha da poco assunto il rango di un obiettivo mondiale grazie alla Open Government Partnership, un’alleanza alla quale partecipano – distrattamente invero – un centinaio di paesi.
Ma, per strano che sembri, è l’Italia la frontiera più avanzata verso una democrazia diretta o quantomeno molto partecipata. La causa va rintracciata naturalmente nel Movimento 5 Stelle, che ne ha fatto una bandiera, ma non solo. Nonostante l’età avanzata dei suoi ministri, fu il governo Monti ad avviare la stagione delle consultazioni online: a un certo punto se ne contarono cinque aperte contemporaneamente. Chi partecipava? Perché? Cosa se ne faceva l’esecutivo di quelle indicazioni? Chi garantiva l’autenticità del processo e chi tutelava i diritti degli assenti, che sono sacrosanti a meno di non voler instaurare una dittatura degli attivi? Sono tutte domande rimaste senza risposta, anzi sono domande che nessuno si è davvero mai posto in quei mesi e neanche dopo. Neanche adesso. Il richiamo delle consultazioni online deve essere sembrato troppo forte per fermarsi un istante a ragionare su come farle funzionare davvero: non c’era tempo forse anche per il tentativo un po’ goffo di arginare la domanda di partecipazione via web emersa con il grillismo.
E così quando a Palazzo Chigi si è insediato Enrico Letta, il ministro della Riforme istituzionali Gaetano Quagliarello ha lanciato un sito per chiedere ai cittadini quale modello di forma di governo adottare. E qualche giorno fa il ministro Maria Chiara Carrozza ha annunciato addirittura una maxi consultazione online sul tipo di scuola che vogliamo. Il suo predecessore, Francesco Profumo, con questo sistema dovette rimangiarsi l’impegno ad abolire il valore legale del titolo di studio perché via web emerse una volontà contraria. È questa la politica che vogliamo? Eterodiretta da attivisti col clic facile? Forse no. Perché in effetti se uno avesse voglia di guardare davvero dentro queste mitiche consultazioni digitali scoprirebbe cose curiose.
Per esempio, la consultazione più nota del governo Monti riguardò la spending review: venne chiesto ai cittadini di mandare una mail con le spese da tagliare; ne arrivarono 151.536, una enormità, ma solo 80.236 vennero esaminate, per le altre 71.300 non ci fu nemmeno uno sguardo (senza contare che la foto della pila di mail stampate in un ufficio di Palazzo Chigi era l’immagine stessa dello spreco di carta da tagliare…).
Con la consultazione avviata da Quagliarello è andata anche peggio: il ministro si era rivolto a due giovani civic hacker molto esperti, Donatella Solda Kutzman e Damien Lanfrey, che avevano allestito un sito chiaro e rapido per informarsi e dire la propria: “Partecipa!”, il titolo. Risultato: «203.061 questionari validi!», esultò il ministro dopo tre mesi, «è stata la più grande consultazione online d’Europa ». Già, ma a qualcuno interessa davvero cosa hanno detto quei cittadini, il loro parere conta adesso che il dibattito sulle riforme è entrato nel vivo? Zero.
Non è andata meglio finora con gli esperimenti in area Beppe Grillo e dintorni. Il punto di partenza è stato Liquid Feedback, una piattaforma per la democrazia diretta realizzata dal Partito pirata tedesco. Dopo un fallimentare test con il programma tv Servizio Pubblico nel 2012, una nuova versione è stata adottata da un gruppo di parlamentari del partito democratico guidati da Laura Puppato: Tu Parlamento doveva servire a portare in aula le migliori proposte dei cittadini. Bello, ma dal 6 settembre scorso il sito è fermo. Nel frattempo i grillini si sono spostati su Airesis: è una nuova piattaforma sviluppata da un gruppo di volontari «che vogliono una democrazia più evoluta ». Il vero test di Airesis avrebbe dovuto essere a Parma, nell’unico comune amministrato da un sindaco grillino. «Vogliamo convincere tutti i cittadini di Parma a iscriversi», era il proposito iniziale. Se ne sono perse le tracce. Intanto febbraio dovrebbe essere il mese clou per un altro esperimento a 5 stelle: si chiama Parlamento Elettronico e vuole «trasformare l’Italia nel più avanzato laboratorio di democrazia digitale del pianeta». Per un obiettivo così importante la raccolta fondi procede un po’ a rilento: duemila euro.
I problemi non sono solo italiani. La Commissione Europea ha appena lanciato una consultazione
monstre sul copyright che richiede di scaricarsi un file word di 140 pagine. Impossibile partecipare. E così la parlamentare del Partito pirata svedese Amelie Andersdotter e un gruppo di hacker durante le feste di Natale hanno realizzato un sito multilingue che rende facile e intuitiva la partecipazione. Morale: solo i civic hacker, gli smanettoni animati da senso civico, possono salvare la e-democracy.

La Repubblica 09.01.13

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“E-democracy, l’inganno in un clic”, di CURZIO MALTESE
Non abbiamo bisogno di attendere febbraio e il risultato della consultazione online lanciata da Beppe Grillo.
Non abbiamo bisogno di attendere febbraio e il risultato della consultazione online lanciata da Beppe Grillo per conoscere la proposta di legge elettorale «liberamente votata» dagli iscritti al Movimento 5 Stelle. Si può scommettere sin d’ora che non sarà nessuna delle tre ipotesi maggioritarie (sindaci, sistema spagnolo, Mattarellum corretto) avanzate dal Pd di Renzi, ma una quarta di base proporzionale che, vedi il caso, coincide con gli interessi aziendali della Grillo&Casaleggio associati. In questo modo l’unica maggioranza possibile sarà ancora quella destra-sinistra, con Pd e Berlusconi, e Grillo potrà sempre gridare all’inciucio.
Grillo&Casaleggio non vuole liquidare l’orrido regime della Seconda repubblica, altrimenti voterebbe una legge maggioritaria puntando alla vittoria finale. Preferiscono lucrare il più possibile sul caos politico, alla faccia e sulla pelle degli italiani. Beppe è stato un grande comico e potrebbe evitarci queste pagliacciate della cosiddetta democrazia diretta, ma nella presa per i fondelli dei propri elettori è compresa questa finzione, già sperimentata con successo con le parlamentarie, che hanno eletto senatori e deputati i militanti con più parenti, e le quirinarie, una vera farsa. Alle quirinarie gli iscritti avevano votato, sempre liberamente, una lista di candidati utile alla strategia dei capi: mettere in difficoltà il Pd, ma senza arrivare a un accordo per un nome condiviso (Prodi, per esempio).
Sono convinto che Internet sia un passo indietro rispetto all’evoluzione della specie. Di sicuro lo è per la democrazia, retorica a parte. Il partito-movimento di Grillo, che è il più grande fenomeno politico mondiale nato dalla rete, ne è una conferma clamorosa. Con tutte le chiacchiere sulla democrazia diretta e «l’uno vale uno», il Movimento 5 Stelle è un partito autocratico da anni Trenta. Non si era mai visto uno schieramento con il marchio depositato alla camera di commercio e protetto da uno stuolo di legulei. I capi concedono o negano il marchio, vedi il caso Sardegna, secondo logiche aziendali. Decidono quando fare le dirette streaming e quando non farle. Le consultazioni online sono riservate ai soli iscritti, per giunta quelli della prima ora, poche decine di migliaia di persone, spesso molto meno. I risultati sono palesemente decisi da Grillo e Casaleggio, che possono anche non comunicarli, come hanno fatto dopo il primo turno delle quirinarie. I commenti non in linea con la volontà dei capi sono sistematicamente espulsi dal sito. Il quale sito, peraltro, rimane di propriet à di Grillo, che lo usa per vendere propri prodotti e pubblicità. È la follia. Eppure i seguaci non fiatano, illusi di partecipare con un clic al grande gioco. Gianroberto Casaleggio, ideologo della democrazia in rete, è del resto un oligarca e un teorico del governo della rete da parte di un’élite illuminata.
Lungi dal liberare i cittadini dalla passività del mezzo televisivo, la rete ha costruito una base di finta partecipazione che permette a chi comanda di decidere da solo, ma fra gli applausi dei sudditi. Oltre a impedire la partecipazione, la rete limita anche il dibattito. O meglio, abbassa il dibattito a un livello tale da renderlo del tutto inutile, se non come pretesto per sfogare la rabbia di qualcuno e la pazzia di molti. Su Internet sono tutti esperti, scienziati, profeti. Il dato oggettivo non esiste perché, almeno in questo, uno vale davvero uno. Si assiste dunque a discussioni su argomenti importanti e complessi affidati a pseudo studiosi, con corredo di deliranti teorie del complotto e vere e proprie leggende metropolitane. Al confronto, perfino i dibattiti in Parlamento sembrano una faccenda seria. Si parte con i petrolieri che bloccano da decenni l’auto all’idrogeno e le case farmaceutiche che boicottano la cura contro il cancro, e si finisce con chi ha visto le sirene e i microchip della Cia sotto la pelle. Poiché tutto è complotto, nulla lo è.

La Repubblica 09.01.14

Eccidio Fonderie, Pd “Una cicatrice nella nostra storia sociale”

Lucia Bursi e Andrea Sirotti saranno giovedì 9 gennaio alla cerimonia commemorativa. Una delegazione del Pd, guidata dal segretario provinciale Lucia Bursi e dal segretario cittadino Andrea Sirotti, parteciperà, giovedì 9 gennaio, alla cerimonia commemorativa del 64esimo anniversario dell’Eccidio delle Fonderie Riunite di Modena. “L’Eccidio delle Fonderie riunite – affermano Lucia Bursi e Andrea Sirotti – è un’indelebile cicatrice della nostra storia sociale”.

Giovedì prossimo 9 gennaio, anche il segretario provinciale Pd Lucia Bursi e il segretario cittadino Pd Andrea Sirotti prenderanno parte alla cerimonia di commemorazione dell’Eccidio delle Fonderie Riunite, a 64 anni da quella tragica mattinata che segnò uno spartiacque nella storia delle relazioni sociali, economiche, e anche politiche, del dopoguerra italiano. “L’Eccidio delle Fonderie Riunite di Modena – affermano Lucia Bursi e Andrea Sirotti – è un’indelebile cicatrice nella nostra storia sociale: è stata una pagina buia del vissuto repubblicano che è meritorio indagare ancora oggi nei suoi diversi aspetti. Il nesso fra lavoro, tenuta sociale e democrazia è un tema di analisi fondamentale per comprendere meglio l’esistente e per dare un futuro migliore al nostro Paese. Le trasformazioni socioeconomiche di questi anni sono profondamente legate al lavoro, non solo per quanto riguarda le difficoltà occupazionali. Il tema del lavoro deve tornare centrale e deve essere affrontato con serietà riuscendo ad andare oltre alle tematiche contrattuali, pur fondamentali. Sul tema del lavoro – concludono Lucia Bursi e Andrea Sirotti – c’è bisogno d’intervenire presto. E, soprattutto, c’è bisogno d’intervenire bene per creare sviluppo e dare maggiori opportunità oltre a diffuse e crescenti garanzie”.

Ricerca e innovazione le chiavi di volta per vedere la crescita", di Ilaria Vesentini

Una metafora e tre storie intrecciate raccontano i dodici faticosi mesi appena chiusi dall’economia emiliano-romagnola, con un Pil sceso dell’1,4% (meglio comunque del -1,8 in Italia, secondo Prometeia e Unioncamere regionale), un valore aggiunto manifatturiero arretrato di 2,2 punti, investimenti calati del 5,3%, altre 6mila aziende perse in un anno e un tasso di disoccupazione record (per la virtuosa Emilia) all’8,6%. Una caduta rallentata, rispetto all’anno prima, ma pur sempre una caduta, non compensata da un export salito di un paio di punti, unico segno più nel panorama produttivo tra Piacenza e Rimini.
La metafora è quella delle città invisibili di Italo Calvino, del disordinato e stratificato disegno architettonico di Zenobia, cui ricorre il direttore del centro studi camerale, Guido Caselli, per paragonare il modello di sviluppo economico-sociale della regione, oggi al bivio. «Come gli abitanti di Zenobia ci siamo così adattati al nostro vivere che fatichiamo a immaginare un modello di sviluppo differente. Non solo ancora brancoliamo nel tunnel in cui correttamente un anno fa scorgevamo una luce all’uscita, ma abbiamo smarrito il senso dell’orientamento. La prima domanda da porci riguarda la direzione di marcia da seguire».
Per capire la traiettoria di un territorio abituato a eccellere nell’industria (che vale il 30% del suo valore aggiunto contro il 25% in Europa) e oggi è appiattito sulla media del Paese, bisogna leggere i tre differenti racconti dell’economia regionale che escono dal 2013. Il racconto congiunturale di una crisi inedita per intensità e durata, con un Pil ancora 8 punti sotto i valori del 2007 e una produzione industriale che ha perso il 25% in sei anni, dove si avvicina pericolosamente la soglia del 9% di disoccupazione, di riflesso a imprese e occupati che diminuiscono dell’1,4% nei dodici mesi. «Dove tutti i settori e tutte le dimensioni di industria perdono fatturato, produzione e ordini. Solo chi esporta più del 50% del fatturato – precisa Caselli – è già tornato oltre i valori pre-crisi».
Il secondo racconto è quello del terremoto, «di una disgrazia trasformata in opportunità, della coesione sociale tra cittadini, imprese e associazioni che ha permesso di ripartire subito e meglio di prima e ha trattenuto qui tutte le multinazionali», commenta l’assessore regionale alle Attività produttive, Gian Carlo Muzzarelli, che ha in cantiere da mesi la legge sull’attrattività per agganciare investimenti, ma annuncia intanto l’avvio di un nuovo fondo per stimolare i mestieri tradizionali e riportare gli emiliani a sporcarsi le mani. Terremoto che è però anche lentezza nella macchina degli aiuti, come testimoniano i 500 milioni appena di contributi stanziati fin qui alle imprese a fronte di 6 miliardi di euro disponibili.
Infine c’è il racconto della speranza, del futuro. Di un 2014 in cui Prometeia prevede un ritorno in positivo di tutti gli indicatori per l’Emilia-Romagna eccezion fatta per il lavoro (Pil +1,1%, consumi privati + 0,1 dopo il -2,1 del 2013, investimenti fissi lordi a +1,6%). Una risalita fondata sempre sull’export (stimato in accelerazione a +2,9%) e sull’internazionalizzazione, che si tratti di turismo, agroalimentare o meccanica (due motori che da soli valgono il 66% dei flussi oltrefrontiera). Dietro, a spingere, ci sono i plus di una regione virtuosa, «prima in Italia per qualità e quantità di risorse europee spese», rimarca Muzzarelli, prima per capacità brevettuale (301 invenzioni industriali tutelate ogni milione di abitanti contro le 155 di media italiana); seconda solo alla Lombardia per imprese coinvolte in contratti di rete (781) e per start up innovative (162), pur avendo dimensioni dimezzate rispetto alla regione del Nord-Ovest (420mila le imprese sulla via Emilia, 817mila in Lombardia). «Ora bisogna rimettere in moto l’occupazione», è l’appello del numero uno di Unioncamere, Carlo Alberto Roncarati, di fronte ai dati della Cgil che parlano di 84 milioni di ore di cassa integrazione autorizzate nei primi 11 mesi dell’anno (4 milioni in più del 2012) coinvolgendo 125mila lavoratori. Il senso di marcia lungo il quale i segnali di ripresa potranno consolidarsi è quello tratteggiato al tavolo dell’economia regionale (cui siedono categorie economiche, banche e sindacati): una «crescita sostenibile, intelligente e inclusiva». L’industria emiliana farà dunque qualità prima che quantità e investirà su R&S e design a monte, e a distribuzione e servizio a valle, più che sulla produzione; sulle high skills più che sulle competenze base, spiega l’economista di Parma, Franco Mosconi. E a garantire la competitività del made in Emilia worldwide saranno «le filiere lunghe», preconizza Caselli.
«Per dare alle imprese la possibilità di agganciare la ripresa servono però il sostegno del pubblico – ammonisce il presidente di Confindustria Emilia-Romagna, Maurizio Marchesini – sul fonte ricerca, innovazione, investimenti, detassazione, ma anche un sistema del credito capace di accompagnare le Pmi». I dati a settembre 2013 raccontano invece di prestiti bancari calati del 5% a fronte di depositi (e dunque fondi non drenati alle imprese) cresciuti di 6,6 punti.

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La maglieria di Carpi fiaccata dal sisma
CARPI (MO).
Mancano ancora venti punti percentuali per ritrovare i valori di export di cinque anni fa e non basta il +4,4% messo a segno nella prima metà del 2013 al distretto della maglieria di Carpi per suonare le campane a festa.
Tutt’altro. Non sono però le conseguenze del terremoto a preoccupare il cluster storico della moda emiliano-romagnola, dove un migliaio di piccole aziende (una su cinque è straniera, quasi sempre cinese) affiancano pochi big con marchi internazionali come Liu-Jo, Bluemarine, Stone Island). Quanto invece gli effetti della bassa vocazione all’export e del ricorso indiscriminato dei clienti al concordato preventivo che sta facendo vacillare a cascata tutta la filiera a monte. Aziende già stremate dal credit crunch, nonostante la dura selezione che hanno superato.
Perché negli ultimi vent’anni il polo dell’abbigliamento di Carpi ha perso metà delle imprese e degli occupati. E il terremoto che ha lambito quest’area ha portato nuova pioggia sul bagnato. Le aziende terremotate lamentano non tanto di non aver ancora incassato un euro pubblico per la ricostruzione post-sisma, quanto invece di aver e speso centinaia di migliaia di euro per la messa in sicurezza delle fabbriche, soldi sottratti agli investimenti su mercati e innovazione, indispensabili per sopravvivere. E oggi non vedono luci in fondo al tunnel.
Questo il quadro che gli ultimi dati aggiornati disponibili sul distretto – quelli del Monitor Intesa Sanpaolo che parlano di ripresa – non raccontano, ma che traspare dal tono cupo con cui Stefano Bonacini, presidente della Gaudì e della sezione tessile-abbigliamento di Confindustria Modena riassume le voci degli imprenditori nel cluster carpigiano.
«Per non risentire del pessimo momento congiunturale domestico – racconta – bisognerebbe avere una quota export superiore alla metà del fatturato. Mentre qui le aziende più grosse si fermano al 30% e le piccole realtà che lavorano per private label e la distribuzione non arrivano al 5 per cento.
In dodici mesi Gaudì è passata dal 20 al 40% di export, ma il problema non è più vendere, è incassare. Se vogliamo uscire da questo imbuto dobbiamo cominciare a vendere ai negozi solo in contanti. Il concordato di Mario Monti grida vendetta: non si può permettere a un’azienda di sistemare i conti per salvare i posti di lavoro mettendo in ginocchio i propri fornitori e relativi dipendenti».
I. Ve.

da Il SOle 24 Ore 08.01.14

"Disoccupazione giovanile al 41,6%: al top dal ‘77", da corriere.it

Il tasso di disoccupazione giovanile è cresciuto ancora toccando il 41,6% in aumento di 0,2 punti rispetto a ottobre (dato rivisto al rialzo al 41,4%) e di quattro punti rispetto a novembre 2012. Lo rileva l’Istat spiegando che il tasso è al top dall’inizio delle serie storiche, ovvero dal 1977. L’istituto precisa che a novembre 2013 erano occupati 924 mila giovani tra i 15 e i 24 anni in calo dell’1,3% rispetto al mese precedente (-12 mila) e del 12,4% su base annua (-131 mila).

GLI UNDER 25 – Così il tasso di occupazione dei giovani è pari al 15,4% in calo di 0,2 punti rispetto a ottobre e di 2,1 punti rispetto a novembre 2012. I giovani disoccupati sono 659 mila con un aumento di 23 mila unità rispetto a novembre 2012. L’Istat ricorda che il tasso di disoccupazione giovanile è la quota dei giovani disoccupati sul totale degli attivi (occupati e disoccupati). L’incidenza dei disoccupati sull’intera popolazione in questa fascia di età è pari all’11%. I giovani inattivi sono nel complesso quattro milioni 424 mila, in aumento dell’1,9% (+81 mila) rispetto a novembre 2012.

I VALORI ASSOLUTI – Il numero di disoccupati è invece pari a 3 milioni 254 mila e aumenta a novembre dell’1,8% rispetto al mese precedente (+57 mila) e del 12,1% su base annua (+351 mila). La crescita tendenziale della disoccupazione è più forte per gli uomini (+17,2%) che per le donne (+6,1%). Gli occupati sono 22 milioni 292 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55 mila) e del 2% su base annua (-448 mila). Il tasso di occupazione, pari al 55,4%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di un punto rispetto a dodici mesi prima. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-24 mila unità) mentre resta sostanzialmente invariato rispetto a dodici mesi prima. Il tasso di inattività si attesta così al 36,4%, stabile in termini congiunturali e in aumento di 0,1 punti percentuali su base annua.

www.corriere.it

"Aziende più affidabili se guidate da donne per il 53% non ci sono rischi commerciali", di Agnese Ananasso

Le donne sono più affidabili degli uomini se si parla di affari. Da un’indagine condotta da Cribis D&B — società del Gruppo Crif — sull’intero universo delle imprese italiane, con dati aggiornati a ottobre di quest’anno, le imprese guidate dalle donne risultano commercialmente più sicure nel pagamento dei fornitori e nel rispetto delle varie scadenze. All’aumentare delle quote rosa tra i top manager diminuisce il rischio di insolvenza: se ai piani alti le donne sono più del 50% l’azienda è più ligia agli impegni presi con i fornitori, quando si scende sotto il 10% aumenta il grado di rischio.
Senza considerare le differenze di genere nei board aziendali, le imprese italiane che presentano una rischiosità commerciale di basso livello sono pari al 43%, medio al 46%, alto all’11%. E per rischiosità commerciale si intende la possibilità di non pagare i fornitori nei prossimi 12 mesi.
I dati cambiano però se nei board ci sono le donne: la bassa rischiosità scende al 40% se queste rappresentano meno del 10% dei componenti, si alza,
sfiorando il 50% dove le quote rosa si attestano tra il 26 e il 50% e addirittura sale al 53% quando le donne sono la maggioranza (tra il 51 e il 75%). In quest’ultimo caso il 35% delle aziende si trova nel commercio al dettaglio, seguito dai servizi commerciali e alla persona (26%) e dall’agricoltura (il 14%). Tutti settori caratterizzati da aziende piccole o piccolissime. «Una conferma dell’analisi
deriva anche dalla natura giuridica che mostra come, sempre considerando le aziende con presenza femminile maggiore del 50%, il 68% è rappresentato da ditte individuali — spiega Marco Preti, ammini-stratore delegato di Cribis D&B — . Non abbiamo elementi per dare una spiegazione strutturata sul perché le aziende con un board ad alto tasso femminile siano più affidabili, ma è innegabile che le realtà guidate da donne mostrano una maggiore attenzione a onorare gli impegni presi e una gestione più oculata dell’attività rispetto alle aziende guidate da uomini. Questi elementi hanno probabilmente consentito alle imprese “rosa” di gestire meglio le difficoltà generate dalla crisi economica». Infatti negli ultimi cinque anni, secondo i dati di Confartigianato, il numero delle lavoratrici indipendenti italiane (imprendi-trici, lavoratrici autonome, libere professioniste) è diminuito del 6,7%, contro il 9,1% degli uomini. Mentre le donne a capo di imprese con dipendenti sono addirittura aumentate di quasi 29mila unità, pari all’8% .
Tornando al fattore affidabilità e analizzando l’anzianità delle aziende «si nota una distribuzione equilibrata tra imprese giovani (il 21% ha iniziato l’attività nel 2011 o dopo), imprese medie (il 42% tra il 2001 e il 2010) e aziende storiche — dice Preti — . Unendo questo dato ai settori di appartenenza (commercio e servizi), dove il tasso di chiusura e apertura di nuove aziende è più elevato, c’è un’ulteriore conferma dell’affidabilità di quelle guidate da donne».

La Repubblica 08.01.14

"Bonsai", di Sebastiano Messina

Finisce sugli scogli appuntiti della Sardegna la favoletta grillina della democrazia spontanea, pura e miracolosa, dove i cittadini discutono in un “meetup” sotto casa il ripianamento del debito pubblico e risolvono qualunque dilemma votando sul blog della ditta Grillo&Casaleggio, felici e appagati del riconquistato potere di cittadini. Poi un giorno si scopre che il movimento che si candida a guidare il Paese non riesce neanche a presentare una lista alle elezioni regionali sarde. Non perché manchino i candidati, ma perché ce ne sono troppi. E litigano. E si detestano a vicenda. «C’è troppo livore, troppa incoscienza, troppo protagonismo» annuncia la deputata Emanuela Corda. Ma pensa: proprio come negli altri partiti. Così niente lista, ha deciso Grillo. Magari un’altra volta: se impareranno la favoletta.

La Repubblica 08.01.14