«Solo per riportare al lavoro tutti gli operai ora in cassa integrazione Marchionne dovrebbe triplicare la produzione di vetture in Italia. Se lo farà sarò il primo a lodarlo, ma faccio molta fatica ad immaginare come: rilanciare Alfa Romeo non basterà». Il sociologo Luciano Gallino non minimizza «l’importanza» dell’acquisizione della Chrysler da parte di Fiat, ma avverte: «In questo modo si è portata a termine la ritirata produttiva cominciata dalla famiglia Agnelli 20 anni fa».
Professor Gallino, è Fiat ad aver comprato tutta Chrysler o è vero esattamente il contrario?
«La proprietà è indubbiamente del Lingotto. Però cervello e muscoli sono negli Stati Uniti, il baricentro è spostato tutto al di là dell’oceano. Basta osservare la sproporzione nei livelli di produzione: il gruppo nel 2013 ha prodotto 5 milioni di auto, di cui 3,5 milioni Chrysler e solo 1,5 milioni Fiat. Di queste solo 370mila in Italia. E cioé meno che in Paesi come la Slovacchia o il piccolo Belgio. Se pensiamo che nel 1993 nel nostro Paese si produce- vano due milioni di auto e che nel 2003, anno dell’arrivo di Marchionne, si arrivò ad un milione, vediamo come la Fiat è in ritirata dall’Italia da almeno vent’anni, una strategia pianificata anche prima dell’arrivo di Marchionne. Si tratta di un processo unico che non ha eguali al mondo: i tedeschi, i francesi continuano a produrre nei loro Paesi…»
Veramente il professor Berta a l’Unità ha sostenuto che a parte i tre primi produttori (Toyota, Gm e Volkswagen) gli altri sono costretti a diventare globali per non uscire dal mercato…
«Non capisco la differenza. Fiat-Chrysler è un gruppo globale, ma testa e muscoli stanno negli Stati Uniti. La Fiat è l’unico gruppo in cui il Paese di origine ha una capacità produttiva pari al 65% del potenziale: dei 25mila lavoratori rimasti in Italia gran parte lavora pochi giorni al mese, il resto è in cassa integrazione. Ripeto: è un caso unico al mondo».
Quando Fiat entrò in Chrysler ci si vantò del fatto che le piattaforme produttive italiane, molto più avanzate, sarebbero state usate negli stabilimenti americani. Ora succederà il contrario? I centri di ricerca e gli enti centrali di Torino sono a rischio?
«Nella produzione di auto gli ingegneri devono essere vicini alla produzione. Ahimè, se la gran parte della produzione rimarrà negli Stati Uniti anche i centri di ricerca saranno spostati lì. L’unica speranza è che si decida di aumentare fortemente la capacità produttiva in Italia. Ma va tenuto conto che l’idea di spostare la produzione italiana verso i segmenti alti, fino al cosiddetto Polo del lusso, comporta meno necessità di lavoro e molto esternalizzazione della produzione. In più negli ultimi anni, a causa della crisi, la tecnologia è molto cambiata, la robotizzazione e l’automazione dei processi ha portato al fatto che per produrre una vettura servono sempre meno ore lavoro, ormai anche meno di 20, si può stimare che per riportare al lavoro tutti i 23mila dipendenti italiani serve triplicare la produzione del 2013, arrivare almeno ad 1,2 milioni di auto».
Il piano di Marchionne sembra essere quello di puntare sul rilancio dell’Alfa Ro- meo. Basterà?
«Da quando Fiat acquisì, sappiamo tutti come, Alfa Romeo, ha prodotto auto bellissime, come la “156”. Un modello di grande successo. L’operazione di esportarla in Germania però fallì miseramente. Ecco, l’Alfa è un nome così famoso che ancora ha sicuramente mercato. Che basti da sola a rilanciare la produzione in Italia mi sembra però irrealistico».
E allora come spiegare i giudizi trionfali quasi unanimi sull’importanza dell’accordo e sulle ricadute occupazionali di sindacati e politica?
«L’acquisizione di un’azienda estera non può che essere benvenuta. Ma se poi i posti di lavoro si producono in Ontario o in Minnesota, il senso della festa tende a scomparire».
E il ruolo del nostro governo? Nel suo ultimo libro («Il colpo di Stato di banche e governi») lei li descrive sempre più deboli…
«Non mi ricordo chi sia il ministro dello Sviluppo (sorride, ndr). Bisognerebbe chiedere a lui. Il successo dell’auto in Germania, in Francia ma anche in Inghilterra dove impera la finanziarizzazione, è sempre figlio di un intervento pubblico esplicito, come nel caso di Obama, o meno, come nel caso tedesco. In tutti i casi c’è alle spalle una politica industriale. In Italia non è stato fatto nulla, ci si è accontentati dei comunicati stampa del Lingotto in cui si promettevano investimenti. Sarebbe interessante se il governo italiano si destasse chiedendo finalmente a Marchionne numeri, dati, impegni precisi per i prossimi 2-3 anni».
Non mi sembra molto ottimista…
«Manca la volontà. E anche il personale: in Germania al ministero dell’Economia ci sono dozzine di esperti che si occupano di tecnologia perché sanno che le ricadute occupazionali sono decisive. Da noi non c’è nessuno».
Lei vive a Torino. Si dice che Marchionne potrebbe lasciare. Com’è stato il suo rapporto con la città? Che cosa ne sarà degli Agnelli dopo di lui?
«Nei primi anni si diceva che Marchionne giocava a carte con Chiamparino. Poi non si è più visto. Il rapporto non esiste. Gli Agnelli hanno portato avanti il loro piano di dismissione della produzione di auto. Ahinoi, andranno avanti così. A meno di un miracolo. A cui non credo ».
L’Unità 04.01.14