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“Vi racconto chi era Alessandra che aprì Palermo alla scuola”, di Mila Spicola

Mi chiamò una mattina dei primi di novembre nel 2007. “Ciao sono Alessandra Siragusa, sei Mila? Volevo incontrarti.” Erano i primissimi giorni del neonato PD, elette entrambe tra i delegati nel parlamentino regionale del Partito.

E’ iniziato così un grande rapporto umano che ha avuto alti e bassi come tutte le amicizie. Mi hanno chiesto di scrivere di lei, adesso che un male fulminante ce l’ha tolta e siccome il personale è politico eccomi qua a parlare di Alessandra Siragusa, palermitana, ex parlamentare del PD, in modo politico e in modo personale.

Le stragi del ‘92 furono uno spartiacque nella vita di entrambe e di questo parlammo durante quella prima chiacchierata al bar delle Magnolie di Palermo. Nel ‘92 lei era già impegnata in politica e decideva di impegnarsi ancor di più. Io fuggivo da Palermo letteralmente il 21 luglio del ’92, due giorni dopo la strage di Borsellino, per far ritorno proprio nel settembre del 2007, come vincitrice di cattedra nella scuola. «Ho un fratello magistrato, io faccio politica, cosa vuol dire fare antimafia se non fare politica in modo onesto e serio per i bambini?».

Non l’avevo vissuta dunque la stagione della primavera di Palermo, io non c’ero, come tanti della mia generazione. Non la conoscevo direttamente ma tutti sapevano chi era Alessandra Siragusa, a partire dagli insegnanti. Era entusiasta mia madre, maestra, di come le scuole vennero aperte. Ma era la città che si era aperta alla scuola. “Palermo apre le porte”, la sua intuizione, fu innanzitutto una grande festa di riappropriazione di una città che era stata per troppi anni occupata dalla paura, per gli studenti, per le famiglie e per i docenti di Palermo. C’è ancora quella settimana in cui ogni scuola adotta un monumento e piccoli cicerone lo raccontano ai palermitani. E non c’è maestra o maestro ormai in pensione, palermitano o palermitana, che non si faccia il giro dei monumenti in quei giorni a sentir parlare i bambini e i ragazzi di storia e arte.
E’ diventata assessore alla Scuola nel 1993. Quello che invece i più non ricordano è che fu merito suo l’eliminazione dei doppi e tripli turni perché in quel periodo, unico nel dopo guerra, si costruirono nuove scuole. «Ho due scuole: insegno alla padre Puglisi e alla Falcone». «Ma pensa, si iniziarono a costruire con me assessore quelle due scuole».

Alessandra si battè strenuamente perché il desiderio di padre Puglisi diventasse realtà: la scuola nei quartieri a rischio. Quello che non tutti sanno è che Alessandra rischiò. Ebbe minacce, problemi perenni, che ha sempre taciuto con quel modo discreto e determinato che era il suo far politica. Si inventò anche “Tempo d’estate”, con l’apertura nelle scuole nei quartieri per i ragazzini, che in estate non avevano alternative alla strada.

Era amata ma sfortunata politicamente Alessandra. Alle elezioni europee del 2004 raccoglie 61 mila voti nella lista dell’Ulivo ma non viene eletta, e non è fortunata neanche alle regionali del 2006: settemila voti nella lista per Rita Borsellino che non supera lo sbarramento. Nel 2007 si candida alle primarie per sindaco di Palermo ma non supera il suo ex leader Leoluca Orlando. «Il mio sogno? Essere sindaco. Lo dicevo già da bambina. Amo questa città». Un anno dopo nel 2008, ottiene un seggio con il Pd alla Camera, dove è una delle parlamentari più attive e presenti sui temi della Scuola. Era una donna che faceva politica con artigianale precisione e puntando al rapporto umano con chiunque. «Adesso ci mettiamo a fare le telefonate, prendo l’agenda». «Ale..ma è un elenco infinito!! C’è tutta la scuola di Palermo!!Mandiamo una mail, almeno ai docenti! Non finiamo più così” “Una telefonata l’uno e i tempi si dimezzano, veloce!».
In giro per la Sicilia, bloccate in una galleria vicino Belmonte Mezzagno con la ruota a terra, dove ci aspettavano per un incontro. O quella volta a Castelvetrano in piazza salvo che sotto il palco c’erano solo tre vecchiette con la sedia e gli organizzatori mortificati «vabbè, l’annulliamo» e lei, con quel sorriso dolce e la voce determinata ,«non si annulla niente». Salì sul palco e parlò più di un’ora di scuola, tagli, precari e tempo pieno a quelle tre vecchiette che alla fine fecero persino domande.

Oppure gli incontri organizzativi alle giostre, mentre la figlia giocava e i fogli volavano al primo vento. I nostri destini politici si son separati per un po, lei sostenne Bersani e io Renzi alle primarie del 2012. Mai quelli personali, quando il PD decise di fare le parlamentarie con doppia preferenza la sostenni.

Non ci sentivamo da qualche mese, avevo pubblicato su facebook un appello al voto per lei, «Come stai?» «Bene, devo fare delle analisi per qualche giramento di testa..sarà la menopausa, ma è vero che hai lasciato il PD? Mila, devi riprenderti la tessera, che dici, andiamo a vedere un film con mia figlia?» «Sì, sì, certo, la tessera poi me la prendo». Ancora una volta la sua sfortuna elettorale: non supera le parlamentarie e non torna in Parlamento. Il 14 febbraio una delle ultime uscite pubbliche, viene in piazza a ballare contro la violenza sulle donne per il One Billion Rising.

Eppure l’ho saputo da altri, proprio quel giorno, che Alessandra stava male. Dell’anno che c’è in mezzo voglio ricordare solo l’ Alessandra ancora candidata, alle convenzioni del PD, primarie 2013. Lista a sostegno di Renzi questa volta. Una voce polemica mi disse: «Dovevate rottamare e avete rimesso in lista i politici di 20 anni fa?» «Vergognati», risposi, «Se vogliamo parlare di donne del rinnovamento chi se non lei?”». Il giorno delle primarie Alessandra ha espresso il desiderio di votare. Le mandammo la scheda, proprio dal mio gazebo. La politica onesta è la politica capace. Lei lo era, onesta e capace.

Scorro la home di facebook ed è piena di messaggi per lei, centinaia. Ne scelgo uno su tutti: «Alessandra Siragusa é stata un patrimonio per la politica italiana. Ha creato un rapporto d’amore tra Palermo e i palermitani attraverso la scuola, facendo della battaglia per il rinnovamento dell’istruzione e del cambiamento culturale una ragione di vita. Sempre dalla parte delle donne, dei bambini, degli ultimi. Con lei, Palermo aprì le porte. Oggi, le apre il cuore per stringerla in un lungo incessante abbraccio. Di lei, si sentirà la mancanza. Da lei ogni donna, e soprattutto quelle impegnate in politica, deve trarne esempio. Di te, Alessandra, faremo memoria».

«Devi cercarle una per una le persone, farle sentire importanti, e lo sono. Alimentano la nostra passione e la nostra vita, ricordatelo sempre». Alessandra oggi, una ad una, quelle persone ti stanno facendo capire quanto sei stata importante.

da www.unita.it

Renzi gela Letta e Alfano: “Niente in comune con loro”, di Federico Geremicca

Renzi, a colloquio con La Stampa, rifiuta la vicinanza generazionale con Letta e Alfano. «Io sono totalmente diverso, per tanti motivi». E sul governo: «Bisogna tener fede a quanto detto: se Letta fa, va avanti. Certo, se si fanno marchette e si passa dalle larghe intese all`assalto alla diligenza, non va bene».
«Me l`ha mai sentito dire? Io quella parola, intendo rimpasto, non l`ho mai pronunciata e mai la pronuncerò. E se proprio lo vuol sapere, anzi, mi fa anche un po` senso».
Matteo Renzi al telefono, sei del pomeriggio, giusto così, per uno scambio d`auguri. Auguri per un 2014 migliore del 2013, naturalmente. Auguri anche ad Enrico Letta, certo: pur se la letterina che il leader del Pd invia al premier è di quelle che uno preferirebbe non ricevere mai. Partire dal presidente del Consiglio e dall`indecifrabile rapporto tra i due «giovani leoni» del Pd può forse avere un senso perché è proprio quella vicinanza generazionale – tanto per cominciare – che Matteo Renzi rifiuta, anzi rigetta, spiegando con puntiglio il perché: «Non posso accettare – dice – l`impostazione che Enrico ha dato alla sua conferenza stampa di fine anno, quando ha detto che un salto generazionale è compiuto, facendo quasi immaginare una intesa tra lui, Alfano e me. Le cose bisogna raccontarle per come stanno. Lui, Enrico, è stato portato al governo anni fa da D`Alema, che io ho combattuto e combatto in modo trasparente; e Angelino Alfano al governo ce l`ha messo Berlusconi, quando io non ero ancora nemmeno sindaco di Firenze».

Si interrompe per un attimo, riflette e poi riprende: «E vero che loro provengono da una generazione più giovane di quella che li ha preceduti, ma io non voglio assolutamente essere accomunato a loro, integrato in uno schema: io sono totalmente diverso, per tanti motivi. E uno di questi motivi, in particolare, non può esser sottovalutato: io ho ricevuto un mandato popolare, tre milioni di persone che mi hanno votato perché hanno condiviso quel che ho promesso che avrei poi fatto. E per questo che non si può più perder tempo: con l`anno nuovo si passa dalle chiacchiere alle cose scritte. E le prime cose scritte riguarderanno i due4emi capitali: il lavoro e le riforme».

L`idea, dunque, sarebbe quella di continuare lealmente a sostenere Letta e il suo governo: a condizione, naturalmente, che faccia quel che deve. Quindi non andrebbe interpretata come un «fine corsa» la dichiarazione di Davide Faraone (renziano e membro della segreteria Pd) che ieri ha messo in agitazione i palazzi romani: «Non basta un ritocco, un “rimpasto”: o si cambia radicalmente o si muore». Renzi prova a gettare acqua sul fuoco: «Uno sfogo di pancia», spiega. E sarebbe tutto perfettamente rassicurante, se fermasse il suo commento qui. Ma non lo ferma.

«Uno sfogo di pancia – ripete -. Non è una dichiarazione di guerra, perché le dichiarazioni di guerra le faccio ìo, mettendoci la faccia. Però Faraone ha detto quel che pensa il 99% degli italiani. E nel merito è difficile dargli torto… Un po` di tempo fa Enrico mi ha spiegato che i provvedimenti che il governo avrebbe varato a fine anno erano frutto di un lungo lavoro preparatorio, che ne aveva parlato con Epifani e i partner di maggioranza… Mi chiese, insomma, di non ostacolarli: e io non ho disturbato.
Ma potevano risparmiarsi e risparmiarci tante cose. E la faccenda della nomina da parte di Alfano di diciassette nuovi prefetti è soltanto la ciliegina sulla torta…».

È una storia che Matteo Renzi non riesce a mandar giù, per due diversi motivi. «Il primo mi pare evidente – dice -. Caro Angelino, ma non dovevamo abolirli i prefetti? E invece di abolirli tu ne nomini altri diciassette? La seconda la dico quasi per fatto personale: non può annunciare le nomine e aggiungere “ho fatto come Renzi: sono più le donne che gli uomini”… Io con le donne ci lavoro da sempre, in giunta, in segreteria, nei posti che contano… Non ci voglio entrare nelle nomine di Alfano. E se pensano di ingabbiarmi con un rimpasto, sbagliano alla grande. Io fatico a tenere Delrio al governo, perché ogni tanto mi dice che vorrebbe lasciare: è quello il mio problema, altro che un sottosegretario o un ministro in più. Io spero davvero che Letta colga la portata della sfida: non basta cambiare tre caselle. E da gennaio ci faremo sentire sul serio…».

Un fiume in piena, anche perché dalla politica fiorentina alla “piazza romana” il salto si è rivelato forse più insidioso di quel che il sindaco-segretario immaginava: una partita a scacchi, dove sbagli una mossa e sei fregato: «Sfogliate le collezioni dei giornali – dice – e trovate una mia dichiarazione dove chiedo un rimpasto, per la miseria. Ne ha parlato Scelta Civica per prima, poi Cuperlo ed Epifani: io mai. Non ho alcun interesse a mettere pedine e scambiare caselle: chiedo solo che si cambino stile e velocità nel governo del Paese. Se loro sono d`accordo, si va avanti: ma devono accettare di fare le cose che non hanno fatto in questi ultimi 20 anni. Altrimenti non avrebbe senso continuare».

Fare le cose, appunto. Renzi insiste molto su questo punto «perché è quel che ho detto durante la campagna per le primarie: il governo va avanti se fa. Alla gente che mi ha votato ora non posso dire che si va avanti anche se il governo non fa». Fare, dunque. E fare, prima di tutto, sul piano del lavoro – di nuove occasioni di lavoro – e della riforma della legge elettorale. «Vedo che ora c`è qualcuno che critica me – ironizza Renzi Dicono: “Ma com`è, ha cambiato idea? perché non parla più del sistema elettorale col quale si eleggono i sindaci”? È il giochino dello scaricabarile, per far confusione. Ma con me cascano male…».

Non è che perché arriva da Firenze e non frequenta da lustri i «palazzi romani» il neo-segretario del Pd sia uno sprovveduto: «Non mi impicco a un sistema preciso – spiega – perché appena dovessi indicarlo tutti direbbero che non va bene. Ma ho spiegato chiaramente modello e metodo: dopo il voto si deve sapere subito chi ha vinto, e chi ha vinto deve governare e poterlo fare per cinque anni. Questo è il modello. Quando al metodo, l`ho detto: per me la legge elettorale si fa con tutti e parlando con tutti. Anche con Grillo e Berlusconi, certo».

Con l`anno nuovo, sul tema legge elettorale Renzi annuncia una nuova offensiva: «Torno all`attacco degli elettori di Grillo e dei suoi parlamentari: in quel mondo lì c`è attenzione vera sull`urgenza di riformare il sistema. E a Berlusconi – aggiunge – manderò un messaggio chiaro: caro Silvio, tu te ne stai andando, ai servizi sociali o non so dove. Dai un tocco finale diverso alla tua vicenda da leader e partecipa al varo della nuova legge ed alla Grande riforma di cui il Paese ha bisogno. Vediamo cosa risponderanno gli uni e gli altri – conclude ma io con loro ci parlo e ci parlerò».

È da qui – e Matteo Renzi naturalmente lo sa – che nasce il grande sospetto che circonda il leader dei democratici: vuole subito una nuova legge per andare a votare. «Calma, ragazzi. Sapesse quanti mi dicono “Matteo bisogna andare subito al voto” e io rispondo calma ragazzi, calma. Bisogna tener fede a quando detto: se Letta fa, va avanti. E continuo ostinatamente a credere che sia possibile. Certo, se si fanno marchette e si passa dalle larghe intese all`assalto alla diligenza, non va bene. E per fortuna che stavolta non l`ho detto io: visto che il primo critico, in questa occasione, è stato il Capo dello Stato. E certo non si può accusare il Presidente di essere un nemico del governo-Letta».

Napolitano, già. Il rapporto tra i due va lentamente scongelandosi, ma citare il Presidente fa tornare alla mente di Renzi una cosa che proprio non sopporta più: i rilievi al suo stile. «Sono stufo, ogni volta che scendo giù – lamenta – mi sembra di rileggere Flaiano, un marziano a Roma. I giornali hanno perfino ipotizzato che io mi sia presentato in giacca chiara agli auguri al Quirinale per farmi notare. Insopportabile. Lì ci ero stato una sola volta con Benigni. Non ci sono abituato. E quando ho visto come erano vestiti i papaveri di Stato… ho capito che avevo sbagliato giacca. Una gaffe, tutto qui». Una gaffe, va bene. Ma stia tranquillo, Renzi. Non sarà certo per questo che potrà esser rimproverato…

La Stampa 29.12.13

“L’orrore di quelle minacce di morte che delegittimano la battaglia di Grillo”, di Paolo Conti

«Attaccate la corrente a 3000 volt sotto le loro poltrone». «Ma quali famiglie, direttamente al crematorio, assassini statali siete». «Andate a casa dalle vostre famiglie, ci penso io a mettervi il tritolo nelle poltrone». «Dovete bruciare vivi». «Dovete solo che morireeeeeee». «Ma perché, dico io, non li abbiamo ancora bruciati col lanciafiamme». Si potrebbe continuare a lungo. È il mare di post apparsi ieri sera sulla pagina Facebook di Beppe Grillo. Tutti contro Titti di Salvo (Sel) e Andrea Romano (Scelta civica) «colpevoli» di aver chiesto al M5S di non protrarre la discussione in Aula alla Camera fino ai giorni del 24 e del 25 dicembre anche per «rispetto delle nostre famiglie». Grillo ha collocato il video su Facebook col suo commento: «Avevano paura che il M5S li facesse lavorare durante le feste! Guardate come reagiscono questi parlamentari pagati dai cittadini. Massima diffusione! Tutti devono sapere!». E giù, il diluvio di autentiche minacce di morte.
Perché espressioni di questo tipo non appartengono alla categoria della metafora, dell’allegoria o del traslato. Qui si parla di tritolo, di crematorio, di lanciafiamme. Senza che arrivi un minimo di distinguo da Beppe Grillo o da qualche deputato del Movimento Cinque Stelle. È perfettamente legittimo battersi perché alla Camera si voti il 24, il 25 e il 31 dicembre. Appartiene alla dialettica democratica, lo fece in anni lontani Marco Pannella. Ma con la sua non violenza e senza mai permettere ai propri sostenitori di sperare nella morte di qualsiasi avversario politico. Grillo ha sempre sostenuto di aver avuto il merito di canalizzare il dissenso, grazie al suo Movimento, evitando «la guerra civile» (parole sue).
Ieri ha scelto la strada diametralmente opposta: quella di soffiare su un pericolosissimo fuoco demagogico indicando nomi e volti di chi meriterebbe una punizione atroce. Assumendosi così la pesantissima responsabilità di chi si mette alla guida di un Movimento politico che augura la morte, i roghi, le bombe. Semplicemente spaventoso.

Il Corriere della Sera 29.12.13

“Il coraggio di fidarsi dei competenti”, di Mario Calabresi

Ogni giorno che passa la storia del metodo Stamina si fa sempre più inquietante, non solo per i retroscena che ormai da dieci giorni vi raccontiamo e che mostrano un’idea della medicina molto più simile all’azzardo che alla scienza, ma anche per il livello a cui è scaduto il dibattito pubblico italiano. L’ultima parola, anche quando si tratta di decidere se una cura è efficace o inutile o pericolosa, sembra dover spettare non ai ricercatori e ai medici ma all’uomo della strada e ai giudici. Ognuno pensa di poter dire la sua e il fin troppo noto Tar del Lazio ormai stabilisce chi e come si debba curare e anche la composizione (in stile manuale Cencelli) delle commissioni scientifiche di valutazione.

Sarebbe tempo che giornalisti, comici, intrattenitori televisivi, esperti improvvisati e giudici si facessero da parte per lasciar parlare chi ne ha conquistato il diritto con una vita di studio e di risultati tangibili.

Da parte nostra possiamo solo continuare a raccontare tutto quello che finora è stato nascosto e dare voce alle persone più serie e credibili che ci sono in circolazione.

E’ un lavoro delicato, da fare con il massimo dell’attenzione, che non solo ci mostra ancora una volta quanto i malati possano essere preda di personaggi senza scrupoli ma che è anche illuminante – come hanno ben spiegato il professor Orsina e la ricercatrice Elena Cattaneo – della confusione dell’Italia di oggi.

Viviamo in un Paese in cui la politica e le Istituzioni sono deboli e in cui la sfiducia la fa da padrona: tutto questo crea un terreno favorevole alle incursioni di millantatori e ciarlatani di ogni genere che usano internet e le televisioni come megafono.

Ma partiamo dall’inizio: chiunque abbia una persona cara affetta da una malattia incurabile o degenerativa sa con quanta attenzione si sia portati a guardare a ogni novità scientifica, conosce l’emozione e la speranza che può ingenerare anche una sola riga di giornale o la frase di un medico. Ma sa anche, per esperienza e per testimonianza diretta, che i miracoli sono merce assai rara e che la scienza procede con una velocità che purtroppo non coincide con i nostri bisogni e i nostri desideri.

Bisogna avere grande rispetto per i malati e per i loro amici e familiari, ma rispettare una persona significa innanzitutto non prenderla in giro, non approfittare della sua sofferenza, non speculare sul suo dolore e sulla sua pena. Rispetto significa avere il coraggio della verità ed è colpevole lasciar agire in modo indisturbato profittatori e falsi guaritori. Si può pensare di girare la testa dall’altra parte, per non esporsi e per non dover scrivere cose che deluderanno speranze, ma tutto ciò è dolorosamente complice.

Sono convinto invece che compito di un giornale, in tempi di caos informativo e di derive emozionali, sia quello di approfondire e spiegare, ma soprattutto quello di cercare punti fermi senza inseguire sensazionalismi. Non bisogna mettere da parte la razionalità e la ragione perché si è offuscati dall’emozione della richiesta di aiuto di un malato, soprattutto se quell’implorazione di essere curato viene da un bambino o dai suoi genitori, perché questo non sarebbe di nessun aiuto.

E’ necessario invece partire dai dati: nelle cartelle cliniche dei 36 pazienti sottoposti al metodo Stamina presso gli Spedali di Brescia, non si troverebbe – come abbiamo anticipato dieci giorni fa – alcuna traccia di miglioramento, così come nella relazione finale del comitato degli esperti si evidenziava, tra l’altro, che nelle infusioni somministrate ai pazienti di cellule staminali se ne vedono a malapena delle tracce. Per non parlare degli inquietanti e sciacalleschi scambi di mail che stanno emergendo, dai quali si capisce come i promotori del metodo non si facessero scrupoli a usare la sofferenza dei pazienti come arma di ricatto.

Di fronte a questi comportamenti, che crescono oltre misura nell’ignoranza, bisogna avere il coraggio di chiedere insistentemente lumi ai nostri migliori medici e ai nostri ricercatori più illustri, quelli che fino ad oggi hanno dimostrato di saper fare la differenza, di aver portato avanti protocolli capaci di curare.

Il ruolo dell’informazione deve essere di tornare a ricordare che l’esperienza conta e che le opinioni non sono tutte uguali: perché esiste ancora una differenza tra chi ha studiato una vita e ha realmente guarito dei pazienti e chi invece non ha mai aperto un libro o passato una notte in laboratorio e che con i soldi della ricerca si è comprato una Porsche. L’ultimo parere trovato su internet, per quanto affascinante o originale, non può avere lo stesso valore di quello di uno scienziato che si dedica al tema da decenni. Alla fine la domanda è semplice ed è quella che pone su queste pagine oggi il professor Paolo Bianco: ma voi vi fareste operare al cervello da un archeologo? E – aggiungo io – prima di salire in montagna chiedete consiglio alle persone del posto e alle guide o a un camionista di passaggio o a una velina che prende il sole?

Impariamo a guardarci dagli esperti improvvisati e dai venditori di fumo e non dimentichiamo una cosa fondamentale: i fondi per la ricerca e la cura non sono infiniti, regalarli ai ciarlatani e ai truffatori significa toglierli a chi invece sta portando avanti un percorso serio capace davvero di guarire. E questa è una condanna anche per chi potrebbe essere curato.

La Stampa 29.12.13

È scomparsa Alessandra Siragusa ex deputata pd

Se ne è andata ieri, a soli cinquant’anni, Alessandra Siragusa (nella foto Fotogramma ), uno dei volti più rispettati della politica siciliana e uno dei simboli della «primavera di Palermo». Cresciuta nel gruppo «Politica giovani» di Piersanti Mattarella, inizia l’attività politica nel consiglio di quartiere del capoluogo siciliano. In consiglio comunale nel 1990 per la Dc, pochi mesi più tardi abbandona il partito per aderire alle Rete di Leoluca Orlando, di cui sarà l’assessore all’Istruzione nel 1993 e in tutte le giunte successive. Molto nota fu l’iniziativa da lei inventata dell’«adozione» dei monumenti cittadini da parte delle scuole, con gli studenti a fare da guida ai luoghi significativi del loro quartiere. Successivamente si avvicina ai Democratici di sinistra e diviene l’animatrice regionale dell’associazione Emily, la scuola di formazione politica dedicata alle donne, lanciata, tra le altre, da Giovanna Melandri, Serena Dandini e Franca Chiaromonte. Nel 2004 si candida alle Europee ma le oltre 60 mila preferenze non sono sufficienti ad aprirle le porte di Bruxelles. Due anni più tardi, la lista di Rita Borsellino in cui si è candidata per le Regionali non supera lo sbarramento. Nel 2008 è invece eletta nelle liste del Partito democratico alla Camera. Mentre non supera le primarie di partito per la candidatura in vista delle politiche dello scorso febbraio. Il primo cordoglio è stato quello del premier Enrico Letta: «La ricordo con particolare affetto. La conoscevo da venticinque anni, costantemente impegnata per il rinnovamento. È stata sempre in prima fila nella lotta per la legalità e lo sviluppo della sua adorata Sicilia». Dario Franceschini, ministro per i Rapporti con il Parlamento, scrive che «con Alessandra Siragusa se ne va un’amica personale, piena di passione politica, di coraggio, di energia. Tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerla non la dimenticheranno». Mentre il capogruppo pd a Montecitorio, Roberto Speranza, osserva che «Alessandra sarà ricordata da tutti per il suo impegno coraggioso».

Il Corriere della Sera 29.12.13

“Senza difesa. Ancora cemento L’Italia dimezza le aree sotto tutela”, di Luca del Fra

È un crollo. Rovinoso. Come a Pompei, o quelli degli edifici trascinati via dall’acqua in Sardegna dopo le piogge di novembre. Parliamo della percentuale del nostro territorio posto sotto tutela paesaggistica o ambientale, che dal 2008 al 2011 si è ridotto a meno della metà. Dopo la Legge Galasso del 1985, si disse che oltre il 50% del territorio fosse tutelato. Secondo il «Sole 24 Ore» di inizio 2010, con dati che perciò risalivano almeno al 2008, la percentuale si attestava al 46,9%. Se quella cifra è esatta, e non abbiamo motivo per dubitarne, nel 2011 secondo i dati del rapporto «Minicifre» del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac) siamo crollati sotto il 20%. La metà, in tre anni. Co- me è potuto accadere?

Lo strumento legislativo che servirebbe ad arginarne la distruzione, sono i Piani paesaggistici, uno per Regione da realizzare in copianificazione con il Ministero dei Beni e le Attività Culturali – il paesaggio è stato dichiarato per legge un bene culturale. Ma a dieci anni dall’entrata in vigore delle leggi che li prevedevano (d.l. 42 – 2004 e l. 137 – 2002), i Piani restano ancora lettera morta. Il tutto appare perverso considerando che proprio l’Italia volle nel 2000 lanciare a Firenze la Convenzione europea del paesaggio, i cui contenuti più innovativi stentiamo ad assorbire nel Codice per i Beni culturali, giunto in meno di dieci anni alla sua terza redazione, con esiti deludenti soprattutto per il paesaggio.

Il caso del Lazio è emblematico: già nel 2007 il Piano paesaggistico è pronto e approvato, ma si attendono le controdeduzioni. La giunta Marrazzo tuttavia conosceva bene gli appetiti della sua regione e, con mossa a sorpresa, lo adotta comunque – prima in Italia -, dandosi 5 anni di tempo per modificarlo alla luce di quanto emergerà dalle controdeduzioni e dalle risposte che a queste daranno le pubbliche istituzioni.

Durante la giunta di centrodestra del governatore Renata Polverini il piano si arena e nulla sembra muoversi o, meglio, si muove lei, che si affretta a presentare un piano del tutto diverso: è il «piano casa» regionale, frutto della omonima legge promulgata dal governo Berlusconi che scavalca i piani paesaggistici. La parola d’ordine è: più cemento per tutti per rilanciare l’economia, e parte l’assalto al territorio. Nel frattempo quello tutelato nel Lazio cade dal 46,7% del 2008 al 20,8% del 2011.

L’economia non riparte, anzi peggiora, ma, per fortuna, non parte neppure il piano casa: anche un Pdl come Giancarlo Galan, allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali, non riesce a mandare giù una porcata dove l’ufficio legislativo del Mibac rileva una ventina di possibili incostituzionalità: il piano viene bloccato. Nel frattempo, all’inizio del 2013, i termini per la definitiva approvazione del Piano paesaggistico del Lazio stanno scadendo: nella ingloriosa débâcle della giunta Polverini, tra gli scandali di Fiorito e compagnia, alcuni funzionari della Regione fan- no passare una proroga di un anno, anche perché sono arrivate le controdeduzioni.

A questo punto è lo Stato che comincia a perdere tempo: dalla direzione regionale Mibac del Lazio si impongono una serie infinita di controlli, si chiede più tutela e tutele incrociate tra le soprintendenze archeologiche, architettoniche e paesaggistiche. Cose anche giuste, ma che hanno poco a che vedere con le controdeduzioni: avrebbero potuto e dovuto essere fatte prima, e comunque si possono fare e ottenere anche dopo l’approvazione del piano. Con lo scarso personale a disposizione delle soprintendenze, il risultato è una dilazione di un anno. A termine ora- mai scaduto. È un atteggiamento non nuovo per taluni dirigenti del Mibac. In generale di fronte a casi simili è difficile stabilire se si tratti di vero amore per i beni culturali o di quella che è definita la tattica del cosiddetto «finto pasdaran della tutela», che in nome dei sacri principi di un proclamato beneculturalismo blocca tutto, in modo che si vada avanti come sempre, cioè male.

Cosa accadrebbe se il piano paesaggistico della Regione Lazio non sarà definitivamente approvato e adottato prima di febbraio? Si dovrebbe tornare alla «normale amministrazione», antecedente al Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2002: ma in Italia nulla è mai «normale».

La storia della tutela del paesaggio nel nostro Paese è una lunga guerriglia tra Stato e Regioni su chi debba esercitare il controllo: già nel 1972, in base alla legge sul decentramento, il cosiddetto «territorio» passa alle Regioni, aprendo la strada al periodo più nero della cementificazione. Il 28 febbraio del 1985 il primo governo presieduto dall’onorevole Bettino Craxi, ministro delle finanze Bruno Visentini, promulga la Legge n. 47: è il primo storico condono edilizio, ne seguiranno altri due. Associazioni, media, società civile , s’indignano: sotto la pressione dell’opinione pubblica l’8 agosto 1985 viene promulgata la legge 431/85 detta anche Legge Galasso – dal nome del sottosegretario ai Beni Culturali Giuseppe Galasso (Pri)–, che introduce una serie di tutele e regole sul paesaggio e l’ambiente, obbliga le regioni a fare dei «Piano paesistici» – cosa diversa da quelli paesaggistici e solo parzialmente realizzati –, e una parte del territorio viene comunque vincolata in base a criteri estetici. Ma la battaglia ricomincia: le Regioni si indignano, perché si sentono deprivate dal controllo del territorio che ritengono un loro diritto, oltreché fonte di notevoli interessi.

Si arriva alla Corte Costituzionale che dalla fine degli anni ’90 con una serie di sentenze stabilisce che il paesaggio è competenza dello Stato, o per lo meno anche dello Stato poiché deve essere considerato in maniera unitaria su tutto il territorio nazionale e non regione per regione. Tra le sentenze spicca quella che bloccando la costruzione di un’installazione mili- tare in Puglia, ricorda agli amministratori regionali che il paesaggio è di prioritario interesse nazionale, superando anche le esigenze militari, almeno in tempo di pace.

Sembrerebbe tutto chiaro. Ecco che si arriva al Codice dei Beni Culturali e ai Piani, che da paesistici sono divenuti paesaggistici e prevedono la collaborazione tra Stato e Regioni: la seconda stesura del Codice, del 2006 ministro Buttiglione, prescrive che la copianificazione sul paesaggio avvenga tra Stato – cioè Mibac – e Regioni su tutto il territorio. Terza stesura del 2008, ministro Rutelli: il Mibac copianifica solo per le aree già vincolate (in entrambi i casi estensore del Codice è Salvatore Settis). Così si tradisce lo spirito e la lettera delle sentenze della Consulta, dal momento che le aree vincolate non sono l’intero territorio nazionale, dando oltretutto adito a infiniti contenziosi fra lo Stato e le singole Regioni, che allungano i tempi della realizzazione dei piani, come infatti è avvenuto.

Nel 2008 subentra un nuovo governo Berlusconi, e il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, si allinea allo slogan «più cemento per tutti». A più riprese invita il Mibac ad alleviare i controlli e, attraverso pressioni e nomine mirate, agisce sulle Direzioni Regionali – cui spettano le autorizzazioni. Il 28 aprile del 2010 in Parlamento di fronte alla 13° Commissione permanente spiega che alleggerirà la tutela: si arriva a nuovi regolamenti per l’autorizzazione paesaggistica, che scardinano la Legge Galas- so, in maniera subdola, attraverso articoli e articoletti depositati nelle varie leggi omnibus e milleproroghe. Sono gli strumenti per smantellare la tutela, la necessaria premessa al crollo della percentuale di territorio vincolato da oltre il 50% a meno del 20%. Il tutto in un silenzio assordante rotto solo dal «Rapporto sul paesaggio» di Italia Nostra del 2010, a firma Maria Pia Guermandi e Vezio De Lucia, che parlano di «convergenza viziosa –tra Stato, Mibac, regioni ed enti locali– nella elusione amministrativa».

Con la precedente normativa di tutela smontata e depotenziata la Regione Lazio, se non sarà approvato entro febbraio il Piano, e tutto il territorio nazionale saranno esposti ai capricci della sorte: di amministratori locali, spesso incompetenti e soggetti a pressioni e lusinghe del territorio, unitamente a Direzioni regionali del Mibac che si dimostrano sempre più una semplice cinghia di trasmissione tra il potere politico nazionale e gli interessi locali.

L’Unità 29.12.13

“Lavoro, serve un New Deal”, di Laura Pennacchi

Con l’approssimarsi del nuovo anno, che sarà il settimo della crisi globale più grave, chi come me dal 2012 argomenta intorno alla necessità di un Piano straordinario per il lavoro non può non essere compiaciuto per la centralità che la questione sta guadagnando nel Pd. Al tempo stesso, però, non può non essere allarmato dal rischio che anche questa occasione venga sprecata, con proclami più altisonanti verbalmente che densi contenutisticamente oppure con proposte oscillanti tra il dejà vu, come nel caso del contratto di inserimento, e la fallacia, come nel caso dell’ipotizzata soppressione non so- lo della cassa in deroga ma della cassa integrazione tout court. A preoccupare è la possibilità che si riprecipiti in una diatriba ideologica sull’articolo 18, ma ancor più che in nessun caso emergano ipotesi concrete di creazione diretta di lavoro e che l’armamentario a cui ci si riferisce – che si tratti di semplificazione normativa e burocratica o che si tratti di decontribuzione per chi assume – sia del tutto “convenzionale”.

Di fronte al picco senza precedenti raggiunto dalla disoccupazione e dalla mancanza di lavoro non appare ade- guata l’inerziale ripetizione di misure tradizionali – quali la revisione delle regole e gli incentivi fiscali all’assunzione di giovani – che già in passato si sono dimostrate insufficienti, interne come sono all’armamentario di quel- la supply side economics (flessibilizzazione del mercato del lavoro, concorrenza, liberalizzazioni e privatizzazioni) che è stato uno dei pilastri dell’au- sterità autodistruttiva di marca tedesca. Non deve sfuggirci che gli Usa invertono il trend della occupazione americana grazie agli investimenti pubblici che Obama ha collocato al centro delle sue politiche espansive. La “non convenzionalità” che Obama ha impresso alla politica economica governativa americana – associandola alla “non convenzionalità” della politica monetaria della Fed – è ciò che con- sente agli Usa di sostenere la crescita e rigenerare l’occupazione. Dunque, per poter tornare a generare lavoro, dobbiamo prendere atto di tre cose: 1) servono politiche, macroeconomiche e microeconomiche, “non convenzionali” che rompano con il paradigma dominante; 2) la “non convenzionalità” ha un compito duplice, rilanciare la crescita e cambiarne in corso d’opera la natura e la qualità; 3) il motore di questa “non convenzionalità” non può che essere che pubblico e valersi del big push degli investimenti pubblici. Il che si traduce in primo luogo in un grande Piano del lavoro che con- templi anche progetti di creazione di- retta di occupazione – incorporanti iniziative per il servizio civile come era nella proposta di Esercito del lavoro di Ernesto Rossi – e politiche industriali per la reindustrializzazione e la terziarizzazione qualificata dell’Italia, l’opposto di privatizzazioni che de- potenziassero ulteriormente il ruolo della ricerca e di quel che resta della grande impresa nazionale.

La verità è che facciamo ancora fatica a prendere atto che la crisi globale significa una bancarotta della teoria economica ortodossa di matrice neoliberistica, le cui assunzioni chiave sono state alla base anche del blairismo. Al presente il problema centrale è il crollo degli investimenti – caduti tra il 2009 e il 2012 nell’area euro di quasi il 19 per cento e addirittura del 24,4 in Italia, mentre sono aumentati dell’1,2 negli Usa – e la debolezza della domanda privata di lavoro, evidenziata dalla perdita nel nostro paese di 1.800.000 posti di lavoro. In queste condizioni la modestia dei risultati in termini di occupazione e di vantaggi per i beneficiari obbliga a interrogar- si da una parte sull’enormità e la natura dei tagli di spesa necessari a finanziare il mix deregolamentazione / benefici fiscali (non si escludono nemmeno nuovi tagli alle pensioni e alla sanità, per la quale ultima qualcuno ipotizza un opting out di fatto dei benestanti dal settore pubblico), dall’altra sull’opportunità di usi alternativi. Usi alternativi di pari, o addirittura minori, ammontare di risorse, però con assai superiore efficacia occupazionale. Ad esempio, nel Libro bianco «Tra crisi e grande trasformazione», edito da Ediesse e predisposto per il Piano del lavoro che la Cgil lanciò già nel gennaio 2013, si calcola che con 5 miliardi di euro l’operatore pubblico – in tutte le sue articolazioni centrali e territoriali e con progetti seri e ben costruiti – può creare direttamente 400.000 posti di lavoro in un anno, con 15 miliardi i posti di lavoro creati possono diventare addirittura 1 milione. Il punto è che bisogna risalire alle logiche alternative che sottostanno ai due tipi di intervento, l’uno agente so- lo per incentivi indiretti e prescrizioni “convenzionali” volto a sollecitare co- sì gli animal spirits del mercato, l’altro invocante una diretta responsabilità pubblica e collettiva, straordinaria quanto è straordinaria la situazione occupazionale odierna, specie dei giovani e delle donne. Come fece Roose- velt con il New Deal attivatore di una straordinaria creatività istituzionale, anche oggi bisogna dotarsi di un New Deal europeo invertendo l’ordine dei fattori e pertanto rovesciando il paradigma e teorico e pratico: non rilancia- re la crescita per generare lavoro ma creare lavoro per rilanciare la crescita e trasformarne i meccanismi interni.

L’Unità 29.12.13