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“Non sempre i giovani sono meglio dei vecchi”, di Giovanni Valentini

Con l’avvento di Renzi e di Grillo, ormai la politica italiana ha cambiato età. È diventata più giovane e anche più femminile. E a parità di competenze e di capacità, non c’è dubbio che sia un bene: l’anagrafe non assicura efficienza, energia, onestà, ma certamente favorisce il ricambio generazionale e il rinnovamento. È anche una questione di linguaggio, cioè di comunicazione. A cominciare proprio dal modo di ragionare, di parlare e perfino di vestire. La maggiore presenza femminile nel ceto politico aggiunge poi un quid di sensibilità e di concretezza che non può che alimentare un confronto più civile.
Quello che però non giova è un certo giovanilismo di maniera, come se l’età fosse di per sé una garanzia assoluta. Né tantomeno giova la propaganda anti-gerontocratica che a volte si rischia di sconfinare nella persecuzione dei più adulti. C’è, alla base, una sorta di rimozione iconoclasta delle conoscenze e delle esperienze: quasi una damnatio memoriae simile a quella che il Diritto romano comminava ai nemici, attraverso la cancellazione della memoria di un individuo e l’eliminazione di ogni traccia che potesse tramandarla.
Nel generale incattivimento dei rapporti interpersonali che la crisi economica ha innescato purtroppo a tutti i livelli, dalla dimensione familiare a quella sociale, dai luoghi di lavoro al condominio, questo conflitto generazionale tende a sfociare nella protesta e nella rabbia. Nulla di nuovo sotto il sole, si dirà. In questa fase, però, la mancanza di lavoro, di prospettive e di sicurezze, attizza il malcontento crescente dei non garantiti nei confronti dei più garantiti.
L’esempio più sintomatico è quello delle cosiddette “pensioni d’oro” che spesso in realtà non sono neppure d’argento e, a volte, sono addirittura inferiori ai contributi versati negli anni. Teniamo da parte i casi più scandalosi di cumuli e trattamenti di favore che producono in effetti prestazioni da nababbi. Ma la verità è che queste pensioni – come ha scritto recentemente Alberto Statera sul nostro supplemento “Affari & Finanza” – “non sono il valsente di ricchi rentier, ma il salario differito di ex lavoratori dipendenti che hanno versato (quasi tutti) contributi e imposte sui redditi fino all’ultimo centesimo”. E comunque, quando il governo chiede un contributo di solidarietà per introdurre giustamente un reddito minimo per i poveri e per i giovani disoccupati, non si vede perché debba esigerlo solo dai pensionati oltre i 90 mila euro (lordi) all’anno e non da tutti coloro che appartengono alla stessa fascia di reddito, secondo le indicazioni della Corte costituzionale.
Nell’Italia di oggi, occorre dunque una riconciliazione sociale prima ancora che politica, per recuperare quello spirito di unità nazionale che può riportare il Paese a crescere. È vero che noi adulti abbiamo consumato irresponsabilmente risorse ed energie di ogni tipo: ambientali, economiche e perfino morali. E perciò dobbiamo restituire ai giovani condizioni di vita più sicure e più eque, all’insegna di un nuovo welfare. Ma non si esce dalla crisi con un “genocidio generazionale” che innescherebbe una reazione a catena di antagonismi e rivalse.
È innanzitutto questa frattura fra giovani e anziani che va ricomposta, se si vuole costruire o ricostruire una società più giusta. Spetta alla politica farsene carico in funzione dell’interesse generale, individuando soluzioni concrete ed efficaci al di fuori della demagogia o del qualunquismo, per evitare la saldatura della protesta legittima con la violenza di piazza. La “rivolta dei forconi”, preceduta dal prologo delle “cinque giornate” siciliane del gennaio 2012, minaccia invece di fornire risposte sbagliate a problemi veri aggravando ulteriormente la situazione.
Vale per tutti, allora, e non solo per i quarantenni, l’esortazione citata all’inizio dal libro di Andrea Scanzi su una “generazione in panchina”. E vale anche per Renzi (38 anni) come per Grillo (65). Prima di rottamare gli altri, ognuno dovrebbe fare un esame di coscienza, per superare i propri limiti e riparare i propri errori.

La Repubblica 14.12.13

«Fondi Ue, speso tutto e anche di più», di Francesco Dondi

«Era metà ottobre e l’emissario della Regione tornò a Bologna con un report piuttosto allarmistico: i fondi di solidarietà, assegnati dalla Comunità Europea, rischiavano di non essere spesi tutti. I 563 milioni, infatti, venivano rendicontati troppo a rilento a causa della burocrazia e del sottodimensionamento degli uffici comunali. In quell’istante, Bologna ha deciso di cambiare marcia, anticipando i soldi ai municipi per velocizzare i pagamenti alle imprese impegnate nei cantieri e autorizzando un surplus di interventi per garantirsi un margine di errore. Due mosse che hanno invertito le sorti del più importante finanziamento europeo mai elargito. La Regione ha vinto la propria scommessa, riconsegnando un pizzico di credibilità in più all’Italia dopo lo scandalo de L’Aquila e garantendo un Natale migliore a tutte quelle imprese che hanno lavorato nell’ultimo anno sulle strutture pubbliche. I 563 milioni, infatti, sono già stati saldati o comunque lo dovranno essere entro il 19 dicembre, ma alla fine il piano ha messo in pagamento 650 milioni. «È un margine cuscinetto che ci permetterà di non bruciare nessuna risorsa europea anche se qualche progetto non risponderà ai crismi imposti dalla Ue», precisa l’assessore Paola Gazzolo. «Non si fa mai il massimo, ma si può sempre cercare di fare di più – ha chiosato con l’ormai celebre pacatezza, Vasco Errani – Tuttavia penso che abbiamo fatto un lavoro molto importante. Avevate detto che avremmo lasciato alla Ue diverse centinaia di milioni e mi va bene, io non critico la stampa. Ma ora datemi atto di un risultato. Non è stato così semplice. I meccanismi Ue prevedono, in un solo anno, non la semplice assegnazione attraverso un impegno delle risorse, ma il pagamento vero e proprio a chi ha fatto il lavoro. Cose che, con la burocrazia italiana, sono molto complicate. Per questo ai signori che sono qui – ha concluso riferendosi a assessori, tecnici regionali e sindaci – faccio un applauso da estendere a tutta la pubblica amministrazione. Perché abbiamo sollecitato i sindaci (Alberto Silvestri, referente dell’Area Nord, annuisce, ndr) e loro hanno sferzato i dipendenti comunali». Le spese Sono stati 109 i soggetti attuatori dei circa 3500 interventi di emergenza. Il 51% delle spese ha riguardato il ripristino delle strutture scolastiche, dei municipi, dell’edilizia residenziale pubblica e gli interventi provvisionali. Tra le cifre più significative quelle relative alle scuole (156 milioni di euro), alle opere provvisionali (110 milioni di euro), al Cas (100 milioni), ai municipi temporanei (40 milioni), ai moduli prefabbricati abitativi (56 milioni) e all’assistenza sanitaria (44 milioni). Moduli abitativi e piano casa I moduli abitativi installati («Nel giro di due anni li smantelleremo tutti», dice l’assessore Muzzarelli) sono 642 e le vertenze sono ancora parecchie: salubrità e bollette Enel su tutti. Ma se sul primo fronte – vedi l’ultimo caso di San Felice – sono i residenti a giocare un ruolo determinante, sul secondo Errani è categorico: «Anche dopo il 31 dicembre a nessuno sarà tagliata la corrente, a patto che le bollette rateizzate vengono pagate con puntualità». Entro Natale, poi, tre famiglie faranno rientro a casa mentre nel giro dei prossimi tre mesi saranno 56 i nuclei che lasceranno i container. Ma oltre agli sfollati dei moduli c’è una nutrita schiera silente che ancora attende di tornare in casa. Sono il popolo del Cas, circa 5300 famiglie per un totale di 14mila persone. «Per loro è partito il piano casa», sostiene Muzzarelli. Un progetto che si articola su due fronti: la ristrutturazione dei palazzi gestiti da Acer per circa 40 milioni di euro e la ricerca sul mercato di alloggi sfitti da acquistare. Sul piatto sono stati messi 25 milioni, di cui 10 stanno garantendo i primi acquisti. «Sono circa 170 appartamenti – aggiunge Muzzarelli – anche se rispetto al primo sondaggio alcune disponibilità sono venute a mancare perché i proprietari hanno venduto a privati. Speriamo di indirizzare su questo fronte altri fondi».

La Gazzetta di Modena 13.12.13

“Quelli che bruciano i libri”, di Luigi Manconi

Ci salveranno i poeti? Il dubbio è ricorrente nella storia della cultura, ma proprio per il paradosso che richiama (la fragilità della poesia/l’enormità del mondo) finisce con l’attraversare anche la vicenda sociale e politica dei nostri giorni. La conferma più inequivocabile viene dal fatto che oggi, in Europa, c’è chi brucia i libri dei poeti e che, a gettare l’allarme, siano proprio due poeti.
È successo appena qualche giorno fa, quando Edith Bruck e Nelo Risi mi hanno scritto per raccontare quanto segue.
Miklós Radnóti, uno dei più grandi poeti ungheresi del ’900, fu ucciso il 10 novembre del 1944 mentre, insieme ad altri 3000 prigionieri, veniva ricondotto in Ungheria dalla Serbia. Nato da una famiglia ebrea a Budapest, dopo gli studi in filosofia si era dedicato alla poesia, collocandosi fra i principali esponenti di una corrente letteraria di ispirazione popolare, formatasi in Ungheria negli anni 30. Dopo la morte, il suo corpo fu gettato in una fossa comune vicino al villaggio di Abda, nei pressi di Gyor. Qualche tempo dopo, tra i brandelli della sua giacca fu ritrovato un taccuino con le ultime poesie e alcuni fra i suoi versi più belli. Nello stesso taccuino furono trovate anche le istruzioni, scritte in varie lingue, da seguire nel caso di ritrovamento: consegnare al professor Gyula Ortutay. Tra i versi più intensi di Radnóti c’è la quarta strofa della poesia Razglednicák (Cartoline), nella quale il poeta descrive la fucilazione di un uomo e immagina la propria stessa morte. Sono tra i versi più emozionanti della letteratura della Shoah.
Qualche settimana fa, nell’anniversario della sua morte, che corrisponde a quello della Notte dei cristalli (tra il 9 e il 10 novembre del 1938), i suoi libri sono stati bruciati. Una settimana dopo, la notizia che la sua statua è stata distrutta. Si tratta di uno dei tanti, tantissimi segnali del clima che sembra dominare l’Ungheria contemporanea: xenofobia e manifestazioni di esplicito razzismo, persecuzione delle minoranze e antisemitismo, sciovinismo e omofobia.
Si potrebbe, in uno spericolato sforzo di ottimismo, provare a ridimensionare tutto ciò, attribuendolo all’iniziativa di gruppi minoritari, fatalmente irrobustiti dalla crisi economica e intenti a raccogliere tutta la paccottiglia delle peggiori ideologie del ’900. Ma, a preoccupare, c’è il fatto che quel clima cupo e avvelenato risulta potentemente incentivato da un apparato normativo e da politiche pubbliche che blandiscono e assecondano le pulsioni più torve. Ed è su questo che l’Europa democratica stenta a far sentire la propria voce, a battersi a viso aperto sul piano culturale, a condurre una serrata critica sociale, politica e ideologica.
Nel cuore del continente covano sentimenti e strategie che si rifanno ai totalitarismi del secolo scorso e ne vogliono rinnovare i programmi. Sono il primo a pensare che non accadrà, ma questo non è un motivo sufficiente per rassicurarci: il fatto che sia irrealizzabile in Europa un regime a qualsiasi titolo neo-nazista non significa che categorie e stereotipi, strumenti e armamentario che furono del nazismo non possano riproporsi qua e là, essere recepiti da norme e politiche, contaminare atteggiamenti e comportamenti. E tutto ciò, se pure fosse solo tutto ciò, sarebbe un autentico disastro (sempre che già così non sia). Da questo punto di vista, l’Ungheria è una minaccia per l’Ungheria ed è una minaccia per l’Europa. In altri termini, è un incubo annunciato da segni e sogni minacciosi che già gravano sulle nostre vite affaticate e sui nostri sistemi democratici sottoposti a dure prove. Dunque, l’infamia neonazista che, a distanza di quasi settant’anni, si incanaglisce ancora sulla memoria e sull’opera di Radnóti sembra rispondere alla domanda iniziale.
Sì, forse i poeti non salveranno il mondo, ma è certo che le loro opere fanno ancora paura. Tocca a noi che non abbiamo la fortuna di essere poeti, saper leggere i loro messaggi e saper ascoltare le loro grida di allarme. E saper cogliere anche le manifestazioni più minute, ma non per questo meno meschine e preoccupanti, del degrado in atto: compreso quanto è accaduto a Savona, dove un gruppo di cosiddetti «Forconi» ha intimato la chiusura di una libreria minacciando, in caso contrario, di «bruciare i libri».

L’Unità 13.12.13

“I ribelli senza leader”, di Paolo Griseri

Senza leader e senza richieste. Il nuovo movimento dei forconi è forte perché finora nessuno è stato in grado di definirlo. Sfugge, scappa dai cappelli della politica e dalle definizioni dei mass media. Molto più bravo a dissimularsi della Pantera studentesca del’90. È certamente un contenitore di rabbia, «l’effetto del colpo di rinculo del ceto medio», come spiega il presidente del Censis, Giuseppe De Rita. «La polverizzazione del Novecento», sintetizza il sociologo Marco Revelli. In ogni caso, la presa d’atto che d’ora in poi dormire sonni tranquilli sarà un lusso riservato all’élite.
Se si dovesse trovare una storia simbolo per definire quanto sta accadendo nelle città italiane, quella di Alessio M. avrebbe buone possibilità di diventarlo. Lunedì mattina Alessio ha fatto la sua parte in quella specie di assalto al Palazzo d’Inverno che è stato lo scontro di fronte alla sede della Regione Piemonte a Torino. Era nel gruppo che ha fatto rifornimento di mattoni in un vicino cantiere prima di scagliarli con forza contro gli agenti protetti dai caschi. E’ stato arrestato. Ieri ha spiegato al pubblico ministero: «Sono un ragazzo in cerca di lavoro e per questo sono sceso in piazza. Mi sono lasciato trascinare dal clima». Alessio ha 19 anni e vive ad Avigliana, all’imbocco della val di Susa. Aveva un motivo quasi scontato per spiegare la sua presenza in piazza: poteva dire che faceva parte del movimento contro la Tav. Non lo ha fatto. Anzi, ha fatto mettere a verbale: «Sottolineo di non aver mai preso parte a manifestazioni No Tav».
Chi agita il clima di cui ha parlato Alessio nel suo interrogatorio? È evidente che la protesta ha perso presto le sue motivazioni originarie. Nata dallo sciopero dell’autotrasporto, poi revocato dal 95 per cento dei camionisti Italiani, è diventata nelle prime ore di lunedì una rivolta di ambulanti dei mercati e di commercianti. Un periodo assurdo per far scioperare chi ha un negozio: nell’unico mese dell’anno in cui la gente ha qualche soldo. «Ma anche — osserva Marco Revelli — nella settimana a cavallo tra il pagamento della tassa dei rifiuti e della rata dell’Imu». La rabbia prevale addirittura sul calcolo di convenienza in una categoria che non è nota per gettare il cuore oltre l’ostacolo della cassa. La lotta contro le tasse ha finito per allargare il fronte della rivolta: «Ci sventolavano sotto il naso le cartelle di Equitalia e le bollette», raccontano gli agenti che hanno dovuto fronteggiare i cortei nelle città italiane. E non parlavano solo di ambulanti. Ieri sera, a bloccare
il ponte di Ventimiglia e dunque la frontiera tra Italia e Francia, c’erano centinaia di persone che non hanno un esercizio commerciale ma chiedevano ugualmente di far scendere le tasse.
Il fisco come simbolo dell’impoverimento generale, un caso classico in cui si scambia l’effetto con la causa: dare l’assalto ai forni del pane pensando di eliminare la carestia. «Quella a cui stiamo assistendo — spiega De Rita — è la rivolta delle classi che erano riuscite a entrare nel ceto medio e ora tornano a cadere in basso». Per un trentennio, ricostruisce il presidente del Censis, «il ceto medio ha continuato ad accogliere una parte crescente della società italiana fino a rappresentarne oltre l’80 per cento. Dal 2000 in poi questo grande lago del ceto medio ha cominciato a svuotarsi». Il processo di impoverimento ha subito una forte accelerazione con la crisi del 2008. È questa accelerazione che ha portato in piazza l’esercito dei precari, degli studenti senza immediati sbocchi occupazionali e della marea di cassintegrati che da due-tre anni, vivono con 7-800 euro al mese.
Martedì mattina, comizio in piazza Castello a Torino. Una signora non più giovane prende il microfono: «Quando io non ci sarò più, di che cosa vivranno i miei nipoti?». Fuori dal megafono spiega: «Mia figlia e mio genero mandano avanti la famiglia anche perché io prendo la pensione. Lui è cassintegrato, lei è disoccupata, come faranno domani?». «Queste situazioni — osserva Revelli — sono il frutto del radicalizzarsi della crisi sociale ma anche dal precipitare della crisi della politica che non si accorge nemmeno dell’esistenza di un altro mondo, molto più reale di quello dei palazzi del potere: uno scollamento drammatico ».
Una percezione che hanno avuto invece i movimenti antisistema. La rivolta del 9 dicembre è stata cavalcata da subito dalle formazioni dell’estrema destra (Fiamma Tricolore e Casa Pound, i primi ieri in piazza a Milano) tradizionalmente più vicine a commercianti, forconi siciliani e ambulanti. Ma è significativo l’atteggiamento assunto dai centri sociali torinesi di area autonoma. Sul blog “Infoaut” si possono leggere in successione gli anatemi contro «la protesta fascista del 9 dicembre», le prime manifestazioni di interesse del martedì con la cronaca dei cortei dalla radio del movimento, e, infine, la decisione di scendere in piazza, ieri, guidando cortei di studenti.
Del variegato mondo dei cortei di questi giorni fanno infine parte gruppi di ultras che a Torino e Milano hanno retto la maggior parte degli scontri con gli agenti di polizia e carabinieri. Sono stati chiamati a dare una mano come truppe di sfondamento ed esperti negli scontri, secondo una tecnica già collaudata da altri movimenti italiani.
La politica riuscirà a venire a capo di un mosaico tanto contraddittorio e sfuggente? «La politica — conclude Revelli — ha fatto di tutto in questi anni per non vedere il gigantesco processo di polverizzazione sociale e di impoverimento che si stava producendo. E ancora oggi la sinistra commette l’errore di etichettare tutto questo come frutto di una violenza squadrista. Certo, il rancore e la rabbia dei poveri sono brutti da vedere e facili da strumentalizzare. Ma non possiamo cavarcela con le manifestazioni antifasciste».

L’Unità 13.12.13

“Ma che c’entra il disagio con la violenza?”, di Maurizio De Giovanni

Quindi, se non altro, gli italiani si ritrovano in piazza. Dovrebbe essere per certi aspetti, se ci pensate, confortante: non facciamo altro che dirci che non esistono più passioni comuni, sentimenti, istanze sociali e ideologie; che rimpiangiamo il fermento degli anni settanta, i cori, le mozioni collettive e la voglia di cambiare il mondo e un sistema insoddisfacente; che la nostra società è ormai composta da egoismi e limitate visioni, in cui ognuno pensa a se stesso e poco più.

Scuotiamo il capo di fronte a certe utilitaristiche occupazioni studentesche, a base di criolina o altre sostanze chimiche, che non esprimono un vero disagio ma più semplicemente la volontà di saltare qualche noioso compito in classe; e allarghiamo sconsolati le braccia quando vediamo che le tenute antisommossa sono indossate dalla polizia ormai solo per fronteggiare gli ultras ottusi e ignoranti di qualche squadra di calcio, gente che mette in campo soltanto la bestiale ignoranza e nessun valore.
I Forconi, invece, sembrano essere altro. Roma, Milano, Genova paralizzate da un movimento di violenza montante, che sembra avere davvero poco di spontaneo e molto di organizzato, come certe azioni di guerriglia messe in atto dai black blok con la scusa del cantiere dell’alta velocità o del G8. L’ultima è interessante e per molti versi racconta della situazione più di mille parole: l’assalto alla libreria savonese, un’irruzione violenta in un luogo deputato semplicemente all’acquisto di strumenti di cultura, al grido antico ma non per questo meno agghiacciante di “bruciamo i libri!”.
Siamo fortemente convinti che prima di cercare di leggere il fenomeno dei Forconi, che affonda certamente le radici nel gravissimo disagio sociale che il nostro Paese sta vivendo, sia necessario conoscere l’identità fisica (e anche ideologica) di quelli che ne stanno animando le iniziative. Questo perché a oggi non si riesce a riconoscere la connotazione politica di un movimento che ha nelle proprie manifestazioni le tinte della più pura e distruttiva violenza di massa. Leggiamo di ideologi della destra neofascista direttamente implicati nella stesura delle idee di fondo che muovono i Forconi; leggiamo di assalti alle Camere del Lavoro in alcune città pugliesi, in cui l’attività sindacale è stata impedita con minacce, lancio di oggetti e tentativi di irruzione; leggiamo di pupazzi impiccati con cartelli appuntati in petto, e altri bruciati in prossimità di palazzi governativi. Questi episodi, coordinati alla suddetta irruzione nella libreria di Savona, lasciano più certezze che perplessità in ordine al cui prodest della protesta, e al significato che a essa può dare il cittadino che sceglie di pensare con la propria testa e di non farsi utilizzare, insieme alle proprie disagiate condizioni, a fini puramente strumentali. Purtroppo la terribile situazione economica italiana, con milioni di persone costantemente in bilico sulla soglia della povertà, coi disoccupati in espansione continua e gli studenti che vedono come un miraggio il posto di lavoro, è terreno fertile per il populismo rabbioso e pressapochista; basta poco ad accendere gli animi e a far credere che i responsabili del contesto siano asserragliati per difendere il proprio fraudolento benessere in palazzi di cui è noto indirizzo e numero civico, e che basti mettere a ferro e fuoco questi luoghi per riguadagnare la dignitosa sopravvivenza. Non è così, purtroppo. Il fenomeno della crisi è ben più complesso e articolato, e non esiste nulla che possa essere risolto con la violenza. Certe forze politiche presenti in Parlamento dovrebbero porsi il problema di cosa arrivi all’uomo della strada di certi atteggiamenti folcloristici a clamorosi, di certe proteste a base di abbandoni dell’aula e di gesti volgari proposti tramite le televisioni; l’interpretazione di queste posizioni, da parte di chi è disperato, può avere risvolti disperati: e può diventare manna per chi ha interesse a indirizzare le masse verso azioni che diventerebbero ben presto incontrollabili, restando peraltro assolutamente improduttive.

Chi scrive ha avuto la fortuna di essere stato più volte ospitato presso la libreria savonese assalita l’altro ieri, e può garantire con certezza che si tratta del luogo meno sedizioso e violento che esista al mondo. Il fatto che sia stata attaccata, e che si parli di bruciare i libri, definisce quello che sta accadendo più di milioni di parole. Dette e scritte.

L’Unità 13.12.13

“Il regalo di Natale per i figli della crisi”, di Chiara Saraceno

Che cosa significa per un bambino o ragazzo essere in condizione di povertà assoluta? Significa non poter avere una alimentazione adeguata, non fare prevenzione sanitaria (con la crisi sono crollate le visite dal dentista, che in Italia non fanno parte del servizio sanitario nazionale), vivere in spazi domestici troppo affollati e in spazi esterni spesso degradati, non potersi scaldare a sufficienza, non avere libri e giocattoli, talvolta non avere l’abbigliamento adatto alla propria corporatura. Significa avere a disposizione servizi per l’infanzia e scuole in misura minore, e di più bassa qualità ambientale, della già non eccelsa media nazionale. Significa sperimentare già da piccoli, tramite l’esperienza dei genitori, che il lavoro spesso non c’è e quando c’è non dà abbastanza da vivere decentemente.
Significa anche capire molto presto di non contare nulla per chi ha potere di decidere. Sono circa un milione i bambini e ragazzi che vivono in condizione di povertà assoluta nel nostro paese di cui Save the Children nel suo ultimo “Atlante” ha tracciato, in collaborazione con i ricercatori dell’Istat, una fotografia (per noi tutti) impietosa quanto drammatica. Sono il doppio di quanti (già troppi) erano in questa condizione nel 2007. La metà vive nel Mezzogiorno, dove più di un minore su 10 vive in condizioni di povertà assoluta (in Sicilia quasi uno su cinque). Ma l’aumento è stato relativamente maggiore nelle regioni centro-settentrionali. I minori, insieme e più dei giovani, sono le grandi vittime della crisi, che li colpisce fin dentro le condizioni di crescita, di salute, di capacità e possibilità di progettare un futuro, precostituendo un percorso che porterà molti di loro ad ingrossare le fila dei Neet — giovani tra i 18 e i 24 anni che né studiano né lavorano — per i quali l’Italia ha un non invidiabile primato. Eppure la povertà dei minori non riesce ad entrare in nessuna agenda politica, in nessuna scala di priorità. Anzi, molte decisioni di politica economica hanno colpito e colpiscono particolarmente loro, ulteriormente riducendo le risorse disponibili per attività e servizi loro destinati. La drastica riduzione del fondo sociale, unitamente ai vicoli del patto di stabilità, ha comportato una riduzione dei servizi per la prima infanzia, così importanti per contrastare le disuguaglianze di partenza. La riduzione dei fondi per la scuola ha portato alla forte riduzione del tempo pieno, soprattutto nelle regioni (del Sud) dove si era meno consolidato, ma dove sarebbe più necessario per contrastare situazioni di disagio e carenza di risorse famigliari, ed anche dei servizi integrativi. Certo, accanto ai vincoli di bilancio (e al modo in cui sono definiti), c’è stata e c’è una forte carenza di programmazione e di utilizzo dei fondi, specie europei. Ma, a mio parere, ha contato e conta l’intreccio tra marginalità e frammentazione delle politiche di contrasto alla povertà da un lato, marginalità delle politiche rivolte all’infanzia e all’adolescenza dall’altro. Esse sono sempre occasionali, temporanee, nascono e muoiono con il politico e il fondo di turno, senza diventare mai misure consolidate, per quanto rivedibili, con finanziamenti certi. Ciò produce dispersione di energie e risorse ed anche sfiducia ed estraniazione, non solo tra i minori e le loro famiglie, ma tra gli operatori sociali e le comunità.
Un esempio, solo apparentemente marginale, è quanto sta succedendo a Napoli proprio in queste settimane. Da anni esiste in quella città un’attività di educativa territoriale, circa 25 laboratori che tutti i pomeriggi, dal lunedì al venerdì, accolgono ragazzi e adolescenti nei quartieri più a rischio della città, fornendo loro sostegno scolastico e arricchimento curriculare e sottraendoli alla strada e al reclutamento da parte della camorra. In quindici anni di esistenza sono stati accolti centinaia di ragazzi, riducendo il rischio di dispersione scolastica purtroppo altissimo in quella città. In tutto questo tempo non si è mai trovato il modo di finanziare queste attività in modo regolare e continuativo, e tantomeno di decidere se e in che modo sia necessario avere una politica di contrasto all’esclusione scolastica e alla marginalità sociale dei ragazzi più svantaggiati. Gli operatori, ma anche i ragazzi e le famiglie, sono stati sistematicamente lasciati in uno stato di perenne incertezza. Anche in questi giorni, il ritardo nel fare la delibera necessaria (o nel trovare una soluzione alternativa, se ritenuta migliore) provocherà la chiusura dei laboratori, lasciando circa 2mila famiglie disagiate senza una soluzione sicura per i figli dopo le vacanze di Natale. Ecco pronto il regalo di Natale ai ragazzi più poveri di Napoli (ma fenomeni simili stanno avvenendo anche in altre città).

La Repubblica 12.12.13

“Ma il talento si coltiva con lo studio”, di Marco Lodoli

Diciamo la verità: fa abbastanza paura sentir parlare del patrimonio genetico come premessa per arrivare all’eccellenza o precipitare nell’insuccesso. È mostruoso pensare che sia già segnato dall’origine, come se ogni bambino portasse a scuola, insieme allo zaino e alla merenda, il suo irrevocabile destino segnato nei geni. È una visione terrificante, un’ipotesi crudele e vagamente nazista che rischia di cancellare ogni idea di impegno, apprendimento, sviluppo, crescita.
È chiaro che ogni insegnante si rende rapidamente conto di chi tra gli alunni appare più sveglio e chi più lento, ma allo stesso tempo l’esperienza invita ogni professore a essere prudentissimo nei giudizi iniziali e a continuare a lavorare sodo affinché tutti quanti diano il meglio. Troppe volte ho visto studenti brillanti impantanarsi nella mediocrità perché non coltivavano affatto le loro qualità: convinti di essere bravi si impigrivano miseramente e restavano al palo; e viceversa, studenti insicuri, traballanti, modesti che si rimboccavano le maniche e nel giro di un paio d’anni crescevano splendidamente. I valori di partenza sono soltanto talenti da sviluppare con l’applicazione e l’impegno, c’è chi li sfrutta e chi li seppellisce sotto metri di vuota supponenza.
Il salto di qualità può arrivare all’improvviso: ci sono studenti che per anni sembrano dormire nel loro banco defilato e in un giorno fioriscono, perché in realtà hanno assimilato molto più di quanto si credeva, sono cantieri che lavorano in silenzio e alla fine producono l’inaspettato. È meglio lasciar perdere ogni tentazione genetica, che rischia solo di creare assurde e pericolose differenze e di svilire ogni idea di trasformazione culturale. La storia è piena di grandi uomini che a scuola arrancavano, come di enfant prodige persi nel nulla. Siamo tutti creta e tornio: bisogna faticare per darsi una forma giusta, niente ci viene regalato

La Repubblica 12.12.13

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“I voti a scuola sono scritti nel Dna” ecco perché primi della classe si nasce”, di Elena Dusi

«LE DIFFERENZE nei risultati scolastici sono altamente ereditabili » scrivono gli psicologi del King’s College di Londra sulla rivista
Plos One. «La variabilità dei voti può essere in larga parte attribuita alla genetica, che conta molto più di scuola e ambiente familiare». Un buon insegnante determina il 29 per cento delle differenze nel successo scolastico dei sedicenni inglesi giunti alla fine della scuola dell’obbligo. I geni ereditati da padre e madre pesano invece per il 58 per cento.
Sono anni ormai che si cerca di stringere il cerchio attorno a un tema tanto sfuggente quanto controverso: quanta parte del nostro destino è scritta nel Dna prima ancora della nascita? Non si rischia così di cadere nel determinismo o nell’eugenetica? «Ciò che vogliamo dimostrare — spiega lo psicologo del King’s College Robert Plomin, pioniere nella ricerca delle cause genetiche del comportamento umano — è che i sistemi educativi dovrebbero essere più attenti ad abilità e bisogni individuali degli alunni». I ricercatori stanno ben attenti a non identificare i voti a scuola con l’intelligenza (per la quale il ruolo del Dna è inferiore: 40 per cento). «Anche attitudini, fame di imparare, motivazione e impegno sono tratti influenzati dalla genetica» scrivono nel loro studio.
Se nel 2000 il sequenziamento del Dna ha promesso nuove cure con la “medicina personalizzata”, oggi le ricerche che incrociano genetica e psicologia promettono dunque anche l’“educazione personalizzata”: curriculum diversi ritagliati su forze e debolezze di ciascun alunno. E trova così finalmente risposta il rovello di un genetista vincitore del Nobel — l’inglese Paul Nurse — che si era chiesto in modo simpatico «Ma in che cosa sono diverso? », visto che i suoi tre fratelli avevano abbandonato la scuola a 15 anni. Nurse scoprì molti anni più tardi, al momento di chiedere la Green Card dopo essere stato nominato presidente della Rockefeller University di New York, di essere figlio di un
padre sconosciuto.
L’educazione personalizzata che Plomin ha tra l’altro teorizzato in un libro uscito l’estate scorsa (“G for genes: the impact of genetics on education and achievement”) si scontra però con una difficoltà pratica. Mentre sono ormai molti gli studi che legano il successo scolastico o l’entità dello stipendio all’eredità genetica, nessuno è mai riuscito a capire quale specifico frammento del Dna influenzi la capacità di apprendere in classe. Studi come quello odierno si limitano a prendere in considerazione due classi di gemelli: gli omozigoti che condividono il 100 per cento del Dna e gli eterozigoti in cui le differenze fra i geni sono la metà rispetto alle persone senza parentele. Poiché entrambi i gruppi di gemelli condividono scuola e famiglia, significative differenze nei risultati scolastici possono essere facilmente ricondotte al ruolo dei geni.
I dati del King’s College sono stati ricavati dall’esame finale della scuola dell’obbligo in Gran Bretagna: il General Certificate of Secundary Education, che ha il vantaggio di essere standard in tutto il paese. Lo studio ha dimostrato anche che l’ereditarietà dei voti scolastici è più alta per le materie scientifiche rispetto a quelle umanistiche, decresce leggermente con l’età e si fa sentire in modo più incisivo fra i maschi rispetto alle femmine

La Repubblica 12.12.13