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“Democratici e socialisti”, di Claudio Sardo

Ospitare a febbraio il congresso del Partito socialista europeo è per il Pd un’opportunità. Per entrare finalmente nella casa che ormai è anche sua e contribuire da subito ad allargarla e rinnovarla. Quello di Roma non sarà un congresso ordinario: la scelta di caratterizzare le elezioni europee con un candidato comune – Martin Schulz – alla presidenza della Commissione è una risposta importante alla crisi di fiducia e di legittimità della Ue. Non basterà, certo, da sola a cambiare la rotta segnata da un lato dalle politiche di austerità e dall’altro dal prevalere del metodo intergovernativo. Ma indicherà alla sinistra europea la sola strada che porta al riscatto dell’Unione: la strada federale di un governo economico e democratico dell’euro, dove i parametri sociali (occupazione, scuola, povertà, etc) possano contare almeno quanto i parametri dei bilanci pubblici, dove ci si possa battere per una nuova sovranità dei cittadini. La sinistra non è stata abbastanza europeista quando era al governo di quasi tutti i Paesi Ue. Ora è a un bivio: senza un balzo «federalista» e «comunitario» i suoi stessi valori sociali.
Può il Pd – che ha nella scelta europea uno dei tratti distintivi – rinunciare a giocare questa partita? Può tirarsi da parte solo perché l’identità socialista non rappresenta per intero le sinistre riformatrici italiane? L’Europa sta affrontando una crisi drammatica e il rischio di un declino storico si intreccia con i suoi crescenti squilibri interni e con un’ondata di sfiducia. Che senso ha per il Pd ritagliarsi uno spazio ai bordi del campo, difendendosi ancora attraverso l’originalità del caso italiano?
È vero che il Pd ha scelto di chiamarsi «democratico» non per un accidente. Alle sue radici c’era la percezione di una profonda crisi della nazione, del suo modello sociale e delle stesse istituzioni democratiche: la risposta socialista non era sufficiente ad un progetto di ricostruzione dopo il fallimento di Berlusconi e i danni del liberismo antipolitico. Non era sufficiente anche perché le risorse riformatrici a cui attingere erano in Italia più ampie: la sinistra non può gettare nel fosso la cultura nazionale dei comunisti italiani, non può rinunciare all’apporto dei cattolici democratici, non può respingere le istanze ambientaliste sullo sviluppo sostenibile, non può relegare in secondo piano i tanti movimenti civici proprio nel tempo in cui l’attacco liberista mette a rischio i corpi intermedi e le autonomie sociali. Il Pd non deve rinunciare a nulla di tutto questo. Ma deve portare questo nella dimensione politica più rilevante: quella europea, appunto. Perché è lì che si gioca la partita decisiva.
Peraltro, la discussione interna al Pd sul socialismo europeo non può riprodursi nei termini di qualche anno fa. Qualcosa è cambiato nel frattempo. L’esperienza del gruppo dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento di Strasburgo è stata positiva, nel senso che la delegazione italiana si è pienamente integrata e non ci sono stati casi significativi, in cui i democratici italiani hanno assunto posizioni politiche in contrasto con il resto del gruppo. Se invece un’ipotesi è tramontata in questo tempo è proprio quella di un percorso convergente tra un’area democratica europea, più piccola e autonoma, e il grosso dell’area socia- lista. La realtà si è premurata di dimostrare che non esiste un’area democratica autonoma, disposta a lavorare nella logica di un centrosinistra europeo. Esiste invece – e lo dimostra l’interesse per il Pd, oltre che il rispetto per la sua forza (attualmente la delegazione italiana è la seconda nel gruppo S&D e il dato può essere confermato alle elezioni del 2014) – la possibilità di allargare gli orizzonti politici e culturali della sinistra continentale. Le sinistre socialiste tradizionali soffrono tutte di crisi di consenso e deficit di innovazione: l’apporto della cultura democratica – a partire dal nesso ormai inscindibile tra questione sociale e questione democratica, che solo la prospetti- va degli Stati Uniti d’Europa può scogliere positivamente – è dunque molto prezioso. Non è un caso che la Spd abbia avviato un dialogo intenso e ravvicinato con il Partito democratico americano, anche in vista dei nuovi trattati di libero scambio tra Ue e Usa.
È tempo per il Pd di entrare nel Pse. Si può essere democratici italiani e socialisti europei. Non per annacquare l’identità democratica, ma per proporla come un ampliamento di orizzonte politico alle forze storiche del socialismo. È significativo che tutti e quattro i candidati alla segretaria del Pd abbiano – sul punto – valutazioni convergenti. Se le residue riserve – anziché potenziare l’originalità democratica – diventassero un freno, si indebolirebbe la stessa proposta del Pd di lavorare insieme al Partito dei socialisti, dei progressisti e dei democratici europei. Questo dovrà dire a Schulz e agli altri leader del Pse il futuro segretario dei democratici. Sarebbe la prova che l’Ulivo – nei suoi riferimenti all’Europa e alle culture fondative della Costituzione italiana – non è passato invano. Ma la scelta del Pse confermerebbe anche la decisione di diventare «partito», e non semplicemente un campo di aggregazione di forze diverse. Quella sì, l’opzione del partito-coalizionale ridotto nei fatti a cartello elettorale, non sarebbe una scelta europea. E, se fosse questa la vera obiezione all’ingresso nel Pse, il congresso del Pd dovrebbe affrontarla con molta serietà.

l’Unità 12.11.13

“Segreti, silenzi e bugie per un delitto politico”, di Benedetta Tobagi

Il trauma delle stragi impunite, confinato nel silenzio, coltiva un tumore nel corpo della società. Nessuno, beninteso, se non due vecchi estremisti di destra, si permetterebbe mai di dire apertamente che la gente se ne frega di sentir parlare delle bombe. Per carità, con tutti quei morti, pietà cattolica non lo consente. Per depotenziare il trauma, scatta un meccanismo di rimozione più efficace. Si lascia che gli orrori galleggino in una nebbia lattea di indeterminatezza in cui tutto resta astratto, sospeso, sterilizzato. Emerge giusto qualche scoglio, qualche nome, frammenti di cronaca ripetuti come un mantra. Gherardo Colombo, un uomo che sa scegliere le parole con grande cura, nel volume autobiografico
Il vizio della memoria conia una formula perfetta. «Solenni ovvietà», così chiama tutte quelle cose terribili che «si sanno» ma senza conoscerle davvero, ciò che tutti hanno orecchiato prima o poi, magari indignandosi brevemente, ma resta lì, sospeso nel vuoto. Fatti pesanti come macigni, ridotti alla stregua di isole disperse. La traccia dei collegamenti si affievolisce e si perde nel ricordo, fino a che diventano grumi illeggibili cui è difficile, e spiacevole, pensare. Meglio lasciar perdere: tanto, per fortuna, è passato. È lontano. Oppure, è solo l’ennesima prova che è tutto uno schifo e non vale la pena di tornarci su. La storia di ogni strage è complessa, un labirinto pieno di false tracce e vicoli ciechi in cui è facile perdersi (non bisogna lasciarsi sviare dall’immagine addomesticata dei labirinti di siepi ben disegnati che adornano i giardini delle ville aristocratiche: la strage somiglia piuttosto al dedalo originario, dimora del Minotauro, mostro divoratore di innocenti che, una volta gettati dentro, non avevano scampo). È difficile ritesserne le fila. Allora si semplifica. «Strage impunita» è un marchio che funziona. Sui giornali e in Tv, solo le assoluzioni continuano a fare notizia, molto più dell’incriminazione o persino della condanna in extremis di qualche criminale di mezz’età di cui nessuno sa niente. Le stragi impunite sono ridotte da tempo a una litania inoffensiva, «perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera…» cantava Gaber con lapidaria ironia in
Qualcuno era comunista.
Una fiammata d’indignazione e una lacrima. Un luogo e tutt’al più una cifra, il numero dei morti: come le vecchie targhe delle macchine, o le sigle dei taxi, Milano 17, Brescia 8, Bologna 85… Risuonano appelli rituali ormai logori, «abolire il segreto di Stato», «scoprire i mandanti», mentre in questo magma indistinto muore d’asfissia la fiducia dei cittadini verso lo Stato.
Parole, elencazioni, evocazioni. Pochissime immagini. Ecco, alla storia delle stragi impunite manca persino un immaginario a cui appigliarsi per ricominciare a pensare. Non esiste l’equivalente della foto del ragazzo con la P38 in via De Amicis, a Milano, divenuta simbolo degli “anni di piombo”, ed è logico: i colpevoli sono per lo più senza volto. Ma nemmeno il corrispettivo del Moro prigioniero che regge un quotidiano davanti allo stendardo delle Brigate rosse. Le immagini delle stragi sono prive di esseri umani. […] Il 28 maggio 1974 consegna il proprio racconto ai volti degli uomini. A Brescia non è avvenuta la più grande delle stragi, né la più nota. Ma è diversa dalle altre, per tanti motivi, e lo si capisce già dalle fotografie. «Strage col più alto tasso di politicità», è stato detto: perché la bomba colpì una manifestazione antifascista. Le immagini di piazza della Loggia dopo l’esplosione brulicano di persone. Gente che grida, corre, scappa, piange, resta impietrita. Manifestanti che soccorrono le vittime.
(tratto da Una stella incoronata di buio in uscita con Einaudi)

La Repubblica 12.11.13

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LA STRAGE. BRESCIA, 28 MAGGIO 1974 “QUI NON È SUCCESSO NIENTE”, di GAD LERNER
Benedetta e zio Manlio. Benedetta e quella data fatidica, il 28 maggio. Forse ora ho capito da dove abbia tratto Benedetta Tobagi — proprio lei, figlia di una vittima del terrorismo — la forza di salire sul palco di piazza Duomo gremita di milanesi alla fine della campagna elettorale del 2011 per difendere il candidato Giuliano Pisapia dalla calunnia del sindaco uscente, Letizia Moratti, che lo aveva accusato di complicità con i brigatisti. In una città ancora lacerata dai rancori e dai misteri ereditati dagli anni di piombo, si levava una voce addolorata, giovane ma matura, che invocava rigore storico contro le strumentalizzazioni propagandistiche. Non le bastava riscuotere pubblica compassione. Aveva già dedicato al feroce delitto politico che il 28 maggio 1980 le aveva strappato il padre, un libro struggente eppure magistrale nella documentazione: Come mi batte forte il cuore.
Ma ora capisco che di quel bisogno di capire, elaborato intorno a una ferita non rimarginabile, Benedetta ha fatto una scelta di vita. Raccogliendo del giornalista Walter Tobagi non solo l’impegno civile ma anche l’inesausto spirito di ricerca: perché mai la vicenda della nostra Repubblica è così tragicamente intrisa di violenza politica?
Non potevo saperlo, ma quando Benedetta parlò in piazza Duomo già si era rinsaldata una relazione profonda fra lei e lo zio acquisito, così ama chiamarlo, zio Manlio. Nel nuovo libro di Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi, pagg. 470, euro 20), è lui che figura come straordinario protagonista: Manlio Milani, l’operaio bresciano che in un altro cupo 28 maggio dell’anno 1974 aveva perduto la moglie Livia. Uccisa dalla bomba scoppiata in piazza della Loggia lo stesso giorno, sei anni prima, dell’omicidio Tobagi.
Benedetta e Manlio si sono conosciuti nel maggio 2007 a una trasmissione dell’Infedele e da allora non si sono lasciati più. Lei ha cominciato a frequentare la sede della Casa della memoria di Brescia della quale Manlio è l’anima, nella sua veste di instancabile presidente dell’Associazione familiari delle vittime. Così, da un intenso rapporto di identificazione e da un passaggio generazionale condiviso nella «luce segreta della perseveranza», è nato il libro: il ritratto di Livia e degli altri amici rimasti vittime dell’attentato si allarga pagina dopo pagina nel contesto della città percorsa da tensioni sociali e scontri ideologici, fino a dare vita a un affresco d’insieme della penisola degli anni Settanta e della strategia della tensione che l’ha insanguinata. Di nuovo, come solo Benedetta Tobagi sa fare, le umane passioni, le speranze, gli amori, i miti culturali, si ricompongono in un impianto storiografico finalmente decifrabile.
Per i molti che, quarant’anni dopo, hanno il diritto di non saperlo, stiamo parlando di otto morti e centodue feriti fra i lavoratori in sciopero convenuti in piazza della Loggia per manifestare contro la recrudescenza degli atti di violenza fascista nella città di Brescia. Una bomba vigliacca, nascosta in un cestino portarifiuti, viene fatta esplodere durante il comizio del sindacalista Franco Castrezzati. C’è un filmato che fa male al cuore ogni volta che lo si rivede. L’eloquio stentoreo di Castrezzati, il botto che lo sovrasta, la nuvola di fumo bianco che si solleva, le urla della folla, di nuovo il sindacalista
che invita i compagni a mantenere la calma… Negli anni precedenti vi erano stati diversi attentati sanguinosi sui treni, oltre che la strage di piazza Fontana. Ma quella di Brescia fu la prima volta che una bomba seminò la morte nel mezzo di uno sciopero unitario dei sindacati. Passerà meno di un mese e anche le Brigate Rosse cominceranno a uccidere: due missini in una sede di Padova. Allo stragismo di destra risponde l’omicidio politico di sinistra.
La fotografia di Manlio Milani nel mentre sorregge il capo di Livia che spira, e con l’altro braccio levato pare rivolgersi alla folla, ha la tragicità pittorica di una passione. Ripercorriamo la loro vicenda sentimentale fra la sezione comunista, il circolo culturale, il consultorio dell’Aied dove, vincendo la timidezza, Livia insegna l’uso dei contraccettivi a tante donne bresciane (Adele Faccio dorme a casa loro quando passa da quelle parti). Un amore che minimizza le differenze di classe: Livia, insegnante, è la prima in famiglia a frequentare l’università; Manlio, operaio, l’ha conosciuta sul treno dei pendolari mentre tornava dalla Casa della Cultura di Milano. Se lui non ha avuto la possibilità di studiare, lei proprio per questo vuole che condividano perfino la stesura della tesi di laurea sul Gattopardo.
Attraverso di loro conosciamo Brescia nella sua età del ferro, o meglio del tondino. Una città che nel 1971 vede impegnato nell’industria addirittura il 58 per cento della popolazione. Un padronato di nuovi ricchi compiaciuti della propria grevità, simboleggiato dal
self made man
Luigi Lucchini, istintivamente ostile alla sinistra e al sindacato. Ma Brescia è anche la città in cui gli operai cattolici gareggiano con quelli della Fiom in coerenza militante antifascista. E dove l’assessore democristiano Luigi Bazoli, la cui moglie Giulietta rimane anch’essa uccisa dalla bomba, decide di accompagnarla al cimitero con la bandiera rossa perché era quella la fede politica di lei. E poi la stessa bandiera rossa verrà esposta da Bazoli nel suo ufficio al Comune. Fra i morti tre donne; cinque insegnanti, tutti impegnati nel sindacato; due operai; un ex partigiano. Solo il servizio d’ordine sindacale potrà garantire, nei giorni seguenti, che la rabbia popolare non vada oltre i fischi e non travolga le autorità (dal capo dello Stato, Giovanni Leone, al premier Mariano Rumor) convenute per i funerali.
Se questa è la Brescia di Manlio Milani, che oggi tutti conoscono e rispettano in città, ce n’è un’altra opaca che Benedetta Tobagi va a rintracciare, aggirandosi con pazienza certosina nel labirinto dei depistaggi e delle testimonianze fasulle imbeccate da un capitano dei carabinieri che avrebbe fatto carriera fino a diventare generale: Francesco Delfino.
I ritratti degli uomini della destra eversiva — dal bellissimo ventunenne Silvio Ferrari morto pochi giorni prima della strage mentre trasportava in scooter dell’esplosivo, all’ex partigiano Carlo Fumagalli, amico di Edgardo Sogno e come lui divenuto anticomunista fino al punto di reclutare i nemici di un tempo — sono un libro nel libro. Vediamo muoversi alle loro spalle la struttura che fa capo ai fascisti di Ordine Nuovo, fuorilegge da un anno ma dotati di una struttura clandestina la cui finalità è dichiaratamente seminare il terrore, preparare un colpo di Stato, debellare il pericolo comunista. Dando per scontato, come teorizza Pino Rauti, che tanto «la terza guerra mondiale è già cominciata ».
Questo anticomunismo paranoico è il tessuto connettivo che riunisce segretamente, nella loggia massonica P2 e in altre strutture parallele, i funzionari dei servizi segreti, alti ufficiali dei carabinieri e delle Forze armate, toghe con l’ermellino, ai capi della destra eversiva che traffica con gli esplosivi. Toccante è il racconto dell’inutile viaggio fino in Giappone di Manlio Milani, nel vano tentativo di convincere a tornare in Italia per raccontare la sua verità Delfo Zorzi, dirigente di Ordine Nuovo, divenuto facoltoso imprenditore.
Lo sciame di attentati e di sussulti golpisti che precedono la strage di Brescia impressiona chi oggi lo rilegge in sequenza. Ma perfino una lettera firmata Partito nazionale fascista, e indirizzata al
Giornale di Brescia sei giorni prima dell’attentato, preannunciava l’intenzione di commetterlo. Perché non le fu dato il giusto peso dai responsabili della pubblica sicurezza? La latitanza e la connivenza di uomini dello Stato smettono di essere un’insinuazione generica, grazie alla ricerca di Benedetta Tobagi: sono esposte inequivocabilmente nero su bianco. Fino alla penosa sequenza dei processi, funestati da omicidi di pentiti in carcere e dalle morti sospette di potenziali testimoni scomodi. Fino all’umiliante esito delle assoluzioni per insufficienza di prove: Maggi Carlo Maria, Zorzi Delfo, Tramonte Maurizio, Rauti Giuseppe Umberto, Delfino Francesco… La magistratura, oltre trent’anni dopo, getta la spugna.
In piazza della Loggia viene conservato sotto vetro, dal giorno della strage, il manifesto del comitato antifascista con le sigle dei partiti e dei sindacati che convocava la manifestazione. Dopo la sentenza ci hanno appiccicato su un cartello: «In questo luogo il 28 maggio 1974 non è
successo niente».

La Repubblica, 12.11.13

“Scuola digitale? Solo il 2% dei presidi ha il software giusto”, di Giorgio Candeloro

Sembra quasi un plebiscito: il 97% dei presidi italiani sa che la legge 135/2012 li obbliga ad adottare il registro elettronico, mentre il 66% valuta positivamente l’impatto della comunicazione digitale alle famiglie in termini di riduzione delle distanze tra genitori e docenti e di maggiore chiarezza e trasparenza nel rapporto.

Solo il 23%, però,ricorre alla comunicazione digitale prevalente, contro il 31% di coloro che si servono ancora prioritariamente della carta e il 46% che affianca le due modalità. Peraltro nel 48% dei casi la digitalizzazione si riduce alla notifica di avvisi e documenti sul sito della scuola (altro strumento ormai reso obbligatorio dalla legge), o all’invio di email (40%), per lo più concentrate nella parte finale dell’anno scolastico e sovente destinate a dare alle famiglie la sgradita notizia di una bocciatura o di un rinvio agli esami di settembre. Pochi, l’8%, appena, i dirigenti che utilizzano abitualmente la comunicazione via sms per segnalare le assenze ai genitori o per convocarli in caso di problemi didattici o disciplinari dei figli, ambito nel quale continua a regnare sovrana l’antica e inossidabile cartolina postale. Quasi delle mosche bianche, infine, i presidi che hanno dotato i loro istituti di software gestionali dedicati alla pianificazione e all’organizzazione della comunicazione alle famiglie: solo il 2%. Un quadro piuttosto contraddittorio quello che emerge da una recentissima indagine su un campione di 420 dirigenti scolastici di ogni ordine e grado, commissionata dall’Osservatorio Scuola Innovazione, gruppo di ricercache monitora costantemente il processo di rinnovamento tecnologico della scuola.

A due mesi dall’avvio dell’anno scolastico che doveva essere quello della sparizione dagli istituti della carta, sia per le comunicazioni interne che per l’informazione alle famiglie, la dematerializzazione sembra invece un obiettivo assai lontano dall’essere raggiunto. Simbolo del rinnovamento doveva essere il registro elettronico che avrebbe permesso alle famiglie di conoscere continuativamente e in tempo reale l’andamento scolastico dei ragazzi. Ufficialmente obbligatorio dal primo settembre scorso, il registro digitale rimane facoltativo nei fatti, mentre la scomparsa definitiva del cartaceo è stata rimandata di almeno un anno.

In base a dati di settembre, forniti sempre dall’OSI e confermati da fonti sindacali, ben il 72% degli istituti non avrebbe ancora provveduto a dotarsi dei registri elettronici, mentre fioccano in rete e su qualche importante quotidiano nazionale, le polemichesui rischi di violazione della privacy e di lievitazione dei costi legati all’adozione dello strumento digitale. Difficile che in meno di sessanta giorni la situazione sia molto cambiata, al di là dell’impegno preso da qualche dirigente e collegio dei docenti di far partire la dematerializzazione di voti e assenze col secondo quadrimestre, realizzando intanto la necessaria formazione dei docenti.

Ad oggi insomma nella scuola italiana l’unica vittoria consolidata contro la dittatura della carta sembra essere quella delle iscrizioni on line. Qui niente deroghe né rinvii: da gennaio, per il secondo anno di fila, si potranno iscrivere i figli a scuola solo in digitale, senza moduli, ricevute e segreterie affollate. L’anno scorso i disagi legati al nuovo sistema sono stati minimi, smentendo le diffuse preoccupazioni. Nella scuola ancora affezionatissima al fruscio della carta, quasi un mezzo miracolo.

ItaliaOggi 12.11.13

Scuola, Ghizzoni “Formazione per i docenti sul rispetto dell’altro”

Grazie al gruppo Pd, inserito nel dl Scuola l’attualissimo tema dell’educazione al rispetto. La scuola italiana, d’ora in poi, avrà gli strumenti per poter educare gli studenti al rispetto dell’altro, contro ogni stereotipo, compresi quelli di genere. Grazie al lavoro del gruppo Pd, infatti, è stato inserito tra gli ambiti di formazione scolastica dei docenti anche quello delle competenze “relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere”. “In accordo – spiega la vicepresidente della Commissione Istruzione della Camera Manuela Ghizzoni – con la normativa introdotta con il dl contro il femminicidio. Perché per cambiare il costume occorre costruire una nuova mentalità, a partire proprio dalla scuola e dalle nuove generazioni”.

E’ un tema che sta molto a cuore ai genitori, come recenti fatti di cronaca locale hanno dimostrato: d’ora in avanti la scuola italiana avrà gli strumenti per poter educare gli studenti anche al rispetto dell’altro, delle diversità e delle pari opportunità di genere, come peraltro già previsto dalla recente legge sul femminicidio. E’ infatti grazie al lavoro del gruppo Pd che, in sede di conversione in legge del cosiddetto decreto Scuola, è stato inserito tra gli ambiti in cui interverrà la formazione scolastica dei docenti anche quello delle competenze “relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità”. “Com’è noto – spiega la vicepresidente della Commissione Istruzione della Camera Manuela Ghizzoni – tra le tante novità introdotte dal dl Scuola, ci sono anche fondi stanziati espressamente per la formazione del personale scolastico. Come Pd abbiamo lavorato all’ampliamento delle tematiche su cui i docenti dovranno essere formati per poter trasmettere valori oltre che nozioni ai propri studenti. E quello dell’educazione all’affettività e al rispetto dell’altro sono due ambiti con implicazioni importantissime in questa società. Non a caso, – prosegue l’on. Ghizzoni – il provvedimento che lotta contro la violenza sulle donne ribadisce come siano fondamentali la prevenzione e la diffusione di una diversa cultura, contro ogni stereotipo propinatoci dalla società e dai media. Anche la stessa Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia solo in questa legislatura, – conclude Manuela Ghizzoni – sancisce che per cambiare il costume occorre costruire una nuova mentalità a partire proprio dalle scuole e dalle nuove generazioni”.

“Un patto per rifondare la politica”, di Carlo Buttaroni

Se un giorno, improvvisamente, la politica non fosse più lì a sovraintendere ai nostri deboli istinti e alle nostre pulsioni, sarebbe la fine della società così come la conosciamo. L’individuo si troverebbe solo e indifeso, privato dell’unico strumento che gli permette di vivere insieme al suo prossimo, definendo fini comuni e stabilendo norme in grado di tutelare il bene comune e gli interessi individuali. È grazie alla politica che l’uomo ha potuto progressivamente trovare gli adattamenti alla sua natura sociale, rendendo possibile la nascita di ciò che è stato poi chiamato «nazione», raggiungendo una stabilità «culturale» basata su una ragione forte e rendendo organizzato ciò che gli animali possiedono solo per istinto.
Ma oggi la politica è in grave sofferenza di fronte agli scenari frammentati sui quali è chiamata a dare risposte. È in difficoltà di fronte alla crescita di «comunità parallele» che non possono essere ricomprese in nessun insediamento preesistente. È quasi paralizzata di fronte a masse d’individui iscritti in una fluttuante geografia del consenso. Una politica, insomma, spaventata dalle scelte che è chiamata a compiere, ispirata a un pensiero debole dove il relativismo ha finito per essere una premessa largamente condivisa, dove tutto ha convissuto con il suo contrario e dove nessuno si sente veramente rappresentato da qualcuno. Un progressivo deterioramento che si riflette nella diffusa convinzione che la politica non sia più orientata, che abbia perso il senso di una missione da compiere, di un progetto da portare avanti, impossibilitata a organizzare il passato e il futuro in un’esperienza coerente. D’altronde il programmare, il progettare grandi mete, non si addice a un pensiero debole. E l’avvenire resta interrogativo senza tentativi di risposte per una politica timorosa di inoltrarsi in un futuro che non ha più la forma di una meta da raggiungere o di un criterio cui uniformare le condotte.
LA DIFFERENZA CON IL NOVECENTO
Al modello di ragione universale e forte del Novecento, in questi ultimi vent’anni, si è contrapposta una costellazione di razionalità parziali e provvisorie, che hanno alimentato l’idea che la politica sia solo «scelta elettorale» e non più rappresentanza di espressioni sociali. Il risultato è stato una deformazione della democrazia rappresentativa, i cui effetti si sono visti nelle elezioni politiche di febbraio: un sisma fuori scala, il cui epicentro non è stato nel sistema dei partiti, ma in una società caratterizzata da conflitti a bassa intensità e alta frequenza. Il fenomeno è molto più profondo di quanto è stato descritto nelle prime analisi post-voto. Lo si legge nel voto degli studenti e dei disoccupati. Lo si nota nella differenza dei gesti elettorali dei giovani e degli anziani e tra chi riesce a preservare un briciolo di garanzie (come i lavoratori dipendenti) e chi, invece, queste garanzie non le ha e, probabilmente, mai le avrà.
Eppure, pur nelle sue contraddizioni, nelle urne ha preso forma un’idea di società che si rafforza nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, la sanità, l’assistenza ai più deboli, l’istruzione, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti. Il dato delle urne dello scorso febbraio esprime il bisogno di un nuovo patto, una rifondazione che ispiri le scelte e le azioni pubbliche, la voglia di esserci in prima persona, di non essere più lontani ed estranei da ciò che accade. Una spinta a riemergere da quell’individualismo autoreferenziale che ha segnato questi anni, per guardare, con maggiore attenzione, ai legami e alle responsabilità di ciascuno verso i propri simili, considerati non più soltanto come limite, ma anche come condizione irrinunciabile della libertà individuale.
Il punto è come dare forma e coscienza di sé a una moltitudine d’individui che esprimono bisogni che non possono trovare soluzione soltanto in un uomo nuovo, ma hanno bisogno di un pensiero nuovo. È questa la grande sfida della politica. E non rispondere a questa domanda è il grande rischio della democrazia, perché senza una politica capace di un pensiero alto e forte, inevitabilmente annichilisce anche quel sistema di valori e principi che, a partire dalle singole individualità, trovano forma in un comune sentire e appartenere. È l’assenza di una politica capace di «pensare in grande» che ha alimentato l’illusione di poter «fare società», senza obiettivi condivisi e senza un qualsiasi conferimento personale, restituendo una solitudine globale che ha reso ogni singolo individuo inerte di fronte al suo futuro.
La malattia da cui è affetta la politica nasce dall’impotenza di fronte alle scelte da compiere, una crisi dell’agire che si aggrava nel momento in cui sembra poter decidere solo in subordine al sistema economico prima e all’apparato tecnico poi. Una situazione di adattamento passivo, condizionata da decisioni contingenti che non può indirizzare, ma solo garantire. Un’impotenza che si accompagna a un nichilismo lieve, figlio della subordinazione delle idee a semplici ipotesi di lavoro che confondono il funzionamento con il pensiero, la direzione con la velocità.
LA GRILLO-RIBELLIONE
Ciò che oggi serve è una politica che sappia farsi carico di quella volontà di rifondazione morale, civile ed economica che è stata depositata nelle urne. Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune, punto d’incontro di un interesse convergente, fondato sul valore intrinseco e intangibile della persona umana e declinato su una solidarietà condivisa.
Per risolvere la sua crisi, la politica deve fare, quindi, i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione. Perché in tutte le sue forme, ideali o teoretiche, fenomenologiche o empiriche, conserva sempre una confluenza con l’agire, con la capacità di fare delle scelte, di creare idee, di produrre azioni che governino la società e la sua complessità.
Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte, perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che hanno preso la forma della grillo-ribellione ne sentono la mancanza. Questa è la sfida ultima cui oggi è chiamata la politica: sapersi ricostituire in agenzia di senso, capace di rappresentare le nuove e variegate figure sociali. Ma, per fare questo, più che un uomo forte occorre un pensiero forte, interprete all’altezza della società degli imperfettamente distinti.

Presidente Tecné

L’Unità 11.11.13

“L’eterno sdoppiamento della leadership democratica”, di Franesco Cundari

Non è la prima volta che il centrosinistra deve fare i conti con la paradossale
difficoltà di avere in campo, allo stesso tempo, un capo del governo in carica e un leader candidato allo stesso ruolo. La prima volta a Palazzo Chigi sedeva Giuliano Amato, anche lui, come Enrico Letta, diventato presidente del Consiglio al termine di una crisi parlamentare, senza passare dalle elezioni. Chi si apprestava a guidare la coalizione alle elezioni del 2001, invece, era Francesco Rutelli, allora sindaco di Roma. La seconda volta a Palazzo Chigi sedeva Romano Prodi, che dalle elezioni ci era passato, nel 2006, ma senza ottenerne la maggioranza che aveva sperato. Chi avrebbe guidato la coalizione alle successive elezioni del 2008, invece, sarebbe stato un altro sindaco di Roma, Walter Veltroni, eletto segretario del neonato Pd con le primarie del 2007.

Curiosamente, a sinistra, uno degli argomenti più forti portati a sostegno della scelta di costruire il Pd era proprio la necessità di superare l’anomalia per cui in Italia, unico Paese dell’occidente democratico, il segretario del maggior partito del centrosinistra non poteva ambire alla guida del governo. E questa, si diceva, era la ragione sistemica delle divisioni interne. Costruendo un partito unitario, dunque, si sarebbe superata quella contraddizione, quello sdoppiamento tra leadership e premiership causa di tante tensioni.

Il risultato della lunga e complicata gestazione di questo progetto è oggi, pertanto, doppiamente paradossale. Se infatti alle primarie dell’8 dicembre vincerà Matteo Renzi, il Pd si ritroverà con due leader: uno alla guida del governo senza essere stato eletto e l’altro candidato a guidare il governo senza le elezioni. È vero, come ha ricordato ieri Guglielmo Epifani, che alle primarie dell’8 dicembre non si decide il candidato a Palazzo Chigi. Ma si diceva lo stesso nel 2007. E se è finita come sappiamo c’è una ragione. Non per niente l’Italia è l’unico Paese dell’occidente democratico in cui si svolgano primarie senza le elezioni. Perché se fai incoronare solennemente un leader dai suoi elettori, al termine di una campagna elettorale in piena regola, poi è difficile spiegare loro che per la guida del governo se ne riparla, semmai, tra qualche anno.

Il problema è che il Pd non ha mai sciolto davvero il dilemma fondamentale circa la sua missione: se debba diventare un partito-coalizione che riassuma in sé l’intero centrosinistra, sul modello dei democratici americani, o se debba rappresentare un partito con una sua precisa identità, con il suo proprio profilo programmatico e ideale. Se debba essere cioè una sorta di cartello elettorale permanente, guidato quindi dagli eletti, a tutti i livelli (premier, presidenti di Regione, sindaci) o un’organizzazione con una sua struttura e una sua vita democratica autonome. Ovviamente, il primo modello si accorda con l’idea di un sistema politico in cui il bipolarismo si fa sempre più stringente, sino a raggiungere un «tendenziale bipartitismo»: se l’intero spettro politico fosse rappresentato da due partiti o poco più, è evidente che la coincidenza tra segretario del Pd e candidato premier del centrosinistra ci sarebbe nei fatti. Il problema è che l’evoluzione del sistema politico non è andata in tale direzione, e il tentativo di produrre attraverso norme statutarie quello che nei fatti non è accaduto ha finito per portare il Pd in un mondo che non c’è.

Anche l’altra infinita discussione che ha travagliato il Pd sin dall’inizio e che è tornata alla ribalta in questi giorni, quella sulla sua collocazione in Europa, discende da quel dilemma irrisolto. Nello schema del partito-coalizione, senza un profilo identitario netto, si capisce la resistenza ad aderire sic et simpliciter al Pse. Per questo appare tanto più apprezzabile, se sarà confermata, la mossa del cavallo compiuta da Renzi quando, candidandosi, si è detto a favore dell’adesione senza tante complicazioni. D’altra parte, se Veltroni e Bersani prima di lui non avevano potuto fare altrettanto è perché un leader proveniente dalla sinistra, con quella scelta, si sarebbe esposto al rischio di una scissione sulla sua destra. Un rischio che per Renzi, nonostante le polemiche di questi giorni, è difficile immaginare (sia che sia lui il nuovo segretario, sia che resti nel Pd come capo della minoranza). Quanto al dilemma originario sulla missione del Pd, tutti e quattro i candidati si sono tenuti finora piuttosto sul vago, da un lato dicedosi a favore di un sistema rigidamente bipolare, dall’altro enfatizzando molto, sebbene ciascuno a suo modo, il ruolo e l’identità del Pd come partito autonomo, con il suo simbolo e la sua storia. Da come scioglieranno questa contraddizione si capirà se il Pd di domani punterà a essere l’ultimo partito della Seconda Repubblica o il primo della Terza.

L’Unità 11.11.13

“Aggiornamento obbligatorio: il problema vero è quello delle risorse”, di R.P. da La Tecnica della Scuola

I sindacati stanno protestando perchè il decreto scuola parla di obbligo a proposito dell’aggiornamento che è invece materia contrattuale. Ma il problema vero è un altro: la norma prevede uno stanziamento di soli 10 milioni, limitato al 2014. L’art. 16 del decreto 104 “La scuola riparte” non cessa di suscitare polemiche. Da più parti si continua infatti a parlare di aggiornamento obbligatorio finalizzato in particolare a migliorare le prestazioni degli studenti nelle prove Invalsi.
Ma, forse, varrebbe la pena di leggere il testo della norma per capire cosa davvero sia stato approvato dal Parlamento.
Il comma 1 del decreto originario così recitava:
“Al fine di migliorare il rendimento della didattica, particolarmente nelle zone in cui i risultati dei test di valutazione sono meno soddisfacenti ed è maggiore il rischio socio-educativo, e potenziare le capacità organizzative del personale scolastico, per l’anno 2014 è autorizzata la spesa di euro 10 milioni… per attività di formazione obbligatoria del personale scolastico …”
Il testo approvato dice invece una cosa diversa:
“Al fine di migliorare il rendimento della didattica, con particolare riferimento alle zone in cui è maggiore il rischio socio-educativo, e potenziare le capacità organizzative del personale scolastico, è autorizzata per l’anno 2014 la spesa di euro 10 milioni… per attività di formazione e aggiornamento obbligatori del personale scolastico…”
E’ sparito un inciso, quello relativo ai risultati dei test di valutazione, mentre l’attività di “formazione obbligatoria” è diventata “attività di formazione e aggiornamento obbligatori”.
Sul principio dell’obbligo di aggiornamento sembrano non esserci dubbi anche se si tratta di capire in che modo potrà essere attuato, ma la priorità sarà data alle aree a rischio socio-educativo; gli esiti dei test Invalsi non sono più un parametro di cui tenere conto.
Comprensibili le perplessità sindacali che osservano che l’aggiornamento è materia di contrattazione integrativa ma il nodo vero ci sembra un altro: la legge prevede uno stanziamento di 10milioni di euro (e per di più solo per il 2014, dal 2015 in avanti si vedrà) che è pari esattamente alla decima parte di quanto veniva stanziato 15 anni fa ai tempi dei ministri Berlinguer e De Mauro e ad un terzo di quanto era disponibile all’epoca di Letizia Moratti.
Nello stesso comma vengono elencati i temi che dovranno essere affrontati nelle attività di aggiornamento e balza subito agli occhi che manca del tutto ogni riferimento alle Indicazioni nazionali per primo ciclo di istruzione che invece avrebbero meritato ben altra attenzione (d’altronde nel passaggio alla Camera alcuni deputati del PD avevano proposto un emendamento in tal senso, ma senza esito).
Insomma le disposizioni dell’art. 16 non ci sembrano adeguate alle esigenze della scuola, ma non esattamente per i motivi che i sindacati stanno evidenziando.

La Tecnica della Scuola 11.11.13