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“L’eterno sdoppiamento della leadership democratica”, di Franesco Cundari

Non è la prima volta che il centrosinistra deve fare i conti con la paradossale
difficoltà di avere in campo, allo stesso tempo, un capo del governo in carica e un leader candidato allo stesso ruolo. La prima volta a Palazzo Chigi sedeva Giuliano Amato, anche lui, come Enrico Letta, diventato presidente del Consiglio al termine di una crisi parlamentare, senza passare dalle elezioni. Chi si apprestava a guidare la coalizione alle elezioni del 2001, invece, era Francesco Rutelli, allora sindaco di Roma. La seconda volta a Palazzo Chigi sedeva Romano Prodi, che dalle elezioni ci era passato, nel 2006, ma senza ottenerne la maggioranza che aveva sperato. Chi avrebbe guidato la coalizione alle successive elezioni del 2008, invece, sarebbe stato un altro sindaco di Roma, Walter Veltroni, eletto segretario del neonato Pd con le primarie del 2007.

Curiosamente, a sinistra, uno degli argomenti più forti portati a sostegno della scelta di costruire il Pd era proprio la necessità di superare l’anomalia per cui in Italia, unico Paese dell’occidente democratico, il segretario del maggior partito del centrosinistra non poteva ambire alla guida del governo. E questa, si diceva, era la ragione sistemica delle divisioni interne. Costruendo un partito unitario, dunque, si sarebbe superata quella contraddizione, quello sdoppiamento tra leadership e premiership causa di tante tensioni.

Il risultato della lunga e complicata gestazione di questo progetto è oggi, pertanto, doppiamente paradossale. Se infatti alle primarie dell’8 dicembre vincerà Matteo Renzi, il Pd si ritroverà con due leader: uno alla guida del governo senza essere stato eletto e l’altro candidato a guidare il governo senza le elezioni. È vero, come ha ricordato ieri Guglielmo Epifani, che alle primarie dell’8 dicembre non si decide il candidato a Palazzo Chigi. Ma si diceva lo stesso nel 2007. E se è finita come sappiamo c’è una ragione. Non per niente l’Italia è l’unico Paese dell’occidente democratico in cui si svolgano primarie senza le elezioni. Perché se fai incoronare solennemente un leader dai suoi elettori, al termine di una campagna elettorale in piena regola, poi è difficile spiegare loro che per la guida del governo se ne riparla, semmai, tra qualche anno.

Il problema è che il Pd non ha mai sciolto davvero il dilemma fondamentale circa la sua missione: se debba diventare un partito-coalizione che riassuma in sé l’intero centrosinistra, sul modello dei democratici americani, o se debba rappresentare un partito con una sua precisa identità, con il suo proprio profilo programmatico e ideale. Se debba essere cioè una sorta di cartello elettorale permanente, guidato quindi dagli eletti, a tutti i livelli (premier, presidenti di Regione, sindaci) o un’organizzazione con una sua struttura e una sua vita democratica autonome. Ovviamente, il primo modello si accorda con l’idea di un sistema politico in cui il bipolarismo si fa sempre più stringente, sino a raggiungere un «tendenziale bipartitismo»: se l’intero spettro politico fosse rappresentato da due partiti o poco più, è evidente che la coincidenza tra segretario del Pd e candidato premier del centrosinistra ci sarebbe nei fatti. Il problema è che l’evoluzione del sistema politico non è andata in tale direzione, e il tentativo di produrre attraverso norme statutarie quello che nei fatti non è accaduto ha finito per portare il Pd in un mondo che non c’è.

Anche l’altra infinita discussione che ha travagliato il Pd sin dall’inizio e che è tornata alla ribalta in questi giorni, quella sulla sua collocazione in Europa, discende da quel dilemma irrisolto. Nello schema del partito-coalizione, senza un profilo identitario netto, si capisce la resistenza ad aderire sic et simpliciter al Pse. Per questo appare tanto più apprezzabile, se sarà confermata, la mossa del cavallo compiuta da Renzi quando, candidandosi, si è detto a favore dell’adesione senza tante complicazioni. D’altra parte, se Veltroni e Bersani prima di lui non avevano potuto fare altrettanto è perché un leader proveniente dalla sinistra, con quella scelta, si sarebbe esposto al rischio di una scissione sulla sua destra. Un rischio che per Renzi, nonostante le polemiche di questi giorni, è difficile immaginare (sia che sia lui il nuovo segretario, sia che resti nel Pd come capo della minoranza). Quanto al dilemma originario sulla missione del Pd, tutti e quattro i candidati si sono tenuti finora piuttosto sul vago, da un lato dicedosi a favore di un sistema rigidamente bipolare, dall’altro enfatizzando molto, sebbene ciascuno a suo modo, il ruolo e l’identità del Pd come partito autonomo, con il suo simbolo e la sua storia. Da come scioglieranno questa contraddizione si capirà se il Pd di domani punterà a essere l’ultimo partito della Seconda Repubblica o il primo della Terza.

L’Unità 11.11.13