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“Legge elettorale, Pd per il doppio turno”, di Silvio Buzzanca

Il Pd vuole una legge elettorale a doppio turno. Magari alla francese. In subordine potrebbe andare bene anche il sistema a doppio turno di coalizione proposto da Luciano Violante e Roberto D’Alimonte. Scelta netta, precisa che Luigi Zanda ha illustrato ieri pomeriggio alla commissione Affari costituzionale del Senato. Presa di posizione che stoppa, per il momento, la marcia del modello spagnolo su cui hanno lavorato i due relatori Donato Bruno, Pdl, e Doris Lo Moro del Pd.
Una mossa che rimette tutto in discussione e si scontra con la contrarietà del Pdl. Ma si interseca anche con la vita del governo e il dibattito interno al Pd. Perché da un lato viene letta come un tentativo di Letta di evitare il varo di una norma provvisoria e di legare la nuova legge alle riforme. Portando Alfano e i suoi sul doppio turno. E dall’altra parte sembra una risposta all’offensiva di Matteo Renzi sulla legge elettorale basata sulla proposta di adottare a livello nazionale il sistema dei comuni.
«Il Pd è per il doppio turno. Io preferirei che si procedesse sul sistema francese». E’ questa la posizione unitaria del Pd, espressa dall’assemblea del partito, in due assemblee dei senatori e con due identici disegni di legge presentati alla Camera e al Senato. Questo è quanto ho voluto rendere esplicito in commissione », racconta così il capogruppo democratico a Palazzo Madama.
Zanda sa bene però che, visti i rapporti di forza al Senato, si deve cercare una mediazione. E allora dice che «in subordine, si potrebbe esaminare il doppio turno di coalizione proposto da D’Alimonte e Violante». Tenendo conto, conclude che «è necessario che la commissione tenga presente che comunque il 3 dicembre la Corte costituzionale potrebbe decidere sull’incostituzionalità totale o parziale della Legge Calderoli», Parole e precisazioni raccolte davanti alla sala vuota della commissione. Il grosso della stampa è raccolta al piano superiore di Piazza Madama ad ascoltare un torrenziale Beppe Grillo. Che fra tante cose, alla fine ammette che vuole andare al voto subito e con il Porcellum. Bisogna votare «il prima possibile — dice il leader dei Cinque stelle — dobbiamo andare al voto, se gli italiani vogliono ancora un governo così allora non siamo pronti a questo paese».
Dunque Grillo ha voglia di elezioni. «Perché «abbiamo una probabilità di vincerle, andiamo con qualsiasi legge», ripete. Ma, minaccia, «se perdiamo le elezioni non ho assolutamente più voglia di continuare. Ma voglio la prova».
Il progetto per il futuro però non c’è ancora. Per il momento bisogna accontentarsi di una promessa: «Ascolteremo gli specialisti di legge elettorale e poi faremo una nostra proposta, ma la legge elettorale deve entrare in Costituzione, così almeno non cambia», Deputati e senatori grillini annuiscono convinti. Loro stanno lavorando veramente a qualcosa. Un sistema che dovrebbe essere un incrocio fra sistema spagnolo e quello svizzero elaborato dai deputati. Ma ci sono dubbi e perplessità perché il sistema è molto complesso e difficile da utilizzare per gli elettori.
In attesa di vedere la proposta grillina, la dichiarazione di Zanda raccoglie il plauso di Gianni Cuperlo. «Ha fatto bene Zanda a porre la questione del doppio turno. Su questo sistema il Pd, al di là di polemiche che ho trovato sinceramente fuori luogo, è unito. E sarebbe bene che su questo ora ci fosse un confronto serio con le altre forze politiche », dice il candidato alla segreteria. Cuperlo ha anche una sua proposta di oppio turno: «Il primo — spiega — con una soglia di sbarramento al 5%, e il secondo dove si scontrano due coalizioni con un premio di maggioranza ragionevole».

La Repubblica 29.10.13

“Atenei ricchi e poveri, l’errore del turn over”, di Pietro Greco

Premiate o penalizzate le università non sulla base del merito formativo, ma solo sulla base “dei conti in ordine”. Imposto un notevole trasferimento di«punti organico»dalle università del Sud alle università del Centro e del Nord. E poiché,nel linguaggio ministeriale,un«punto organico» equivale a un docente, significa che, come se ad agire fosse un Robin Hood alla rovescia, molte risorse umane vengono sottratte agli «atenei poveri» del Mezzogiorno d’Italia e conferite agli «atenei ricchi» del Centro e del Settentrione. Diciamolo chiaramente. C’è un duplice errore nel processo che ha portato alla elaborazione della tabella che il ministero dell’Istruzione ha reso pubblica nei giorni scorsi che riduce in numeri le disposizioni contenute nel decreto ministeriale «Decreto criteri e contingente assunzionale delle Università statali per l’anno 2013» del 9 agosto scorso che regola il turn over dei docenti negli atenei pubblici. Si tratta di due grossi errori che il ministro, Maria Chiara Carrozza, si è detto disponibile a correggere, che giungono a valle di uno sbaglio ancora maggiore deciso dai governi che hanno preceduto quello di Enrico Letta: il taglio del turn over dell’80%. Il che significa che per ogni 5 docenti che vanno in pensione, le università pubbliche possono assumerne sole 1. Protratto per vari anni, questo vincolo abbatte ulteriormente e drasticamente la capacità formativa delle università in un paese,l’Italia, in cui il numero di giovani laureati (19% nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni) è la metà della media Ocse (40% circa) e sideralmente lontana dalla media di paesi come la Corea del Sud (64% di laureati) o di Giappone, Canada, Russia dove la media sfiora il 60%. Obiettivo strategico dell’intero Paese (e non solo delle università italiane) dovrebbe essere quello di diminuire il pauroso gap cognitivo che si è determinato tra l’Italia e la gran parte del resto d’Europa e del mondo. Il vincolo del turn over al 20% è un potente fattore di peggioramento del sistema dell’alta formazione. A questo errore strategico si sommano i due errori contenuti, ad avviso non solo di chi scrive, ma di molti rettori e di molti osservatori, nella recente tabella resa pubblica dal ministero. Il meccanismo, più o meno, funziona così. Il taglio dell’80% del turn over si applica al sistema universitario pubblico nel suo insieme. Insomma, se da tutte le università italiane escono in cento,possono entrare in totale solo in venti. Fermo restando a scala nazionale il taglio draconiano,c’è un meccanismo fondato su criteri meramente economici che consente alle singole università che hanno i «parametri in ordine» di evitare il taglio del turn over, di converso impedisce a chi ha i«parametri in disordine» di raggiungere anche la quota davvero misera del 20%. Facciamo due esempi, per capirci. La Scuola Sant’Anna di Pisa, di cui il ministro Maria Chiara Carrozza è stata rettore, risulta avere i parametri a Posto e avrà la possibilità di assumere un numero di Docenti triplo rispetto a quelli che andranno in pensione: un turn over positivo superiore al 200%. Al contrario, l’Università di Bari o l’Università Federico II di Napoli potranno concedersi un turn over di poco superiore al 5%. In pratica, per ogni cento posti lasciati da chi è andato in pensione a Bari o a Napoli ne potranno essere coperti solo sei o sette. Dove sono i due errori? Beh, problemi di legittimità a parte del decreto, il primo errore da correggere risiede nel fatto che l’offerta formativa di un università può aumentare o diminuire non in base al merito scientifico o didattico (a Bari, per esempio, le performance di merito sono aumentate nell’ultimo anno), ma in base solo a parametri economici e/o burocratici. Non è un bel messaggio che viene dato ai giovani e alle università che frequentano. Il secondo errore è ancora più grave. Il meccanismo, infatti, sposta «risorse umane» importanti dagli atenei poveri del Sud d’Italia verso gli atenei ricchi del Centro e del Nord. Con un triplice effetto indesiderabile. Sottrarre l’opzione della conoscenza alla parte del paese, quella meridionale, che ne ha più bisogno. E non solo in termini economici, ma anche culturali e civili:la conoscenza e i suoi luoghi sono il primo presidio sia contro la povertà sia contro l’illegalità. Imporre ai giovani meridionali che si vogliono laureare di migrare verso il Centro e verso il Nord del paese, con aggravio di disagi per loro e di costi per le loro famiglie. Costi e disagi aggravati dal fatto che il Mezzogiorno è l’area che è stata più colpita dalla crisi e che, come ci ha documentato di recente lo Svimez ha visto diminuire la propria produzione di ricchezza del 25% negli ultimi anni. Il terzo effetto indesiderabile è che, con un simile spostamento territoriale dell’offerta formativa, i giovani che vogliono iscriversi all’università saranno disincentivati e rinunceranno. Col risultato di aumentare lo «spread cognitivo» con il resto del mondo. L’Italia e non solo il suo Mezzogiorno non se lo può permettere.

L’Unità 29.10.13

“Scuola breve, è già coro di no”, di Alessandra Ricciardi

Il progetto era già pronto e proprio la riduzione di un anno del percorso delle superiori era considerata la soluzione migliore. Per raggiungere l’obiettivo di allineare la durata del percorso scolastico italiano alla media europea con il diploma a 18 e non più 19 anni. L’allora ministro dell’istruzione, Francesco Profumo, ha lasciato l’eredità di quel progetto nella sua direttiva sulle priorità dell’azione amministrativa, al termine di un’attività di governo giocata sempre sul filo del rasoio del consenso dell’esecutivo dei tecnici.

Ora il ministro Anna Maria Carrozza ci riprova anche se nella forma ridotta di una sperimentazione. Sarebbero al momento tre gli istituti, tutti paritari, e tutti della Lombardia, patria del progetto già negli anni passati, che stanno testando un corso di 4 anni utile a diploma e un quinto anno riservato ad esperienze anche all’estero per chi ce la fa a ultimare prima. Un modello che piace se è vero che anche istituti statali del Sud hanno chiesto di poter aderire alla stessa sperimentazione. Un modello che piace certamente al ministro dell’istruzione, «se ci fosse stata quando ero studentessa», ha detto nel corso di un incontro con gli studenti sperimentandi del liceo Carli, «anch’io mi sarei iscritta a una scuola come la vostra». E ha poi aggiunto: «Si tratta di un’esperienza che dovrebbe diventare un modello da replicare in tutta Italia anche per la scuola pubblica». Un annuncio che la messo in allarme i sindacati della scuola. Ancora da smaltire gli 8 miliardi di tagli delle riforma Gelmini, il blocco del contratto deciso da Giulio Tremonti e poi prorogato da Mario Monti e ora da Enrico Letta, contro il quale hanno indetto una manifestazione unitaria il 30 novembre, i sindacati di categoria devono fronteggiare pure gli effetti di una riforma delle pensioni che ha alzato l’asticella del pensionamento, riducendo le chance assunzionali. Un taglio di un anno della durata del percorso delle superiori, portato a regime, darebbe il colpo di grazia: il calcolo è presto fatto, un anno in meno vale 46 mila posti di lavoro. E con un precariato nella scuola che è in continua crescita, a dispetto dei vari freni legislativi posti alla riapertura delle graduatorie, anche la sola idea di una sperimentazione che possa prendere piede sul territorio, aprendo una falla del sistema, desta preoccupazione. «Ridurre di un anno il percorso delle superiori significa l’impoverimento ulteriore della qualità formativa con un effetto devastante sia sul personale a tempo indeterminato che sul personale precario in attesa di stabilizzazione», attacca Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil. «Chi lavora nella scuola è reduce da una stagione di enorme travaglio che ha visto crescere a dismisura elementi di tensione e disagio destinati a incidere negativamente sull’organizzazione del lavoro e quindi sulla qualità del servizio Non si avvertiva proprio», ragiona Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola, «alcun bisogno di segnali che rimettessero la scuola in uno stato di incertezza sui suoi assetti presenti e futuri». La questione va capovolta, dice Massimo Di Menna, segretario della Uil scuola: «Prima si stabilizza l’organico, non in base alle classi funzionanti ma ai docenti che ci sono, si prevede un quinto anno per i tecnici e professionali con stage di lavoro e per licei con attività di orientamento universitario. Fatti questi interventi, si può procedere a una sperimentazione di ordinamento triennale. E poi, visti i risultati, si può pensare a un intervento strutturale. Altrimenti è solo improvvisazione».

da ItaliaOggi 29.10.13

“La settimana parlamentare: scuola e università arrivano a Montecitorio”, di Andrea Tognotti

Arriva in aula il decreto sulla scuola e l’università. Ci arriva con le numerose modifiche frutto del lavoro parlamentare e senza aver risolto il nodo della copertura finanziaria, che sarà affrontato direttamente in assemblea. Dopo le dimissioni da relatore di Giancarlo Galan (Pdl), la nuova relatrice è la deputata dem Manuela Ghizzoni. Tra gli emendamenti quello che consente di prorogare fino al 2018 i contratti a tempo determinato stipulati a favore di ricercatori, tecnologi e figure di supporto impiegate presso gli enti di ricerca. Per le borse di studio è passato il criterio secondo cui si assegnano solo in base al reddito Isee e non anche al merito. Per l’università, aumenta da 40 a 80 mila euro il tetto per usufruire di tasse agevolate. Previsto inoltre un “manifesto dei diritti e doveri scuola-lavoro”, per gli studenti che, contemporaneamente, abbiano un impiego. Ripristinato, ma solo per quest’anno accademico, il bonus di maturità utile per l’accesso alle facoltà a numero chiuso.

Dal punto di vista dei provvedimenti legislativi la settimana finisce qui, a meno del possibile approdo in aula di argomenti esaminati dalla giunta per le autorizzazioni . Gli altri argomenti, oltre al consueto question time, sono la discussione di una mozione sul rilancio del settore manifatturiero e di una sui celiaci. Infine i deputati esamineranno il conto consuntivo della camera per l’anno finanziario 2012 e il progetto finanziario per il 2013.

Tra le audizioni in commissione si segnala quella del ministro per l’integrazione Cècile Kyenge sulle linee programmatiche del suo dicastero. Inoltre la commissione affari costituzionali, a cui è assegnato il ddl che istituisce le città metropolitane (e abolisce le province) ascolterà esperti e rappresentanti di enti e associazioni.

A PALAZZO MADAMA

A sessione di bilancio aperta, l’unica cosa prevista in calendario nell’aula del senato è il decreto sulla pubblica amministrazione, in terza lettura dopo le modifiche della camera, che scade mercoledì. Per il resto, le commissioni sono impegnate nell’esame dei documenti di bilancio e della legge di stabilità. Domani, o mercoledì, arriverà il parere delle commissioni, mentre le commissioni di merito (bilancio e finanze) concluderanno il tradizionale ciclo di audizioni preliminari (domani quella del ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni). Nella commissione affari costituzionali prosegue il dibattito sul “pillolato” – il testo per la possibile modifica della legge elettorale messo a punto dai relatori Lo Moro (Pd) e Bruno (Pdl).

da Europa Quotidiano 29.10.13

“La politica dei Vaffa”, di Gad Lerner

Non a caso Beppe Grillo scatena oggi un attacco diretto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano attraverso un duello personale con il capo dello Stato, individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione europea, il capo dei 5 Stelle punta a amplificare la parola d’ordine su cui ha convocato per il 1° dicembre a Genova il suo terzo Vday: «L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa ». Quel giorno prenderà il via una campagna elettorale il cui scopo è fin troppo chiaro: trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue; e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista. Napolitano è il bersaglio ideale di questa offensiva.
Il manifesto di convocazione del Vday si chiude con l’indicazione di questo obiettivo: «Vogliamo vincere le prossime elezioni, a iniziare da quelle europee». Non si tratta di una boutade, ma di un calcolo che tiene conto anche del sistema proporzionale con cui si voterà nel maggio 2014. Grazie ad esso, vi sono ragionevoli possibilità che una campagna elettorale impostata sulla contrapposizione “Europa sì – Europa no” veda imporsi come partito di maggioranza relativa la formazione grillina. Che confida di avere buon gioco nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale.
La stessa contrarietà dichiarata da Grillo all’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, conferma questo suo proposito: vuole assecondare la sindrome da invasione straniera, impersonata altrove dai partiti populisti e xenofobi antieuropei, per offrirsi così come punto di riferimento all’elettorato di destra in libera uscita. Punta anche lì a fare il pieno di voti. Ma ben oltre tale corrività strumentale, il progetto di Grillo è ambizioso: esso mira infatti a una clamorosa bocciatura per via elettorale di quegli “stupidi” parametri con cui, vent’anni fa a Maastricht, si diede vita a una Unione prima finanziaria e monetaria che politica; parametri inaspriti ulteriormente, sotto i colpi della recessione, con i vincoli di bilancio pretesi dalla cancelleria di Berlino e con il rubinetto della liquidità creditizia gestito dalla Banca Centrale di Francoforte.
Grillo sa di riscuotere vasto consenso quando parla di «tributo di sangue» imposto dall’Europa all’Italia. Nella sua propaganda, «Imu, Iva, Tarsu, Tares, Trise sono il frutto della religione dell’austerità ». Poi, nel 2016, entrerà in vigore il Fiscal Compact, col quale «siamo condannati a trovare ogni anno 50 miliardi per i prossimi vent’anni». Senza peraltro che ciò garantisca il ripianamento del nostro debito pubblico.
Ecco l’argomento anti-Ue grazie a cui Grillo confida di imporsi come maggioranza relativa in Italia: le enormi cifre che l’Europa ci impone di versare, da sole «basterebbero a riavviare la nostra economia e a fare del nostro Paese uno Stato florido». Dunque l’Europa sarebbe un impedimento anziché la levatrice della nostra rinascita.
Demagogia? Non c’è dubbio, ma efficacissima. Tanto più se la mettiamo a confronto con la confidenza sfuggita alla Sorbona di Parigi, venerdì scorso, al nostro primo ministro Enrico Letta: «Dirò qualcosa di impopolare, ma se non avessi avuto lo scudo comunitario, non avrei potuto dire no a chi in Italia faceva pressione per aumentare il debito».
Mi chiedo se, oltre che “impopolare”, quella di Letta non sia anche una dichiarazione d’impotenza. Lo stesso argomento, peraltro, fu usato in pubblico da Berlusconi nell’estate 2011, quando si rallegrò di aver ricevuto per lettera dalla Bce l’imposizione di provvedimenti che il suo governo altrimenti non sarebbe stato in grado di varare.
Qualora la contrapposizione rimanesse così brutalmente semplificata — da una parte Grillo che propone la sconfessione dei trattati europei; dall’altra il governo che si trincera dietro lo “scudo comunitario” pur di non rivedere i vincoli di bilancio — temo che l’esito delle elezioni europee sia segnato: col partito dell’austerità destinato alla sconfitta, Renzi o non Renzi. Più difficile è immaginare quali effetti traumatici sortirebbe, su tutta l’Unione, la vittoria di un movimento antieuropeo in un grande Paese come Italia.
È per questo che oggi appare così drammatica l’irrilevanza cui sembra condannato il progetto sociale e politico di una sinistra europeista.
Viviamo un passaggio storico cruciale in cui sembrerebbe che l’Europa dei cittadini indebitati, dei giovani disoccupati, del ceto medio impoverito, del Quinto Stato in cui confluiscono milioni di lavoratori parasubordinati, autonomi, precari, possa trovare solo nel populismo nazionalista uno sbocco politico al suo malessere.
Non solo. Viviamo anche un passaggio generazionale. Dopo l’europeismo dei padri fondatori, dopo la visione sociale di Delors e Prodi, dopo il cosmopolitismo sessantottino dei Cohn-Bendit, Langer, Fischer, Michnik, è come se ci fosse un vuoto di cultura della cittadinanza e del comune destino europeo. Ancor più evidente in Italia.
La personalità più riconosciuta sul piano continentale della sinistra italiana, Giorgio Napolitano, nella sua veste di garante istituzionale, è divenuto il principale interlocutore dei partner dell’Unione, e come tale appare proteso in un faticoso impegno di salvaguardia degli architravi comunitari vacillanti, che non offre margini di manovra. Non a caso privilegia il rapporto con il governatore Draghi. Ma nel frattempo chiunque da sinistra, con finalità di giustizia sociale, adombri una revisione dei trattati e un allentamento della politica di bilancio, rischia l’accusa di sovversivismo. Neanche l’appello del Gruppo Spinelli del Parlamento di Strasburgo, primi firmatari Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt, «per una rivoluzione post-nazionale in Europa», ha finora trovato sostenitori in Italia. Esso afferma che «gli Stati nazionali hanno avuto un ruolo molto importante nella civilizzazione europea ma adesso sono superati». Contrappone al nazionalpopulismo dilagante l’attualità degli Stati Uniti d’Europa. Individua nella Grecia e nel suo dramma l’epicentro su cui rifondare una nuova comunità di destino europeo. Qualcuno gli darà retta?
Sarebbe prezioso che in campagna elettorale emergesse una visione europeista disincagliata dai parametri di Maastricht e dal Fiscal compact: unica vera alternativa al catastrofismo no-euro di Grillo, nutrito dai fallimenti di una tecnocrazia che s’illude ancora di trovare riparo dietro allo “scudo comunitario”.

La Repubblica 29.10.13

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“Flop in Trentino, M5S al 5 per cento. Trionfo centrosinistra. Alto Adige, Svp perde la maggioranza assoluta”, di ANDREA SELVA

Crollano i partiti del centrodestra tradizionale, a picco il movimento 5Stelle, vince la voglia di autonomia. Ecco il risultato del voto in Trentino Alto Adige dove la Svp (il principale partito di lingua tedesca) governerà la Provincia di Bolzano con Arno Kompatscher nonostante la perdita, per la prima volta, della maggioranza assoluta. Sarà lui a raccogliere l’eredità di Luisi Durnwalder, mentre il candidato del Partito autonomista trentino tirolese (Ugo Rossi, alla guida di una coalizione di centrosinistra) ha vinto le elezioni con una percentuale addirittura superiore a quella dell’ex governatore Lorenzo Dellai: oltre il 58 per cento. Gli elettori (che in Trentino sono calati del 10 per cento) hanno scelto la continuità. Fa notizia invece il crollo delle liste di Berlusconi a cui non ha giovato il cambio del nome: Forza Trentino e Forza Alto Adige (così si chiamavano le due liste in campo) si ritroveranno nelle due province
con un solo consigliere: 2,5 per cento in Alto Adige, 4 per cento a Trento. Una disfatta. Micaela Biancofiore da Bolzano ammette la sconfitta e le responsabilità: «Un risultato sconfortante, l’astensionismo italiano in provincia di Bolzano si spiega anche con la mia destituzione dalla carica di sottosegretario». È finita con cinque soli candidati di lingua italiana in consiglio provinciale, nonostante il buon risultato del Pd. Fuori dal consiglio provinciale altoatesino anche la biondissima candidata di lingua svedese, Marie Måwe, che per candidarsi (e ricevere oltre 6mila preferenze) era riuscita a ottenere la cittadinanza italiana a tempo di record. Il Trentino ha invece dato grandi soddisfazioni al Pd: primo partito della Provincia con il 22 per cento, davanti agli autonomisti (17,5%) e alla lista dell’Unione per il Trentino che portava ancora il nome di Dellai ma che si è fermata al 13 per cento. L’ex governatore – ora capogruppo di Scelta Civica alla Camera – la vede così: «È stata premiata la stabilità politica». Intanto l’ex super assessore Silvano Grisenti – in passato braccio operativo proprio di Dellai – rientrerà in Consiglio provinciale dopo una condanna per truffa, forte di oltre 7mila preferenze. La Lega (che a Bolzano è completamente sparita) a Trento vede dimezzati i propri consiglieri. Il Movimento 5 Stelle nelle province autonome non sfonda, ma si ferma a percentuali minime con un consigliere a Bolzano (2,5 per cento) e due consiglieri a Trento (5 per cento, prese il 20,8 alle politiche). E dire che Grillo pochi giorni fa ne aveva previsti tre o quattro, ma aveva comunque anticipato il risultato: «Qui non possiamo farcela».

La Repubblica 29.10.13

“Il suicidio politico di Mario Monti”, di Franco Monti

Ora è persino troppo facile infierire su Mario Monti all’insegna della vecchia massima “chi è causa del suo ma…..”. Se egli avesse dato ascolto ai tanti, a cominciare da Napolitano, che gli sconsigliavano di farsi parte tra le parti, di dare vita all’ennesimo, piccolo partito, avrebbe potuto preservare il suo profilo apprezzato di tecnico e di riserva della Repubblica. La sua parabola e l’epilogo di uomo sconfitto e rancoroso suggeriscono qualche spunto di riflessione. In primo luogo, la consapevolezza che la politica vanta una sua autonomia e specificità, che essa, weberianamente, presuppone una «vocazione» che palesemente Monti ha mostrato di non avere. Di qui i suoi limiti e i suoi errori, di cui poi è caduto vittima. Penso alla fallace idea che la cura per la polis tutta si risolva nel sapere tecnico ed economico, mentre essa esige anche altre attitudini tipo il gioco di squadra (la politica è azione collettiva), la ricerca del consenso, il governo delle relazioni con persone e forze politiche. In secondo luogo, anch’egli è incappato nella mitologia del centro e della terzietà. Nella convinzione cioè che quasi magicamente la verità e il bene stiano per definizione nel mezzo. Ignorando due circostanze: a) che il centro e il mezzo sono concetti relativi in rapporto agli estremi, i quali non possono essere dogmaticamente assimilati (Pd e Pdl non possono essere messi sullo stesso piano da un sincero cattolico liberale); b) che molti altri politici prima di Monti e più scafati di lui hanno vanamente provato a dare vita a operazioni centriste con i risultati che conosciamo. Da Martinazzoli a Cossiga, da D’Antoni-Andreotti a Casini. La stessa conduzione personalistica di Scelta civica e l’impressione trasmessa in più di un passaggio di privilegiare le proprie mire a questa o quella alta postazione (si pensi alla presidenza del Senato cui irritualmente aspirò dopo il voto essendo ancora premier in carica e che costrinse Napolitano a suggerirgli energicamente che non era il caso; senza prendere per buone le indiscrezioni da lui smentite della richiesta a Prodi dell’impegno a conferirgli l’incarico di formare il governo in cambio del voto di SC per il Quirinale), più che alla sua ambizione, sono ascrivibili al suo approccio impolitico alla politica e alle istituzioni. C’è poi la sottovalutazione dell’esigenza di dare a un aspirante partito una base ideologica e programmatica minimamente riconoscibile, che non si risolvesse nella celebrata «agenda Monti». Cioè in un contingente programma di un governo di emergenza sorretto da una «strana maggioranza» e definito sin nel titolo da un nome proprio, il suo. Insomma l’ennesimo partito personale, guidato da una personalità di rilievo ma – Monti non ce ne voglia -, a differenza di altri leader di partiti personali, priva di carisma. Infine, la visione di Monti, ancor prima del suo ingresso in politica, rivela un altro limite: è l’idea che un governo audacemente riformatore esiga le larghe intese. Una idea ingenua e infondata. È vero il contrario. La larghe intese più facilmente scontano i piccoli compromessi. Semmai un governo sorretto da una base politica omogenea e dotato di un respiro lungo è più attrezzato per operare effettive, concrete riforme di sistema coerenti con una visione. Al fondo di tale equivoco sta la genericità del concetto di governo riformatore. Non si danno vere riforme neutrali. Spetta alla politica – e più esattamente alle forze politiche in cui si articolano i regimi democratici – declinare la direzione, il senso, il sistema di valori di riferimento del riformismo che si intende praticare. Nel caso nostro, per stare al concreto, Monti non può pretendere che il Pd si possa contentare del suo riformismo di stampo liberale e tecnocratico. L’ambizione del Pd, partito di centrosinistra, è più alta. Tantomeno egli può confidare in un partito, il Pdl, retto da un leader populista nonchè imprenditore oligopolista, l’opposto del paradigma liberale.

Su un punto invece si può comprendere l’amarezza e il disappunto di Monti a fronte della disinvoltura con la quale taluni professionisti politici, «navigatori» di un centro mobile incline al trasformismo si sono serviti di lui per veleggiare ora verso un rapporto privilegiato con il Pdl. Monti ha ragione a denunciare la strumentalità e la contraddizione di chi da un lato lo accusa di un eccesso di criticismo verso il governo Letta e dall’altro si avvicina a un Pdl tuttora non deberlusconizzato che, a giorni alterni, minaccia la crisi. Una operazione che, come primo atto, potrebbe contemplare un aiutino a Berlusconi nel voto sulla sua decadenza, che tuttavia, nel medio periodo, si propone di accelerarne l’emarginazione politica dentro un nuovo centrodestra. Dunque una operazione spregiudicata e ambiziosa (non a caso c’è anche lo zampino di Cl) scandita in te stadi: che, semplifico, oggi mette sotto Monti, domani Berlusconi e dopodomani potrebbe scheggiare lo stesso Pd. Non sorprende che Monti, per sua ammissione dilettante della politica, faccia fatica a darsene una ragione.

L’Unità 28.10.13

“L’effetto Pompei non basta più il turista straniero dimentica il Sud”, di Luisa Grion

Tanto patrimonio e tanto spreco. L’Italia, si sa, non è capace di far fruttare la sua cultura, arte, bellezza, ma quella che per il Paese è una grande occasione perduta, per il Sud diventa un autentico delitto. La crisi sta allungando le distanze fra le due aree, ma la leva che potrebbe aiutare a ridurle resta inutilizzata. Nel Meridione, infatti, si concentra il 48 per cento dei musei, siti archeologici, monumenti presenti sull’intero territorio nazionale, ma tanta beltà produce il 24,8 per cento appena dei redditi del settore. Ventotto milioni lordi su un totale di 113 con il 75 per cento degli incassi concentrato fra Ercolano, Pompei e la Reggia di Caserta. Poco più che briciole rispetto alle potenzialità. E visto che, almeno a parole, tutti sono d’accordo nel dire che senza cultura non ci sarà ripresa né sociale né economica, il guaio è grosso.
Tanto che per discuterne l’Università di Bari e Federculture (l’associazione di settore degli enti pubblici e privati), daranno vita domani ad un convegno dove, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del ministro Massimo Bray si cercherà di approdare a «nuove strategie» partendo dai dati.
Il quadro, secondo la ricerca presentata da Roberto Grossi,
presidente di Federculture, è nero e le abitudini da cambiare sono tante: è vero, per esempio, che in Italia le biglietterie dei musei incassano molto meno di quanto dovrebbero, ma è altrettanto vero che il 35 per cento dei visitatori entra gratis. E al Sud la media raggiunge la vetta del 41,7 per cento. Nel 2012, per la prima volta negli ultimi dieci anni, le famiglie hanno ridotto le spese culturali, ma nel Mezzogiorno il crollo arriva da lontano e non è legato solo alla congiuntura economica. Negli ultimi quindici anni, infatti, nei siti culturali italiani c’è stato un aumento medio del 30 per cento nella presenza di visitatori, ma rapportata solo alle regioni meridionali quella percentuale è pari allo zero.
I turisti stranieri sempre più spesso si fermano a Roma e Firenze: certo i trasporti non aiutano, ma fa comunque effetto vedere che tutte le regioni del Sud messe assieme generano un numero di arrivi dall’estero inferiore a quelli della sola Toscana (7,2 milioni contro 7,8). Nel 2012 in Calabria sono arrivati solo 220 mila stranieri, contro i 20 milioni della Lombardia attratti, certo, anche dal ramo business. Enorme il ritardo dell’industria culturale che nel Sud produce poco più di 12 miliardi di euro in valore aggiunto controi quasi 27 del solo Nord-Ovest.
La domanda interna non va meglio di quella esterna: gli abitanti delle regioni del Mezzogiorno (sicuramente anche per motivi di reddito) vanno meno al cinema, nei musei, a teatro e ai concerti rispetto alla media del Paese. Anche per quanto riguarda la scuola il Sud sta messo peggio: nonostante la spesa pubblica per istruzione sia più alta rispetto alla media del Paese (6,4 per cento del Pil contro il 4) il tasso di abbandono scolastico è più alto (ben il 21,2 per cento contro il già eccessivo 18,2). Un’“eccellenza” in realtà sopravvive: nelle regioni del Mezzogiorno i residenti che leggono da 1 a 3 libri l’anno sono il 56,8 per cento, contro una media nazionale del 46 (ma nel Nord-Ovest si scende sotto): un paese unito verso il basso.

La Repubblica 28.10.13