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“L’Italia in ritardo cambi marcia sull’innovazione”, di Carlo Buttaroni

In Italia la spesa per ricerca e sviluppo rappresenta l’1,3% per cento del Pil, un valore assai distante da quello dei Paesi europei più avanzati. Investiamo molto meno di Francia, Slovenia e Belgio; meno di Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda, Estonia Portogallo, Repubblica Ceca, Lussemburgo e Spagna. Per non parlare dei più virtuosi: Svezia, Danimarca, Germania e Austria investono in R&S più del doppio, la Finlandia più del triplo. Siamo lontani dai Paesi-locomotiva dell’innovazione anche per quanto riguarda la quota di imprese che innovano, di addetti in ricerca e sviluppo e di intensità brevettuale. Investiamo poco per l’istruzione e la formazione e siamo in fondo alla classifica per nu- mero di laureati in discipline tecnico-scientifiche.Stiamo accumulando un ritardo via via crescente, tagliati fuori dal potente effetto schumpeteriano di «distruzione creatrice», che evidenzia l’importanza della nascita di nuove strutture economiche sulle ceneri di quelle antiche.

È ciò che sta accadendo. Le maggiori economie cercano di far vivere ai loro Paesi la crisi come un’opportunità, dando una forte spinta al cambiamento e preparandosi a cogliere le nuove ondate scientifiche e tecnologiche, mentre in Italia i numeri dimostrano che si sta procedendo in senso opposto. Nel 2011, gli investimenti sono crollati dell’1,6% a causa dei tagli nel settore pubblico, nelle università e nelle imprese. Col risultato che, rispetto alla media europea e agli obiettivi di Lisbona (3% del Pil destinato alla ricerca con i due terzi della spesa derivante dagli investimenti del settore privato), in Italia il settore pubblico investe poco e quello privato contribuisce ancor meno.

I LIMITI POSTI DALLA MICRO IMPRESA
In parte questo dipende dalla particolare struttura economica dell’Italia, costituita da una ragnatela di micro, piccole e medie imprese che spesso associano il concetto di ricerca a quello di alto rischio e di non rientro dell’investimento. Una gran parte delle imprese italiane, operano su mercati limitati a un perimetro regionale, più spesso comunale, e anche per questo sono poco propense a fare investimenti competitivi. C’è poi la scarsa propensione del sistema del credito a finanziare progetti d’innovazione o volti all’apertura di nuovi mercati. Per quanto riguarda le grandi imprese, la crisi finanziaria e le nuove logiche di mercato – fondate sul breve termine e sulla liquidità immediata – hanno portato a una riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo. Un calo che, a cascata, ha portato a una netta diminuzione del personale impegnato, alimentando così la migrazione dei cervelli.

In Italia non solo s’investe poco, ma manca anche una strategia di sistema. Perché se la ricerca ha, innanzitutto, l’obiettivo di costruire un patrimonio crescente di conoscenze da trasferire al sistema in modo da renderlo competitivo, questo non può avvenire senza un tessuto linfatico in grado di armonizzare e rende- re efficiente il rapporto tra investimenti ed effetti delle attività stesse di ricerca. Non è automatico, infatti, che la ricerca generi innovazione e che quest’ultima, a sua volta, generi competitività. Tale risultato si può ottenere solo con una strategia complessiva, dove l’equazione del successo è data da ricerca, innovazione e competitività che crescono in equilibrio con i bisogni individuali e collettivi del Paese, dando contenuto alle azioni da svolgere e ai percorsi da intraprendere. Il trasferimento delle conoscenze non può essere ricondotto semplicemente a un modello teorico sequenziale, che vede il primo passo nel- la ricerca di base, cui fanno seguito l’ingegnerizzazione e, infine, le applicazioni.

Oggi si richiede un processo d’innovazione molto più articolato, che pre- veda un dialogo costante fra il mondo della ricerca e le imprese, in primo luogo facilitando la nascita di programmi concertati con i futuri utilizzatori della ricerca stessa. Occorre troncare alla radice il problema del trasferimento delle conoscenze, perché nel momento in cui la ricerca è fatta insieme a tutti gli attori, nasce «trasferita». Vanno, quindi, risolti tutti quei difetti strutturali che caratterizzano la ricerca nel nostro Paese e ostacolano le opportunità di costruire un «sistema di ricer- ca e sviluppo» organicamente efficiente. Bisogna, quindi, rovesciare la logica che porta a osservarla con una messa a fuoco solo sui soggetti, orientandola, invece, sull’oggetto, con una visione politico-strategica che ha come obiettivo i mercati e lo sviluppo del Paese. Un approccio che permetterebbe di programmare l’attività per commesse strategiche, con una netta distinzione fra il ruolo di committente (la domanda del mercato) e quello di esecutore (l’offerta del mercato) e faciliterebbe le collaborazioni con terzi su scala nazionale ed europea, in un quadro programmatico definito di responsabilità specifiche e risultati attesi.

Fare sistema significa, innanzitutto, puntare sulla costruzione di una rete tra settori produttivi e competenze scientifiche, in grado di rendere l’Italia competitiva in sede internazionale e all’interno dello spazio comune euro- peo della ricerca. È proprio dalle nostre eccel- lenze che può scaturire quella spinta propulsiva che oggi manca e che ci sta allontanando sempre più dalle economie avanzate. Il tema della ricerca è centrale, incrocia il futuro e ha bisogno, per dare i suoi frutti, di tempi più lunghi di una legislatura o della durata di un governo.

Solo i Paesi che si saranno preparati alla sfida del «dopo-crisi», attivando sin da ora opportune politiche di rilancio della ricerca e dell’alta formazione, potranno trarre vantaggio dalle nuove opportunità che si dischiuderanno. Può esse- re proprio questo, per il nostro Paese, il risvolto non negativo della crisi, soprattutto se l’Italia saprà orientarsi verso un «modello di ricerca e sviluppo» in grado di dare sostanza e valore alle molte potenzialità in dotazione. Per fare questo c’è bisogno di «lenti bifocali» che permettano di guardare agli effetti immediati della crisi, senza perdere la visione prospettica sui cambia- menti nella società, nell’economia e nel sistema mondo. Occorre, cioè, un piano orientato su obiettivi strategici, che attraverso interventi specifici e con un’opportuna allocazione delle risorse, faccia recuperare all’Italia il terreno perduto, rendendolo un «sistema Paese» a prova di futuro.

L’Unità 28.10.13

“La leadership e l’evoluzione del Pd”, di Giancarlo Bosetti

La distanza maggiore tra i contendenti alla guida del Pd riguarda, prima e più delle persone e delle politiche, l’idea stessa del partito. Si capisce dai documenti congressuali depositati e ancora meglio dalle battute: «Leadership non è una parolaccia» (Renzi, chiudendo la Leopolda). E dall’altra parte: «Non vogliamo diventare un comitato elettorale». E ancora: «No a un primattore come dirigente», «Aprire le primarie alla destra è come far scegliere l’amministratore di un condominio a quelli di un altro condominio ». Queste ultime tre lamentele indicano la sofferenza e il rigetto di quel che sarebbe invece indispensabile in un sistema bipolare: rispettivamente l’uso del partito come “mezzo” per vincere le elezioni, la centralità personale del leader-premier, la necessità di prender voti fuori dal recinto ereditato e di “rubarli” agli avversari.
Le distanze qui tra il sindaco di Firenze e gli altri sono abissali e descrivono una forma politica che sta attraversando una profonda crisi, che sarà evolutiva nel caso migliore, e autodistruttiva in quello peggiore. Si tratta dell’evoluzione, tardiva per il Pd (doveva cominciare nel 2007, con il discorso di Veltroni al Lingotto, se non prima), che va dal partito organizzativo di massa, nella sua forma classica, europea, novecentesca, al partito elettorale (pure di massa) e pigliatutto; evoluzione complicata e aggravata dal passaggio fallito, tutto italiano, da un quarantennio proporzionalista a un incompiuto e disfunzionante bipolarismo.
Quelle che si fronteggiano in modo più o meno esplicito sono ambizioni di candidati leader che interpretano, tutti, un desiderio di rinnovamento, che non sempre fa però i conti con il tempo e il contesto in cui si svolgerà la battaglia.
Vero che le prossime regole elettorali sono ancora ignote, e ignota è soprattutto la quantità di proporzionalismo che rimarrà in campo, ma quelle ambizioni di rigenerazione (intellettuale, morale e persino “cognitiva”) sono smisurate, a meno che non si ritorni senza riserve alla Prima Repubblica, un’epoca in cui il Pci, cui era comunque preclusa la conquista della maggioranza, poteva coltivare in grande la sua “autonomia” ideologica insieme alla vocazione pedagogica. Parlare oggi, come si fa, di “autonomia” e di “condomini” elettorali è un nonsense, se si vuole, come si dovrebbe, un partito capace di «prender voti in tutte le direzioni» (Renzi), obiettivo che è, ed era, invece un nonsense in un’elezione proporzionale pura.
Altro che disprezzo per i partiti- comitati elettorali, come se questa funzione democratica e costitutiva della loro ragion d’essere fosse un optional. Forse andava detto subito, nel 2007, che decidere di fare un partito a vocazione maggioritaria in un sistema bipolare significava adottare mentalmente l’art. 1, sez 1, della Carta fondamentale dei Dems americani: «Il partito nomina e sostiene i suoi candidati per la elezione di Presidente e Vicepresidente degli Stati Uniti». È l’essenza della cosa, circondata poi, certo, da molti importanti dettagli. Ma nell’attuale battaglia dentro il Pd è tuttora corrente il rifiuto della leadership personale come arma decisiva per la vittoria elettorale. Lo dice bene con il linguaggio affilato delle scienze politiche, Mauro Calise, nel suo (Fuori gioco, La sinistra contro i suoi leader, Laterza, 2013): il Pd si è popolato in questi anni di “microleader”, attraverso le logiche elettorali dei vecchi partiti, attraverso il notabilato delle preferenze e poi le fusioni; e ha sviluppato una straordinaria resistenza contro le “macroleadership”, come se la personalizzazione delle grandi battaglie politiche non fosse altro che un vizio della destra di Berlusconi, dunque da evitare.
Neanche l’“assalto al cielo” della leadership dei “net-citizens” da parte di Beppe Grillo è bastato a suonare l’allarme. Il Pd è rimasto «l’unico partito impersonale » sulla scena (come ha scritto qui Ilvo Diamanti) e continua, in diversi suoi dirigenti, a piacersi così, anche se è ormai prova provata che spalmare la leadership sulla “collegialità” dei microleader, magari nel nome della “ditta”, è una scelta perdente. Gli elettori da conquistare sono tutti evidentemente fuori della ditta. Non lo decide una ragione morale o politica qualsivoglia, ma la natura stessa della competizione bipolare, in cui la leadership non si manifesta nell’influenza interna, ma soprattutto in quella esterna. I voti sono potenzialmente dell’avversario, se il mio leader non ingaggia il duello per la loro conquista in campo aperto, e assumendosi personalmente tutto il rischio della contesa.
Anche nelle visioni più accorte e sofisticate, come in quella di Fabrizio Barca, che rifiutano legittimamente un “partito liquido” in favore di un “partito palestra”, capace di bene organizzare la discussione, di mettere in atto lo sperimentalismo democratico come pratica di confronto e controllo delle politiche, si immagina un partito «interfaccia tra società e governo», capace di agire e integrare la funzione di una pluralità di associazioni: fisionomia intellettuale e omogeneità di intenti molto ambiziose (e quanto realistiche?) nella competizione bipolare. Il partito elettorale di massa, sotto una guida forte e personale, può anche avere un corpo relativamente articolato e con un mosaico di componenti diverse. Correnti e gruppi di pressione ci sono anche nei partiti americani, come in quelli inglesi o tedeschi, di destra e sinistra. Ma funzionano e vincono, come contenitori elettorali (espressione non offensiva, vero?) se riescono anche ad apparire agli elettori da conquistare come una scelta preferibile a quella degli avversari, un dignitoso e concreto “meno peggio”.
Nelle mozioni congressuali del Pd che diffidano di una leadership troppo “macro” c’è molto comprensibile orgoglio e desiderio di recuperare «la nostra autonomia culturale», e c’è anche molta guardinga difesa dai «modelli stranieri». Non è difficile vedere dietro tutto questo il rischio di affrontare un duello elettorale contro la destra con spade di latta (già visto), oppure il non detto di uno sfrenato desiderio di tornare alla scacchiera proporzionale della prima Repubblica.

La Repubblica 28.10.13

“Atenei, in pochi possono assumere Bari e Napoli perdono più prof”, di Gianna Fregonara

Si tratta dell’assunzione di poco più di 400 docenti universitari che per quest’anno dovranno sostituire i 2.300 professori che sono andati in pensione. Ma si sta trasformando in una vera e propria guerra degli atenei pugliesi e sardi contro il Nord e contro il ministro Maria Chiara Carrozza. In mezzo la Crui, la conferenza dei rettori, che con il suo presidente Stefano Paleari cerca di riportare la calma. Il tutto in un groviglio di norme che si sono succedute dal decreto Tremonti, che nel 2009 impose i primi tagli consistenti all’Università, passando per la spending review di Monti approvata l’anno scorso. E già si parla di ricorsi al Tar. Mentre i politici pugliesi sono sul piede di guerra, pronti a difendere le loro università che risultano, secondo i criteri applicati nell’ultima ripartizione delle assunzioni, le meno virtuose e dunque le più penalizzate nel ricambio dei docenti.
«In linea di principio sono i conti che governano il reclutamento e non il contrario — spiega Stefano Paleari invitando a guardare avanti, al fatto che dall’anno prossimo, per la prima volta da cinque anni, non ci saranno tagli — capisco le reazioni a caldo, ma abbiamo chiesto al ministero di valutare la questione dell’organico e delle assunzioni sul biennio, visto che il ministro Carrozza ha stabilito che l’anno prossimo il turn over potrà salire al 50 per cento dandoci un po’ di fiato in più».
«Dal ministero si rimangeranno tutto», protesta uno dei rettori finito in fondo alla classifica 2013: come i colleghi di Bari e di Foggia sta studiando le contromosse per riaprire la classifica. Il rettore di Sassari Attilio Mastino non accetta che la sua università sia tra le meno virtuose: in realtà quest’anno — poiché si potrà comunque sostituire solo il 20 per cento dei pensionati — invece di poter assumere 4 persone ha diritto a 1,5 nuovi professori: «Ma non è questione di cifre, è questione di principio: ho fatto un grande risanamento e la mia università è leggermente fuori dai parametri perché mentre io risanavo ci tagliavano i fondi».
Dal 2009 effettivamente i finanziamenti alle università sono diminuiti da 7 miliardi e mezzo a circa 6,5: facendo i conti a spanne è come se ogni cittadino spendesse per l’università 100 euro («meno del canone», conteggia Paleari), in Inghilterra se ne spendono 150, in Francia e Germania 300.
Quest’anno sono stati stanziati 150 milioni per il diritto allo studio e altri 41, nel decreto che oggi approda in aula alla Camera, per gli atenei che secondo la graduatoria dell’Anvur sulla ricerca (la nuova valutazione sullo stato della ricerca nelle singole università conclusa l’estate scorsa) hanno avuto i risultati migliori. Ma i tagli previsti dal decreto Tremonti del 2009 sono arrivati oltre i 300 milioni: «L’anno prossimo se la legge di Stabilità sarà approvata, i tagli saranno azzerati — spiega ancora Paleari — e speriamo che ci sia anche il piano per i ricercatori che è la questione che in questo momento mi preoccupa di più».
«I finanziamenti del 2013 però sono arrivati a fine anno — spiega il rettore dell’Università di Padova Giuseppe Zaccaria —, come facciamo a fare programmi? Un mio collega austriaco, tanto per fare un esempio, mi ha spiegato che da loro la programmazione e i fondi sono triennali, questo ci permetterebbe di ragionare a più lunga scadenza».
Ma in attesa di capire se il piano per i ricercatori davvero arriverà e se i finanziamenti potranno essere destinati in primavera invece che a fine anno, per ora i rettori si misurano sulle assunzioni. «È una strategia lucida e diabolica, vogliono chiudere le università del Sud», ha dichiarato il rettore di Foggia Giuliano Volpe. «È un clamoroso abbaglio, è folle, si vogliono creare gli atenei di serie A mentre gli altri vengono lasciati morire», incalza il collega della Aldo Moro di Bari Corrado Petrocelli.
La disparità nei «punti» percentuali guadagnati dai diversi atenei è molta: si va dagli oltre 200 del Sant’Anna di Pisa (scuola tra l’altro di cui Carrozza è stata rettore) e della Normale, agli 80 di Bergamo, ai 6-8 dei meno virtuosi, come la Seconda università di Napoli: lo scorso anno c’era un tetto (eredità della legge Tremonti) che in qualche modo diminuiva le distanze correggendo le differenze, ma quest’anno non c’è più. Ed è su questo punto che è pronta la battaglia giuridica. Sono al lavoro gli esperti delle varie università, e dal ministero ieri è arrivata una nota di spiegazione.
«Il governo Monti preferì non inserire una soglia per le penalizzazioni», si è difesa Carrozza che non ha però fatto sconti: «Smettiamola di dire che gli atenei del Sud hanno avuto meno risorse. Ci sono atenei che hanno fatto un ottimo risanamento, che su ricerca e reclutamento hanno puntato tutto sulla qualità, ma ce ne sono altri che hanno lavorato meno bene e non possono pretendere la stessa attenzione».
«È a rischio una generazione di ricercatori — si lamenta Mastino, il rettore di Sassari —, noi dovremo chiudere dei corsi di laurea se non si aumenterà il turn over ». A sostegno degli atenei pugliesi si è schierato il governatore Nichi Vendola (Sel) ma anche i parlamentari del Pdl: «È a in corso un tentativo di cancellazione della cultura del Mezzogiorno», ha protestato Vendola.
«Gli atenei del Sud negli ultimi anni hanno avuto un piano speciale di aiuti con oltre 1,8 miliardi stanziati — ribatte Zaccaria da Padova —. Certo che i vincoli della spending review sono pesanti ma bisogna che tutti compreso il Sud facciano una politica di assunzioni saggia». Anche Padova non è tra i migliori per il bilancio: «Non mi lamento. Abbiamo dovuto contrarre dei mutui, sempre nei limiti imposti, perché non abbiamo ricevuto abbastanza fondi, ma la mia politica è rimboccarsi le maniche».

Il Corriere della Sera 28.10.13

“Rai privata? No grazie”, di Carlo Rognoni

Il presidente della Rai alza il telefono e chiama: «Fabrizio, sono Anna Maria. Spero di non disturbarti. Ma che ti è venuto in mente l’altra sera di dire che stai pensando anche a una possibile privatizzazione della Rai? Ti rendi conto che hai sollevato un vespaio?»
Dall’altro capo del telefono di Anna Maria Taran- tola, ex dirigente di Bankitalia, da poco più di un anno presidente della Rai, c’è Fabrizio Saccomanni, anche lui ex dirigente di Bankitalia, oggi ministro del Tesoro. Tra i due ex colleghi ci sono da sempre rapporti di stima e amicizia: «Vedi Anna Maria è Fazio che mi ha tirato dentro. D’altra parte come potevo escludere la Rai da un generi- co impegno del mio ministero per le privatizzazioni possibili di tutte le aziende di cui siamo azionisti? Animati come siamo, con il governo Letta, a dare una mano alla riduzione del debito pubblico non possiamo a priori escludere nulla. Non ti preoccupare, tuttavia. Ho anche detto che la televisione pubblica resterà». «Già, e che cosa hai voluto dire? che pensi a una privatizzazione parziale?»

A «Che tempo che fa», dopo Brunetta ci mancava Saccomanni! Ed ecco un altro colpo basso al servizio pubblico. Il testo della telefonata è totalmente inventato e tuttavia è realistico nel merito se non nella forma.

Proprio nel momento in cui il Parlamento, attraverso la commissione di Vigilanza Rai, è impegnato in una delicatissima discussione sul Con- tratto di servizio 2013 -2015, la dichiarazione del ministro – che è praticamente l’unico azionista, avendo la Siae una modestissima partecipazione – non facilita e non semplifica questo passaggio delicato, che per altro è propedeutico al rinnovo della Convenzione con lo Stato che scade nel maggio 2016. D’altra parte non credo proprio che questo governo abbia la forza di «spacchettare» la Rai e di venderne dei pezzi. Oltre a essere un’idea sbagliata oggi è anche un’idea impraticabile. E allora perché questa uscita? Una provocazione? Per la considerazione che si deve a Fabrizio Saccomanni, mi piace pensare che abbia voluto piuttosto sfidare il top management Rai, affinché esca dalla routine e si senta costretto a immaginare una Rai del futuro. Eppure ci sono tanti e tali segnali che rendono questa interpretazione troppo benevola, poco realistica.

Proviamo a mettere insieme tutti gli indizi che portano a pensare al peggio. Si va da uno studio Mediobanca di qualche mese fa che stima il valore di mercato della Rai (2,5 miliardi di euro). Chi glielo ha ordinato? Non si è mai riusciti a sapere. Come mai Tarak Ben Ammar, finanziere franco tunisino, grande amico di Berlusconi, si è dichiarato – proprio pochi giorni fa – interessato a comprare una rete televisiva, anche della Rai?

Qual è, poi, il senso della battaglia che il vice ministro Catricalà sta facendo (tutto da solo?) sul Contratto di servizio? Vuole imporre alla Rai una divisione per generi in cui «l’intrattenimento» viene escluso dal servizio pubblico. Peggio! Si è inventato l’obbligo per la Rai di segnalare prima, in mezzo o dopo, se il programma in onda è di servizio pubblico. Ed ecco che Ingrid Deltenre, direttore generale dell’Unione Europea delle Radiotelevisioni, ha preso carta e penna e ha scritto alla presidente Tarantola: «Costituirebbe un pericoloso precedente per l’essenza stessa del concetto di servizio pubblico europeo». Si rischia di «aprire la porta a querelle interminabili, sulle sin- gole reti, sui singoli programmi». E poi: «L’unico Paese in Europa in cui qualcosa di simile è stato tentato è Malta. L’esperimento non ha dato i risultati sperati ed ha anzi messo a rischio la stessa esistenza del servizio pubblico».

Ce n’è abbastanza perché in Vigilanza, per lo meno i parlamentari del Pd e di Sel facciano muro e presentino emendamenti chiari e definitivi. Magari dopo una serie di audizioni importanti si potrebbe far capire a Catricalà che sta facendo una battaglia inutile e sbagliata. A meno che davvero la voglia di indebolire il servizio pubblico, di svilirne i contenuti, fino a far trionfare l’idea che in fondo è davvero meglio privatizzare, non faccia parte di un piano segreto inconfessabile. A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca! Dopo tutti questi indizi non ci vuole Sherlock Holmes per pensare all’assassino!

L’Unità 28.10.13

“Il sindaco e il Cavaliere due destini incrociati”, di Ilvo Diamanti

Non è un caso che Berlusconi abbia sciolto il Pdl e rilanciato Forza Italia in coincidenza con la Leopolda. La convention organizzata da Matteo Renzi a Firenze. E non è un caso che la rinascita di Fi sia stata prevista nello stesso giorno delle primarie del Pd. L’8 dicembre. Berlusconi, in questo modo, intende, ovviamente, “trainare” la propria ridiscesa in campo. Utilizzando un evento di successo, in grado di mobilitare milioni di persone.
E l’attenzione dei media, com’è avvenuto un anno fa. Quando, all’indomani delle primarie, i sondaggi attribuirono al Pd stime di voto mai raggiunte, in passato. Ma neppure in seguito, visto il modesto risultato ottenuto alle elezioni di febbraio. (A conferma che le primarie non sostituiscono le campagne elettorali.) A Berlusconi interessa associare le primarie del Pd e il rinascimento di FI. Ma anche le due leadership. Renzi e, appunto, se stesso. In un momento in cui la stella di Renzi è ancora luminosa. Quella di Berlusconi molto fioca, se non proprio spenta. Renzi, d’altronde, non ha parlato di Berlusconi perché intende guardare al futuro. Mentre Berlusconi ha rilanciato, consapevolmente, il passato. Perché tale è FI. Un soggetto politico fondato giusto 20 anni fa. D’altronde, la fine del Pdl sancisce ci ò che, di fatto, era già avvenuto. La scomparsa di An. Il partito post-fascista che aveva rotto con la tradizione fascista, appunto. Guidato da Gianfranco Fini, era divenuto un partito democratico della Destra europea. An, alle elezioni del 2006, aveva ottenuto 4 milioni e 700mila voti, oltre il 12%. FI: 9 milioni e quasi il 24% dei voti validi. Due anni dopo, alle elezioni del 2008, FI e An si erano riuniti dietro alle bandiere del Popolo della Libertà, “inventato” nel novembre 2007, da Berlusconi. Per rispondere (non a caso) alla fusione dei Ds e della Margherita nel Pd, guidato da Walter Veltroni. Il Pdl, in quell’occasione, riuscì a intercettare l’elettorato dei due partiti, oltre 13 milioni e mezzo. E ne rafforzò il peso percentuale: 37,4%. Un percorso concluso, alle ultime elezioni, 8 mesi fa. Nelle quali il Pdl ha perso 6 milioni e 300mila voti e oltre 15 punti percentuali. In altri termini: quasi 2 milioni e oltre 2 punti meno di FI da sola, nel 2006.
Berlusconi, dunque, ha semplicemente preso atto che An è scomparsa, insieme al suo leader, Gianfranco Fini. E ha tentato un “ritorno al futuro”. Allo spirito dei padri fondatori. Cioè, lui stesso. Dietro a questa scelta, c’è, ovviamente, il proposito di “eliminare”, insieme al Pdl, anche i traditori. Ma c’è anche l’intenzione, o almeno la speranza, di saltare sul “carro” di Renzi. Anch’egli, come altri dirigenti del Pd, divenuti, all’improvviso, tutti quanti e tutti insieme, “renziani”. Berlusconi, “renziano” anche lui. Per rientrare in gioco, contro il più “berlusconiano” dei leader del centrosinistra — secondo molti osservatori, non solo critici. A Matteo Renzi, d’altronde, questo inseguimento al contrario, rispetto al passato (quando tutti imitavano Berlusconi), non dovrebbe dispiacere
troppo.
Anzitutto, perché Berlusconi non è certo finito, come dimostra la sua reazione di questi giorni. Ma è, sicuramente, più “vecchio”. In senso anagrafico e non solo.
Poi, perché, comunque, il rafforzamento di Berlusconi significa l’indebolimento di Enrico Letta e del governo di larghe intese. Il vero fortilizio dove agiscono gli oppositori di Berlusconi. Alfano e i ministri: del Pdl, non di FI. Il ritorno di FI, di conseguenza, significherebbe abbandonare al loro destino i ministri del Pdl. Ma anche il governo e il premier, Letta. La cui posizione appare in crescente contrasto con quella di Renzi. Perché, da un lato, Letta è l’unico leader, in Italia, che, per livello di popolarità e di consenso personale, possa competere con Renzi. E, anzi, nelle ultime settimane, sembra averlo superato. D’altra parte, comunque, il tempo gioca a sfavore di Renzi. La lunga durata, alla guida di un partito complesso, come il Pd, rischia di logorarlo. O, almeno, di appannarne lo smalto. «Mai più larghe intese », risuonato più volte ieri alla Leopolda, echeggia dunque come: «Mai più Letta».
Da ciò l’impressione che a Renzi, in fondo, il confronto con Berlusconi non dispiaccia. Perché evoca un modello di democrazia che gli piace e lo favorisce. Fondato sulla “personalizzazione”. Un processo
in atto in tutte le democrazie occidentali. Anche se in Italia è stata condizionata dalla costruzione di “partiti personali”. Cioè, di partiti “privati”, dipendenti dalle risorse — economiche, comunicative e organizzative — di una persona. Per prima e prima di tutti, Forza Italia. Appunto. Il Centrosinistra ha, invece, respinto la “personalizzazione”, interpretando il ruolo del “partito impersonale”. Senza personalità e senza persone in grado di “rappresentarlo”. Nelle mani di “un’armata — poco gioiosa e molto disorganizzata — di micro-notabili” (come osserva Mauro Calise nell’acuminato saggio, emblematicamente intitolato Fuorigioco e appena pubblicato da Laterza).
Per questo la sfida lanciata da Matteo Renzi alla Leopolda non sembra rivolta tanto agli altri candidati, in vista delle primarie. Con i quali non c’è partita. Ma, soprattutto, al Partito Democratico in quanto tale. Cioè: in quanto “partito”, erede di “partiti” — di massa. Non a caso non ha voluto bandiere di “partito”. E ha dichiarato l’intento di “rottamare le correnti”, per prima la propria. Perché ciò che gli interessa, soprattutto, è scardinare la logica del partito. O meglio, dei partiti da cui provengono il Pd, i suoi consensi e i suoi gruppi dirigenti — centrali e locali. A Renzi interessa andare oltre le tradizioni e la storia — di chi “viene da lontano”. Oltre i post-democristiani e, prima ancora, oltre i post-comunisti. In altri termini: oltre il Pd. Per questo, in fondo, le strade di Berlusconi e di Renzi, per quanto percorse in direzione opposta, sono destinate a incrociarsi. Perché Berlusconi torna a FI per andare oltre il Pdl. Per restaurare il “partito personale”. Mentre Renzi intende vincere le Primarie per rottamare il Pd. Insieme a ogni larga intesa e a ogni Mediatore legittimato dal Presidente. Renzi: vuole fare il Sindaco d’Italia. In nome di una democrazia diretta e personalizzata.
Prepariamoci. Dopo il prossimo 8 dicembre nulla resterà come prima.

La Repubblica 28.10.13

“Quella legge dimenticata nei cassetti del Senato”, di Michela Marzano

Decisamente l’Italia non è un paese per omosessuali. Non lo è ancora. E chissà per quanto tempo, in Europa, continuerà ad essere l’ultima della classe in tema di diritti. Non perché negli altri paesi europei tutti siano d’accordo sulla necessità di legiferare sul matrimonio gay e sull’adozione da parte delle coppie omosessuali. Al contrario. Anche in Francia e in Inghilterra, dove pure le coppie omosessuali possono ormai sposarsi, esistono nell’opinione pubblica dubbi e perplessità. In nessun altro paese europeo, però, esistono dubbi sulla necessità di una legge contro l’omofobia. In nome dell’uguaglianza e della libertà di tutti, non si tollera più da molto tempo che alcune persone possano essere discriminate o, ancora peggio, sbeffeggiate o insultate solo perché non eterosessuali. Come è possibile allora che in Italia non si riesca nemmeno ad approvare una legge contro l’omofobia? Perché ancora tanta ipocrisia?
Con la scusa che l’allargamento della legge Mancino agli atti di omofobia potesse mettere a repentaglio la libertà di opinione di alcuni, non solo la Camera ha approvato nel mese di settembre un testo del tutto insoddisfacente, ma questo stesso testo giace oggi al Senato dimenticato, senza che nessuno si preoccupi di metterne la discussone all’ordine del giorno. È come se le discriminazioni degli omosessuali non interessassero più la politica. Come se, di fronte alla crisi economica del Paese, il diritto al rispetto e alla pari dignità di alcune persone (sempre le stesse, sempre i “diversi”) passasse necessariamente in secondo piano. Ma a che cosa serve dichiararsi sconvolti di fronte al suicidio di un ragazzo gay quando non si è poi disposti a riconoscere l’urgenza di legiferare per evitare che tante persone vengano emarginate, insultate, offese e maltrattate proprio perché non eterosessuali? A che serve piangere la morte di un ragazzo quando poi in Parlamento si pretende che una legge contro l’omofobia possa creare nuove forme di discriminazione?
“L’omosessualità non è un diritto”, scriveva qualche mese fa Piero Ostellino sul
Corriere della Sera,
criticando la proposta di legge contro l’omofobia che si discuteva alla Camera. “L’omosessualità è un dato di fatto, uno spicchio della realtà”. E in fondo aveva ragione. Peccato poi che il ragionamento non seguisse le premesse. E che Ostellino, invece di concludere affermando che quello “spicchio di realtà” aveva diritto all’esistenza esattamente come il resto della realtà, concludesse definendo la legge contro l’omofobia “un anacronismo”. Lo sarebbe se gli omosessuali avessero il diritto di vivere come tutti gli altri. Lo sarebbe se nel nostro Paese non esistessero discriminazioni e odio. Ma purtroppo, come mostra quest’ennesimo suicidio, non è cosi. E non lo sarà chissà ancora per quanto tempo.

La Repubblica 27.10.13

“Il valore dell’equità”, di Luca Landò

Ho visto un film. E chi se ne frega, direte voi. Vero, se non fosse che il regista è Robert Reichm ex ministro del Lavoro di Clinton e oggi professore di Economia a Berkeley. Si intitola «Inequality for all» (diseguaglianza per tutti) ed è nelle sale americane dal 29 settembre. Avete letto bene: nei cinema di quello strano Paese proiettano una pellicola che parla di economia e di società, di politica insomma. La tecnica è quella di Michael Moore, con l’autore che gira per gli States a mostrare quello che non va dal punto di vista sociale. Cammina per Wall Street, passa sotto i grandi palazzi del potere che conta, quello economico, mostra tabelle e grafici, va nei sobborghi e nelle periferie, entra negli ospedali pubblici e nelle scuole statali, che non sono la stessa cosa delle cliniche private e dei licei più esclusivi.
E’ un film di denuncia, ma anche di proposta. Perchè il messaggio è chiaro: siamo il Paese più ricco del mondo, dice Reich, ma questa ricchezza è nelle mani di pochi, pochissimi. E quel che è peggio, c’è un partito a Washington che fa di tutto perchè le cose restino così. Se vogliamo cambiarle dobbiamo rimboccarci le maniche, ora e tutti. Fine del film? Niente affatto, perchè le immagini viste in sala (o su un computer, basta scaricarlo) continuano appena esci dal cinema. Sono le code alle mense, sono le fabbriche chiuse, sono i cartelli to rent o for sale davanti a case che nessuno riesce a comprare o affittare.
Non ci vuole molto a capire che quei fotogrammi, cartelli a parte, sono gli stessi che vediamo ogni giorno da noi. E non potrebbe essere altrimenti. Italia e Stati Uniti sono i Paesi industriali con il più alto indice di Gini, un coefficiente che misura il livello di diseguaglianza di un Paese: più alto l’indice, più ampia la differenza tra redditi alti e redditi poveri. In America è intorno al 40, in Italia è più basso, 32, ma è il più alto d’Europa. Dal 2009 a oggi questo indice ha cominciato a crescere, mostrando con i numeri quello che avevamo fiutato col naso: che la crisi ha impoverito la classe media e aumentato la distanza tra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno. Un esito inevitabile? Niente affatto: in Germania lo stesso indicatore è in calo dal 2007.
Il guaio è che le diseguaglianze sociali ed economiche, quando sono così elevate, non sono solo inaccettabili (certo, anche questo) ma sono anche negative dal punto di vista economico. Nel suo ultimo libro Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, non usa giri di parole: «La disuguaglianza uccide il Pil». Perchè quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi, la macchina economica si ferma. Secondo una classifica della Banca mondiale, tra i 50 Paesi con il più alto Pil procapite, i più ricchi sono quelli che hanno anche un maggiore livello di eguaglianza: prima la Norvegia, terza la Danimarca, quarta la Svezia, sesta la Finlandia. E l’Italia? Non pervenuta.
Perché è vero, come diceva Berlusconi premier, che «gli italiani sono ricchi, con un rapporo tra ricchezza delle famiglie e Pil di 6 a 1, maggiore che negli altri Paesi europei», ma come per i polli di Trilussa c’è chi ha tutto e chi niente: il 45% di questa grande ricchezza appartiene infatti solo al 10% dei cittadini, mentre il 50% meno ricco ne possiede solo il 10%. Un paradosso, ovviamente, ma non certo l’unico. Lo scrive Nicola Cacace nel suo bel libro «Equità e sviluppo»: siamo il Paese più vecchio del mondo (età media 45 anni) con la disoccupazione giovanile più alta d’Europa (oltre il 30% contro il 20% europeo); siamo il Paese europeo con meno laureati eppure abbiamo il più alto livello di laureati disoccupati o sottoccupati. E siamo un Paese «congelato» perché da tempo la scuola non è più quell’ascensore sociale di cui si è favoleggiato a lungo: oggi solo il 10% dei figli di operai diventa professionista, mentre il 45% dei figli di medici sono medici, di architetti sono architetti, di ingegneri sono ingegneri. Una paralisi sociale, ingiusta moralmente ma pericolosa strategicamente: perché è anche da questa immobilità che nascono le resistenze del Paese a lanciarsi lungo nuove strade e nuovi mestieri.
Che fare? Gli esperti indicano tre strumenti, tre cacciaviti con i quali assemblare un Paese diverso o quanto meno all’altezza dei tempi: arrestare il declino demografico; favorire l’innovazione; redistribuire più equamente il reddito. Sono questi i quadri che premier, ministri e segretari di partito dovrebbero appendere nel proprio studio. Perché è da questi quadri e da queste cornici che dovrebbero discendere le politiche di risanamento economico e sociale, prima ancora che finanziario.
C’è un ultimo punto. Il 75% dell’occupazione dei cinque maggiori Paesi industriali – Usa, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna – viene dai servizi (turismo, trasporti, istruzione, cul- tura, ecc.) mentre in Italia si arriva a fatica al 68%. E se cominciassimo proprio da qui? Sette punti in meno corrispondono a due milioni di occupati, calcola Cacace. Non sarebbe il caso di fare, seriamente, quello che gli altri Paesi stanno facendo da tempo e meglio di noi? Certo, bisognerebbe puntare sui giovani aiutandoli a formarsi, prepararsi e magari inventare nuovi mestieri e nuovi servizi.
Già, i giovani. La frase più citata degli ultimi dieci anni recita che senza giovani non c’è futuro: altrove è la linea guida di qualunque piano di sviluppo nazionale, da noi sembra un epitaffio di Spoon River.

da L’Unità