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“La fragile armonia d’una politica ambigua”, di Eugenio Scalfari

Un film che consiglio a chi mi legge di andare a vedere, ha un titolo che dice già tutto: “La fragile armonia”. Si tratta d’un quartetto di archi, un primo violino, un secondo violino, una viola e un violoncello. Suonano meravigliosamente, sono tre uomini e, alla viola, una donna, moglie del secondo violino. Tutti amici tra loro, ma quello che ne assiste l’amicizia è il violoncellista, il più anziano d’età. Ad un certo punto il violoncellista si ammala di Parkinson ed è costretto a ritirarsi. Da quel momento in poi esplodono una serie di tensioni che rischiano di distruggere il quartetto. La storia è questa; non dico il finale che merita d’esser visto e non raccontato.
Vi domanderete che diavolo c’entra questo film con l’attualità politica della quale debbo anche oggi occuparmi. La risposta è semplice. La fragile armonia è purtroppo il connotato dell’intera situazione italiana ed anche europea e perfino americana. Coinvolge i governi, i partiti, le società, l’economia, gli operatori della sicurezza pubblica; insomma tutti. Perfino la cultura. Anche la cultura è fragile, la morale pubblica è fragile, i comportamenti pubblici e privati sono fragili.
Le cause sono molte. Ma ce n’è una che soverchia tutte le altre e le determina: noi siamo alla fine di un’epoca, quella della modernità, del pensiero profondo che a memoria del passato, vive responsabilmente il presente e costruisce il progetto del futuro. Quest’epoca sta morendo. Durerà a lungo la sua agonia. Come sempre accaduto nella storia. Cambierà il pensiero, cambierà il linguaggio, cambierà il costume e quasi nessuno sembra accorgersene, stiamo vivendo questi cambiamenti che non sono graduali ma radicali e drammatici. Pochi ne sono consapevoli ma i più non lo sono e vivono schiacciati sul presente, senza memoria del passato né speranza del futuro.
Non è la prima volta che scrivo queste cose, ma debbo ripetermi per spiegar meglio la diagnosi e la terapia per chi voglia consultarmi come accettabile medico. Non credo siano molti. Manzoni si rivolgeva ai suoi 25 lettori di quel libro, apparentemente semplice ma in realtà difficilissimo, che è “I promessi sposi”. Papa Francesco mi ha detto che è uno dei suoi libri preferiti e che già l’ha letto due volte ed ora l’ha ricominciato per la terza rilettura. Questo fatto penso che meriti l’attenzione
dei miei 25 lettori.
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La situazione politica del nostro Paese è estremamente fragile. Il centrodestra sta esplodendo e implodendo. Il suo “patron” perde pezzi – cioè consenso – ogni giorno ma è ancora capace di crear guai nel tentativo di sopravvivenza, un caimano azzoppato ma ancora in grado di far del male. Ieri ha spaccato il partito, l’ha consegnato ai duri e puri, cioè a quelli identificati con lui; ha designato a succedergli la figlia Marina, così come avveniva in tempi di regimi assoluti nelle dinastie sovrane.
A contarli bene i berlusconiani sono ormai divisi in cinque o sei spezzoni, tra i quali ci sono anche quelli – forse i soli consapevoli di quanto sta avvenendo – che vorrebbero dar vita a una destra moderata, repubblicana e europeista, capace di alternarsi con una sinistra riformista ed europeista e – quando necessario – coalizzarsi con l’avversario per superare crisi epocali.
Purtroppo sono pochi e perciò timidi e incerti nella scelta dei tempi e dei modi. La sinistra riformista dovrebbe incoraggiarli. Ugo La Malfa, che ha lasciato nella storia italiana una traccia molto superiore alle forze quantitative del partito che guidava, cercò di rendere moderni un capitalismo arretrato e monopoloide e una sinistra ancora pervasa dall’ideologia del marxismo-leninista e staliniano.
Oggi la sinistra si è affrancata da quell’ideologia ma è anch’essa fragile e non mi pare che trovi la forza di aiutare la destra a cambiar natura. Ecco un’altra fragilità, sia pure di diversa natura, che merita attenzione.
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Il Partito democratico non è né esploso né imploso. È ancora una struttura politica ammaccata quanto si vuole ma non decomposta. Qual è allora la sua fragilità?
Sta tutta nelle tensioni che oppongono gli uni agli altri i leader vecchi e i nuovi emergenti, ma anche gli elettori di ispirazione post-comunista, quelli post-popolari e anche quelli liberal democratici.
Questi tre filoni culturali costituiscono un pluralismo molto bene assortito per un grande partito pluralista, purché la leadership sia in grado di mantenere ed accrescere l’integrazione e la rappresentatività sociale. Il quartetto d’archi del film che ho sopra citato è perfettamente adeguato alla situazione attuale del Pd, dove tutti, pur essendo consapevoli del problema del pluralismo integrabile delle componenti culturali e politiche di quel partito, sono però limitati da odi antichi e recenti, rivalse, vendette, sospetti, doppi e tripli giochi, a rischio di perdere di vista l’obiettivo
primario che consiste nell’interesse generale del Paese.
Un partito che aspira all’egemonia ed ha le carte per poterla conquistare deve sentirsi in primo luogo portatore degli interessi generali e far valere i propri in quel quadro. In caso contrario l’egemonia non si conquista perché non la si merita.
Voglio ricordare ancora una volta (non è la prima) quali furono le convinzioni di fondo di personalità del livello di Luciano Lama, Giorgio Amendola, Enrico Berlinguer, Ezio Vanoni, Nino Andreatta, Pasquale Saraceno, Antonio Giolitti ed altri ancora di analogo spessore, quando sostennero nell’interesse generale del Paese l’austerità, la crescita dell’occupazione, l’eguaglianza delle posizioni di partenza, i diritti degli esclusi e dei deboli, i doveri dei forti e dei ricchi, il riscatto del Mezzogiorno, la lotta contro le mafie, le clientele, i monopoli e infine la ragione contro le emozioni e i colpi di testa.
Questo è il bivio di fronte al quale si trova ora il Partito democratico: conquistare l’egemonia anteponendo l’interesse generale ai propri e perfino a quelli di partito. Se non sapranno operare in questo quadro significherà purtroppo che non hanno lo spessore culturale prima ancora che politico di utilizzare la memoria del passato per proiettarsi nel futuro. Resteranno schiacciati dai giochetti di un presente pieno di agguati e di sgradite sorprese.
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Sostengo il governo Letta da quando fu insediato sei mesi fa con la fiducia del Parlamento. Non è un governo di larghe intese ma di necessità. I suoi ministri lo sanno ed anche i partiti che lo sostengono lo sanno. Il suo compito è quello di raccogliere tutte le risorse disponibili e utilizzarle per mantenere il deficit al sotto della soglie del 3 per cento e per quanto possibile alleviare la recessione che attanaglia l’economia italiana.
Il primo obiettivo è stato raggiunto nonostante la caduta del Pil che influisce negativamente sul deficit. Il governo ha raschiato il fondo del barile, ha fatto ricorso alla Cassa depositi e prestiti che non incide sulla contabilità europea; ha avuto l’appoggio della Bce con iniezioni di liquidità e acquisti dei titoli pubblici sul mercato secondario. Ha alleggerito, ma di poco, il cuneo fiscale; ha dato corso a cospicui pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso imprese e Comuni.
È sufficiente? No, non è sufficiente. Sono gocce nel mare? Sì, sono gocce nel mare. Infatti se ne lamentano sia gli imprenditori, sia i lavoratori, sia i consumatori, sia la Confindustria, sia gli esercenti, sia i sindacati, ma non indicano le coperture.Senza coperture certe non si va oltre senza riportare il deficit sopra il 3 per cento facendo riaprire la procedura di infrazione con relativo aumento del tasso di rendimento dei titoli di Stato.
Quel tasso è largamente diminuito e fin quando resterà sotto il 5 per cento (adesso è al 4,5 per i Btp decennali) è prevedibile nel 2014 un avanzo di due miliardi. Forse ha destinato le poche risorse che aveva su una platea di beneficiari troppo estesa. Può ridurla quella platea, aumentando gli incentivi ai consumatori e alle imprese. Altri strumenti non ci sono in Italia, perciò il terreno sul quale combattere non è soltanto l’Italia ma soprattutto l’Europa. Cambiare la politica europea per quel tanto che basti ad agganciare l’economia italiana a quella dell’Europa che ancora “tira”, anche se meno dell’anno scorso.
Il governo ha, allo stato attuale, il solo sostegno del Quirinale il quale, non a caso, è oggetto di continue critiche e addirittura insulti. Urlati o sussurrati o taciuti ma affioranti sotto la superficie del silenzio.
Chi critica l’intervento di Napolitano sulla legge elettorale sostenendolo un’incauta forzatura dei suoi poteri dimentica (vuole dimenticare) due circostanze: la legge elettorale attuale è ritenuta incostituzionale da parte della Corte che sta per emettere una sentenza in proposito. Questo tema dell’incostituzionalità riguarda direttamente il Capo dello Stato come tutto ciò che attiene alla Costituzione. Ma c’è di più: fino a quando il Senato sarà un duplicato della Camera, possono formarsi – come è attualmente – maggioranze diverse nelle due Camere rendendo il Parlamento ingovernabile.
Occorre quindi togliere al Senato i poteri della fiducia al governo e riservarli soltanto alla Camera dei deputati, come avviene in tutti gli altri Paesi europei. Ecco perché non c’è alcuna forzatura dell’intervento di Napolitano. Deve restare sopra le parti e sopra le parti è sempre rimasto.
Grillo minaccia l’impeachment. Sarei lieto che lo proponesse, si vedrebbe così la sua assoluta inconsistenza e il suo intento soltanto provocatorio. E si vedrebbe – ma questo è già del tutto palese – che finora i deputati Cinque stelle studiano e sono pieni di volontà del fare ma non sanno sottrarsi agli ordini dei due proprietari di quel movimento che ora si presenteranno alle elezioni europee sulle stesse posizioni della Lega separatista francese guidata dalla figlia del fondatore, su posizioni nazionaliste, antieuro, anti-Europa federale. Posizioni di destra estrema, con i pericoli tremendi che ne conseguono.
Gli elettori italiani lo seguiranno? Spero di no, ma non ne sono affatto convinto. L’Europa non va bene così, ma un medico curante come il grillismo la porterebbe a rapida sepoltura e con essa, naturalmente, anche noi.

La Repubblica 27.10.13

“L’Europa dei migranti”, di John Lloyd

L’immigrazione incombe come un nuvolone nero sull’Europa, soprattutto sull’Italia. Lampedusa era famosa tra i turisti per le sue belle spiagge e tra i lettori per il fatto di chiamarsi come l’autore de “Il Gattopardo”. Oggi il nome dell’isola evoca in milioni di persone immagini di bare, dolore, morte. La sua vicinanza all’Africa del nord la destina a ciò, in quanto la sua posizione geografica implica anche il fatto che è vicina alla guerra, alla povertà, alla disperazione.
Che cosa può alleviare questa sofferenza? Nell’immediato niente: disperazione significa che i rischi di un viaggio pieno di pericoli sono considerati inferiori a una misera vita se si resta in Somalia, o in Eritrea, o in Libia. Ma sul lungo periodo, con una mentalità diversa, con modi di intervento diversi, i migranti potrebbero esserci di aiuto in Europa, e potrebbero giovarsi loro stessi del fatto di entrarvi.
Dobbiamo iniziare a pensare in modo diverso, perché l’immigrazione sta diventando il nocciolo del dibattito europeo, e continuerà a crescere di importanza nei prossimi mesi. L’estrema destra sta guadagnando terreno: la vittoria del Front National francese nell’elezione del sindaco della cittadina di Brignolles, nel sud del paese, in precedenza in mano ai comunisti, è stata vista come il segnale di una dissociazione dai partiti di centro, soprattutto da parte della classe operaia.
Ipotizzando che questo fenomeno continui, il nuovo Parlamento europeo, dopo le elezioni del maggio 2014, si ritroverà un intero blocco di partiti – comprendente il Front National, il britannico Ukip, il Partito per la libertà olandese, i Veri Finlandesi, e l’Alternativa tedesca per la Germania – fortemente contrario all’immigrazione o all’Unione europea o all’euro come valuta, o a tutte e tre le cose insieme.
Un modo di pensare del tutto diverso è il tema di un libro di recente pubblicazione. Paul Collier, direttore del Centro per gli studi delle economie africane a Oxford è uno dei più stimati esperti di povertà al mondo. Nel suo nuovo libro, Exodus,
Collier indica i presupposti di un nuovo approccio al problema dell’immigrazione, con modalità a un tempo stesso razionali e compassionevoli. “L’esodo di ogni singolo individuo scrive Collier – è un trionfo dello spirito umano”. Coloro che lasciano le loro società di origine, spesso per la prima volta, necessitano di coraggio, di abilità organizzativa, di fede nel sogno del loro futuro. Per quanti avranno successo, la vita quasi sempre migliorerà. Per i poveri delle società di buona parte dell’Africa (ma non soltanto lì) il divario tra il reddito a casa loro e ciò che potrebbe attenderli altrove è immenso.
È per questo motivo che arrivano: per una vita migliore. Dal punto di vista materiale le cose vanno ancora meglio: la maggior parte di loro vuole guadagnare e molti spediscono a casa parte di ciò che guadagnano. Alcuni faranno anche più mestieri, dato che i posti di lavoro che trovano di solito sono scarsamente retribuiti.
Ciò dimostra, prosegue Collier, che gli immigrati daranno vita a un “modesto aumento” nella crescita economica del paese che li ospita. Aumenteranno la concorrenza per i posti di lavoro, e così facendo possono migliorare i salari dei lavoratori già occupati, a eccezione di chi è più in basso nella scala delle retribuzioni. Lo fanno a condizione – e questa è la condizione più importante – che l’immigrazione sia di per sé modesta.
L’immigrazione, riconosciuta dalla maggioranza come adeguatamente controllata e relativamente bassa, può essere assorbita. Ma i fattori cruciali e determinanti – sempre secondo Collier – sono le dimensioni dell’immigrazione e della diaspora all’interno dei paesi che li ospitano. Quando questi fattori diventano molto grandi, quando gli immigrati restano separati dalla comunità che li ospita – compresi molti che sono loro stessi discendenti di immigrati – i problemi aumentano. Aumenteranno in maniera particolare se gli immigrati non abbracciano i valori di fondo e i comportamenti della loro nuova terra.
Gli immigrati si portano appresso come un bagaglio le loro abitudini, buone e brutte che siano. Chi arriva da paesi poveri e sconvolti dalla guerra spesso ha bassi livelli di fiducia nel prossimo e continua così. Gli immigrati che vengono da società lacerate dalla criminalità spesso hanno un comportamento da delinquenti e rapporti con i criminali. Nella maggior parte dei paesi europei, gli immigrati sono rappresentati nella popolazione carceraria in percentuali sproporzionatamente alte.
Pochi soggetti, radicalizzati dalla propaganda islamista, diventano terroristi: la polizia keniana ha identificato uno dei terroristi di al-Shabab che a settembre hanno preso in ostaggio un intero centro commerciale a Nairobi nella persona di Hassan Abdi Dhuhulow, un cittadino norvegese di origini somale. Una prova come questa aumenta la diffidenza popolare, soprattutto nei confronti dei musulmani.
In Exodus Collier è particolarmente critico nei confronti di chi crede che stiamo entrando in un’epoca di “post-nazionalismo”, e che l’Ue abbia eliminato la necessità di leadership e disciplina nazionale. Egli scrive che le nazioni “sono importanti unità morali”: ciò significa che se intendono restare e integrarsi, gli immigrati in un paese ospite devono assorbire l’etica, sia esplicita sia implicita, della vita quotidiana. Molti nativi locali non seguono per primi le norme comportamentali, naturalmente, ma un immigrato farà bene a seguire gli esempi migliori, non i peggiori.
I paesi sono i loro popoli: i migranti che vengono per restare e diventare residenti a lungo termine o cittadini diventano dunque parte di un paese. Questi paesi sono ricchi allorché le loro politiche sono più o meno stabili, e soprattutto quando tutti i loro cittadini lavorano bene e sodo. Ciò implica avere buone leggi, aziende ben amministrate, e lavoratori desiderosi di lavorare come si deve. Molti datori di lavoro lodano le abitudini lavorative degli immigrati e le mettono a confronto favorevolmente con quelle dei lavoratori locali: gli immigrati che non raggiungono quel livello si espongono a critiche e pregiudizi.
I paesi stabili politicamente sono quelli nei quali la maggior parte della popolazione ha accettato, di buon grado, sia l’ordine morale sia l’ordine legale: ciò significa che l’ordine non deve essere ribadito di continuo, perché è parte della volontà popolare.
Gli immigrati devono diventare parte di tutto ciò: laddove a livello individuale o come gruppo danno segno di disprezzare quell’ordine, o di volerlo rovesciare, diventano attaccabili.
E infine: le nazioni dalle quali arrivano gli immigrati sono state le loro patrie. Di solito partono con riluttanza e dispiacere, ma lo fanno perché nel restarvi non intravedono speranze. Noi che abitiamo in paesi ricchi abbiamo il dovere – nei confronti dei più indigenti al mondo, ma anche di noi stessi – di essere molto più attivi nel fornire aiuto e sostegno per lo sviluppo degli Stati falliti o di quelli in procinto di esserlo. Il dovere nei loro confronti può essere espressione di un sentimento religioso o umano. E tutto sommato è nel nostro stesso interesse, perché così si affronta direttamente il problema del terrorismo, che prospera proprio negli stati falliti e, col passare del tempo, si ridurrà il flusso dei disperati che inizieranno a intravedere qualche speranza dove si trovano, a casa loro.
Traduzione di Anna Bissanti

La Repubblica 27.10.13

“Decreto 104 (e non solo) a rischio di approvazione”, di Reginaldo Palermo

Le dimissioni di Giancarlo Galan aprono un caso politico molto serio. Il Governo potrebbe essere costretto a porre la questione di fiducia in aula e a quel punto tutto potrebbe accadere.
L’avvio del dibattito conclusivo della Camera sulla conversione in legge del decreto 104 è previsto per il pomeriggio di lunedì 28 ottobre, mentre il voto conclusivo dovrebbe arrivare il giorno successivo o, al più, mercoledì 30.
Dopo le dimissioni da relatore di Giancarlo Galan, il ricorso al voto di fiducia è ormai certo. Al centro della contesa c’è la questione della copertura finanziaria che il Governo ha individuato nell’aumento delle accise sulla birra e che invece Galan intendeva sostituire con una revisione delle imposte su alcuni tipi di operazioni postali, nell’intento – ha detto in Commissione “di rendere la società Poste italiane ‘più povera’, ponendola allo stesso livello dei privati”.
Il rappresentante del Governo, il sottosegretario Gianluca Galletti, è stato però irremovibile (“Il Governo si deve presentare davanti al Parlamento come un unico soggetto e, quindi, non solo in quanto rappresentante del Ministero dell’istruzione”) concludendo che siccome la proposta di Galan non garantisce adeguata copertura finanziaria non può in alcun modo essere accettata.
A questo punto lunedì pomeriggio in aula il provvedimento verrà presentato da un altro deputato (forse del PD o, più facilmente, di Scelta Civica per evitare ulteriori attriti fra PD e PdL).
Il fatto è che sull’emendamento proposto in Commissione da Galan si sono espressi a favore non solo i deputati del PdL ma anche quelli di M5S che potrebbero ripresentare la questione in aula, determinando un rallentamento decisivo nell’esame del provvedimento.
Per stare nei tempi il Governo sarebbe così costretto a presentare un maxi-emendamento contenente quelli già approvati in Commissione (o almeno una parte di essi) ma escludendo quello di Galan sulla copertura finanziaria.
Di fatto questo equivarrebbe a porre la fiducia con evidenti rischi di tenuta dell’esecutivo.
Insomma, lunedì e martedì saranno due giornate determinanti non solo per il decreto 104 ma soprattutto per lo stesso Governo.

La Tecnica della Scuola 27.10.13

“La carta di riserva del Cavaliere”, di Carmelo Lopapa

Se lo chiedessimo a mia figlia Marina, se lo facessimo tutti, nonostante le sue riserve, forse a questo punto accetterebbe ». Attorno a Silvio Berlusconi sono rimasti i fedelissimi. Venerdì tarda sera, dopo il tormentato Ufficio di presidenza che ha sancito l’azzeramento del Pdl e la rinascita di Forza Italia. APALAZZO Grazioli si ritrovano Fitto e Carfagna, Gelmini e Romano, Brunetta e Galan, Bernini e l’ideatore dell’Esercito di Silvio, Simone Furlan. I ministri «traditori» sono già lontani, rientrati a Palazzo Chigi, la partita con loro il Cavaliere la considera ormai chiusa. «Sono addolorato dalla rottura con Angelino. Lui era davvero il mio erede, ma sono le cose della vita, pazienza» dice al cospetto degli ospiti.
Ed è lì, risalito in salotto dopo la conferenza stampa, quando attorno a lui restano in pochissimi, che il leader apre per la prima volta all’ipotesi che fino ad ora aveva sempre escluso. La «discesa in campo» dell’amata primogenita, presidente Fininvest e Mondadori. Pupilla di Fedele Confalonieri che invece resta ancora profondamente contrario,
come del resto Gianni Letta. Ma il padre ormai sembra non ascoltare più i consigli dei moderati dell’inner circle.
Sono altre le sirene. E altre le fascinazioni. Come quella di contrapporre alla marcia trionfale di Renzi, proprio l’8 dicembre, l’investitura di Marina. Il Consiglio nazionale Pdl in quella data, alla presenza dei suoi 800 componenti, dovrà ratificare il passaggio a Forza Italia deciso due giorni fa dal leader. La suggestione che piace molto ai falchi, da Verdini a Bondi alla Santanché è proprio quella: approfittare della platea e dei riflettori per lanciare la quarantenne che con tanto di brand Berlusconi potrà sfidare il sindaco di Firenze. Designata lo stesso giorno. Per partire subito in una (virtuale) campagna elettorale che dovrà fare i conti però con un governo ancora in carica. L’ex premier apre alla svolta familiare, con cautela, ma ne parla come di una mossa a questo punto possibile, per non dire obbligata dalla sua decadenza e dall’interdizione che impedirebbero comunque la sua corsa alla premiership. Tanto più che dal giorno in cui la decadenza sarà votata al Senato muterà lo scenario. Berlusconi lo ha ripetuto, prima che i suoi ospiti si congedassero per raggiungere il ristorante Fortunato al Pantheon. «Ritireremo il sostegno al governo, ma vedrete che tanto sarà Renzi da lì a poco ad aprire la crisi». Sicuro del voto tra febbraio e aprile. Non a caso in quella stessa sede ha parlato di chi dovrà prendere le redini della macchina organizzativa di Forza Italia. Volti e nomi di pretoriani più che fidati. Ha rifatto il nome di Marcello Dell’Utri, visto entrare e uscire a più riprese nelle ultime settimane a Grazioli. E poi Bruno Ermolli,
cda Mediaset, ma soprattutto scudiero di mille battaglie al suo fianco dagli anni Settanta. Poi Guido Bertolaso, ex discusso capo della Protezione civile.
Giancarlo Galan, presidente della commissione Cultura, al quale spetterà il talent scouting.
Un ruolo lo avrà anche Furlan coi suoi soldati di Silvio. La campagna mediatica, quella sì, partirà subito dopo l’8 dicembre. Un martellamento sul governo attraverso tv e giornali di casa, per accusare la manovra «tutta tasse e sacrifici». Ma da qui ad allora l’uscita dalla maggioranza sarà sancita dal voto di decadenza al Senato. A quel punto Alfano e i ministri, se resteranno nell’esecutivo, si ritroveranno sotto tiro anche loro. Intanto hanno concordato ieri di congelare la scissione, la formazione del gruppo autonomo. Meglio attendere prima le mosse del Cavaliere, la decadenza con quel che ne conseguirà. Si tratterà di attendere ancora una paio di settimane, forse tre. Il fatto è che sta crescendo in queste ore nei gruppi parlamentari Pdl un terzo partito, tra lealisti e alfaniani, quello degli attendisti, i tanti che preferiscono capire le mosse di Berlusconi prima di sbilanciarsi. Chi non vuole attendere è Raffaele Fitto. Lui come Verdini e altri stanno accarezzando l’idea di anticipare il Consiglio nazionale di dicembre. Vorrebbero andare subito alla conta. L’ex governatore nella sua Puglia, la Carfagna in Campania come la Gelmini in Lombardia e Matteoli in Toscana e Giro nel Lazio sono già alla caccia delle firme di sostegno a Berlusconi per il passaggio a Forza Italia. Contano di raccogliere entro inizio settimana le 600 su 800 che garantirebbero il 67 per cento, pari ai due terzi necessari per spuntarla. Alfano e i governativi stanno facendo altrettanto per impedirlo e raggiungere quota 34 per cento. Berlusconi non ha dubbi, come confidava ieri agli interlocutori sentiti da Arcore: «Sono convinto di aver fatto la cosa giusta. Non avevo altra possibilità per tentare di salvarmi».

La Repubblica 27.10.13

“6 milioni senza lavoro. Metà non lo cerca più”, di Laura Matteucci

Oltre 6 milioni di italiani vorrebbero lavorare, ma non possono. È la somma dei 3,07 milioni di disoccupati e dei 2,99 milioni tra «scoraggiati» o persone che vorrebbero avere un’occupazione ma non sono immediatamente disponibili per motivi di studio, di famiglia, di impegni i più disparati da portare a termine. Sono gli ultimi dati aggregati dell’Istat, che emergono dalle tabelle relative al secondo trimestre dell’anno. Ma non è che poi sia andata meglio, anzi. E il dato certo è che la crisi non solo colpisce vietando l’accesso al mondo del lavoro a milioni di persone, semplicemente perché il lavoro non c’è, soprattutto al Sud e tanto più tra i giovani (il tasso di disoccupazione in Italia è arrivato al 12,10%, la media europea è al 10,9%), ma anche producendo effetti di scoraggiata rassegnazione, per cui nemmeno si cerca. Per non dire di quanti (soprattutto tra i giovani, ovvio) fanno le valigie direttamente per l’estero. Fenomeni non nuovi, ma che ora colpiscono per le proporzioni assunte.
WELFARE FAMILIARE
Ma chi sono gli italiani arruolati in questo esercito? L’Istituto di statistica precisa: i disoccupati sono persone che han- no cercato attivamente lavoro nelle ultime quattro settimane e sono disponibili a lavorare immediatamente. Poi c’è una fascia intermedia che vorrebbe lavorare ma non cerca attivamente: molti perché sono scoraggiati (1,3 milioni circa), altri per problemi di famiglia o per altre questioni. Di questo segmento fanno parte 2,99 milioni di persone. Infine c’è un’altra sacca di persone inattive che non sono disponibili a lavorare, ad esempio studenti sono concentrati nel finire gli studi e casalinghe che intendono restare tali. Il lavoro manca in particolare al Sud e tra i giovani: su 3 milioni e 75mi-a disoccupati segnati nel secondo trimestre 2013 quasi la metà sono al Sud (1.458.000), e oltre la metà sono giovani (1.538.000 tra i 15 e i 34 anni, 935mila se si considera la fascia 25-34 anni). Secondo lavoce.info, il sito economico diretto da Tito Boeri, è il tasso di inattività l’indicatore alla luce del quale la peculiarità italiana rispetto ai partner dell’Unione europea emerge in modo clamoroso. Sono le persone in età lavorativa (15-64 anni) che non lavorano e non cercano lavoro. La media europea di questo indicatore è 26,4% mentre in Italia siamo al 36,6%, uno scarto di oltre dieci punti alla luce del quale le differenze nei tassi di disoccupazione appaiono minime. «Un livello decisamente preoccupante», dice lavoce.info. Gli inattivi si dividono in tre principali categorie: i giovani, che rimangono molto più a lungo che negli altri Paesi nel sistema educativo o ai margini di questo prima di mettersi alla ricerca di un impiego ed entrare formalmente nel mercato del lavoro. I pensionati di età inferiore ai 64 anni, che sono ancora molti di più che negli altri Paesi, a causa di tanti interventi che per molto tempo hanno facilitato e incoraggiato il pensionamento anticipato. Infine ci sono le donne di tutte le età, che spesso per motivi culturali, per necessità di cura dei figli e assistenza degli anziani decidono o sono costrette a non lavorare. «È nel tasso di inattività, quindi – sottolinea lavoce.info – che si palesano queste tre grandi anomalie italiane che, molto più della disoccupazione, marcano la nostra distanza dagli altri Paesi dell’Unione. È importante riconoscere che esse sono in gran parte il risultato di politiche pubbliche sbagliate, cambiarle è condizione necessaria alla loro soluzione. Proposte sensate di riforme del sistema scolastico e universitario e degli incentivi al lavoro femminile non mancano, manca però un governo in grado di realizzarle».
A corollario, l’indagine di Coldiretti, da cui emerge che a disoccupati e sfiduciati si aggiungono ben sette italiani su dieci (70%) che si sentono minacciati dal pericolo di perdere il lavoro in questo autunno di crisi. È il rischio più te- muto in una situazione in cui per una famiglia su quattro (22%) sarà un autunno di sacrifici economici. Se il 42% degli italiani vive senza affanni, quasi la metà (45%) riesce a pagare appena le spese, mentre oltre 2 milioni di famiglie (10%) non hanno oggi reddito a sufficienza neanche per l’indispensabile. In questa situazione la famiglia – precisa la Coldiretti – è la principale fonte di welfa- re. Il 37% degli italiani è stato costretto infatti a chiedere aiuto economico ai ge- nitori, il 14% a parenti e il 4% addirittura ai figli. Solo il 14% si è rivolto a finanziarie o banche mentre l’8% agli amici.

L’Unità 27.10.13

“Mare solo Nostrum. C’è l’Italia ma non l’Europa” di Massimo Solani

Scriveva Aldo Moro che «nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo». Ma mentre a Bruxelles i Paesi dell’Unione discutono di una linea comune per far fronte all’emergenza immigrazione, nel canale di Sicilia l’Italia è praticamente da sola e ad una settimana dal via dell’operazione «Mare Nostrum» l’impegno delle nostre forze armate inizia a dare i suoi frutti visibili.
Che si pesano coi numeri ma si misurano soltanto negli occhi di chi è scampato alle onde nere dopo ore di traversata su un legno malfermo e adesso sorride agli uomini della nave San Marco che li aiutano a salire a bordo. Di chi, nel buio della notte del Mediterraneo, ha visto avvicinarsi le luci dei mezzi di soccorso, si è aggrappato ai salvagente lanciati dagli elicotteri e su questa nave ha trovato salvezza e conforto. La conta della notte fra giovedì e venerdì è impressionante: 800 circa i migranti salvati in mare, fra loro oltre 100 bambini. Eritrei e siriani, per lo più, molte donne, tantissimi i nuclei familiari. Scappati dalla guerra e dal regime, molti stremati ma fortunatamente in buone condizioni, tanti altri ben vestiti e con cellulari, gente che non muore di fame ma che da questa parte del mare cerca pace e sicurezza. Alcune centinaia di loro le motovedette della Guardia Costiera li hanno portati fino a Lampedusa, altri quattrocento circa hanno trovato riparo nella pancia d’acciaio della San Marco, la nave che ospita il comando dell’operazione Mare Nostrum affidato all’ammiraglio Guido Rando. Novanta erano stati recuperati dal mercatile maltese Zapphire, 99 dal pattugliatore Cigala Fulgosi, 219 (tra cui 37 bambini) dalla corvetta Chimera. I barconi su cui viaggiavano sono stati rintracciati in mezzo al mare nero come la pece intrecciando i sistemi di localizzazione dei telefoni satellitari e le segnalazioni arrivate da altre imbarcazioni, e la macchina dei soccorsi è scattata immediatamente secondo i piani messi a punto in questa settimana, con gli elicotteri in volo e l’intervento dei mezzi più vicini. E se le condizioni del mare in questi giorni avevano concesso una tregua, adesso l’emergenza è di nuovo altissima.
I primi ad accogliere i migranti sulla nave sono stati gli uomini della Brigata San Marco, i fucilieri di Marina che si occupano dei mezzi da sbarco da utilizzare per i soccorsi in mare e, fra le altre cose, di perquisire le persone portate a bordo ed evitare qualsiasi rischio di sicurezza per la nave. Dopo i primi soccorsi poi (la San Marco all’occorrenza è dotata anche di una sala operatoria, un ambulatorio, un gabinetto odontoiatrico, una sala ginecologica e sala parto e un gabinetto radiologico) nella sala garage della nave è iniziata la lunga processione davanti alla postazione allestita nei giorni scorsi, come su ogni altro mezzo impiegato per la missione Mare Nostrum, dagli uomini della task force della polizia provenienti dagli uffici immigrazione e dalla Scientifica di diverse questura d’Italia. A loro, infatti, spettano le operazione di identificazioni dei migranti, di prelievo delle impronte digitali e di verifica attraverso i database della polizia di eventuali precedenti, altri ingressi irregolari in Italia o provvedimenti di espulsione già eseguiti. Un modo, fra l’altro, per provare ad individuare eventuali scafisti.
Accanto agli uomini della task force della polizia di stato anche i mediatori culturali della Onlus romana Cies. Eyob è uno di loro, ed è salito a bordo della San Marco martedì scorso. Ha 56 anni, è eritreo, vive a Napoli ed è arrivato in Italia nell’anno del Giubileo. «Non avevo mai visto il mare da qui, lontano dalle coste, dove si vede solo l’orizzonte e il blu», racconta. «È incredibile pensare a quanta sia la disperazione che spinge queste persone a scappare da casa propria e affrontare questo viaggio rischiando la morte». A lui spetta il compito di riconoscere dialetti, fare domande e provare distinguere chi è davvero eritreo da chi invece si spaccia soltanto magari alla ricerca disperata della possibilità di chiedere asilo. «Non è facile ci dice ed è una operazione molto delicata. Una grande responsabilità». Ora, riuniti i gruppi familiari, prestate le cure a chi ne aveva bisogno e terminate le operazioni di identificazione, la San Marco invertirà la propria rotta e tornerà verso la terra ferma dove i migranti saranno poi sbarcati e indirizzati nelle varie strutture che potranno ospitarli. Lontano, almeno in teoria, da Lampedusa dove dopo gli sbarchi di ieri il centro di accoglienza è di nuovo pericolosamente affollato. «Dopo che le navi avranno intercettato i barconi si chiedeva a Bruxelles il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini quale sarà il destino delle persone? Questo non ci è stato spiegato».
Nella serata di ieri poi, dopo una giornata lunghissima e convulsa, una nuova segnalazione ha attivato tutte le procedure di emergenza. Nei consueti briefing mattutini dei giorni scorsi dove i vertici dell’operazione decidono lo schieramento delle navi nelle aree di competenza previste da Mare Nostrum, i report dell’intelligence avevano avvertito che non appena il meteo avrebbe concesso una tregua i viaggi dalla Siria o dal Nord Africa sarebbero ripartiti e ci sarebbe stato da scrutare il mare alla ricerca di imbarcazioni. Le navi italiane lo fanno da anni con quel dispositivo nazionale di individuazione e soccorso che ha già salvato la vita a migliaia di migranti. Adesso, però, la crisi siriana ha reso tutto più difficile e l’Italia ha deciso di aumentare i propri sforzi per evitare altre tragedie. Un impegno gravoso (e costoso) che non può essere lasciato tutto sulle nostre spalle. Per questo mentre nel canale di Sicilia si scruta il mare con i radar o a occhio nudo dagli aerei o dai ponti delle navi («Resta il modo migliore spiegano i marinai perché molte imbarcazioni sfuggono ai controlli elettronici») è da Bruxelles che si attendono notizie. Perché «nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo». Anche se da qui, in mezzo alle onde a metà strada fra Lampedusa e l’Africa, l’Europa sembra lontanissima.

L’Unità 26.10.13

“Sorpresa, il gap di genere si riduce. Anche in Italia”, di Sonia Renzini

La buona notizia è che il divario tra uomini e donne nel mondo va lentamente diminuendo, ma chi è portato a vedere il bicchiere mezzo vuoto sa che l’uguaglianza tra i sessi è ancora una chimera. Ma è vero che nell’ultimo anno la distanza si è un po’ ridotta: lo rivela il rapporto annuale del World Economic Forum che stila una classifica sulle di- sparità di genere e che elegge l’Islanda l’Eldorado delle pari opportunità con il primo posto per il quinto anno consecutivo. A sorpresa, il rapporto vede l’Italia scalare nove posizioni rispetto al 2012. L’avanzamento del nostro paese mette quasi euforia, visto che interrom- pe un trend negativo che risaliva al
2009, ma l’entusiasmo finisce qui perché l’Italia non va più in là del 71° posto su un totale di 136.
Già, la ricerca prende in esame 136 paesi nei quali si concentra il 93% della popolazione mondiale per studiarne la questione delle pari opportunità in ambiti strategici: dal mondo economico a quello politico, dall’istruzione alla salute, fino alla stessa sopravvivenza.
Ebbene, in ben 86 nazioni il gap tra uomo e donna si è ridotto, soprattutto nel campo della partecipazione politica dove sono emersi i maggiori progressi. Ad eccezione del Medio Oriente e del Nord Africa che non hanno registrato nessun miglioramento nel corso dell’anno passato.
«Da quando il Wef ha cominciato a stilare la classifica nel 2006 l’80 % dei paesi ha fatto progressi – dice la coautrice della ricerca Saadia Zahidi – Quello che preoccupa però è che il 20 % dei Paesi o non li ha fatti, o è in ritardo».
In vetta alla classifica si trovano i paesi nordici europei di Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia, in fondo lo Yemen. Non mancano sorprese, come le new entry nella top ten delle Filippine (si sono distinte nei campi della sanità, dell’istruzione e dell’economia) e del Nicaragua (premiato per una buona performance in termini di emancipazione politica).
Nessuno stupore, invece, per la supremazia in materia dei Paesi nordici che vantano una lunga tradizione a investire nelle persone.
«Si tratta di piccole economie con piccole popolazioni – continua Zahidi – ma riconoscono che il talento conta e che questo è anche femminile».
È questo il punto. Perché ci sono paesi, come gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita, che di investimenti ne hanno fatti, ma non sono riusciti a integrare le donne in campo economico. Di contro ci sono molti paesi subsahariani che sulle donne non hanno proprio investito, ma ciononostante queste hanno svolto per necessità un ruolo impor- tante a livello economico.
Dei paesi del G20, invece, il più virtuoso è la Germania che comunque non va più in là del 14mo posto.
Il Regno Unito rimane a quota 18, mentre il Canada detiene la 20ma posizione, gli Stati Uniti la 23ma, la Russia la 61ma, la Cina la 69ma e l’India la 101ma.
In generale rimane ancora forte la distanza salariale tra i generi, con l’Italia che sale solo di due posizioni e raggiunge appena il 124° posto.
Va decisamente meglio in materia di salute, di sopravvivenza e di istruzione. «Le donne costituiscono la metà del capitale umano disponibile di qualsiasi economia e azienda, se i loro talenti non sono integrato non potrà che esserci una perdita sia per le donne e gli uomini», conclude Zahidi.

L’Unità 26.10.13