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“Il delfino è finito nel secchio”, di Massimo Adinolfi

Nell’ampio mondo delle figure retoriche con cui si racconta la politica italiana, dove svolazzano simbolicamente falchi e colombe, dove Berlusconi resta ancora il Cavaliere per antonomasia e Alfano possiede (nei giorni pari) o non possiede (nei giorni dispari) un certo «quid» dal forte valore metonimico, non ha ancora fatto la sua comparsa la metafora del secchio. La introduciamo ora, a commento di una giornata di forti tensioni non solo per il Pdl ma per il Paese.Questi sommovimenti che si producono violenti nel centrodestra finiscono inevitabilmente col ripercuotersi anche sul governo. Dunque: Berlusconi agita il secchio. Lo strattona e lo fa ruotare vorticosamente, perché più veloce ruota e più difficile è per l’acqua staccarsi dal fondo e riversarsi all’esterno. Così, dopo i giorni di relativa calma seguiti al mancato strappo del due ottobre, il Cavaliere ha accelerato nuovamente, per appiattire tutti i pidiellini dentro al secchio, e impedirgli di staccarsi (o costringerli per farlo a sforzi sovrumani e, per berlusconiani della prima ora, quasi contro natura). Alfano ha avuto l’occasione, ma non ha affondato il colpo. È giunto fino a un passo dalla costituzione di nuovi gruppi parlamentari in appoggio al governo, ma quando Berlusconi, in forte difficoltà e con numeri insufficienti per far cadere l’esecutivo, ha fatto compiere al secchio la piroetta più veloce della sua ventennale storia politica decidendo di votare la fiducia che al governo aveva negato solo poche ore prima, Alfano non se l’è sentita di rischiare: è rimasto dentro al secchio dove ora corre il rischio di annegare.
C’è rimasto e prova ancora a rimanerci, dal momento che, pur di non rompere, non teme di usare il paradosso. Così, la decisione di non partecipare all’ufficio di presidenza del Pdl diventa addirittura un «contributo all’unità del partito». Come se ci fosse ancora un partito, il Pdl, e non ce ne fosse un altro in pista di lancio, la rinascente Forza Italia, che peraltro non contempla Alfano nel suo
organico. Forse l’ex delfino si sarà chiesto, ieri pomeriggio, se lo si sarebbe notato di meno se fosse andato e fosse rimasto in silenzio, schiacciato contro le pareti del secchio, piuttosto che non andandoci affatto. E ha optato per questa seconda ipotesi. Ma lo si nota lo stesso, si nota che non c’è più spazio per mediazioni e ricuciture: il Cavaliere non vuole affatto assicurare tranquilla navigazione al governo, perché solo nelle urne può sperare di trovare nuova legittimazione politica, o perlomeno intorbidare abbastanza le acque per cercare di farla franca. E per quante volte Letta ripeterà che la stabilità è un valore, per altrettante Berlusconi farà di tutto per comprometterla. E tornerà ad agitare il secchio, sballottando violentemente il suo partito e, se gli riesce, l’Italia intera. Non c’è infatti, in questo disegno, nessuna considerazione dell’interesse generale, nessuna valutazione che trascenda un destino puramente personale. C’è soltanto il più inequivocabile degli ultimatum: o con me o contro di me. Il tentativo di Alfano e degli altri «governisti» di non stare «con», senza tuttavia stare «contro», era destinato per principio a fallire. E il principio è scritto a caratteri cubitali in tutta la storia del centrodestra berlusconiano, lungo tutto l’arco del ventennio. Se c’è infatti un terreno sul quale Berlusconi ha sempre fallito è quello delle alleanze. Dal primo Bossi all’ultimo Maroni, passando per i Dini e i Follini, i Casini e i Fini (senza dimenticare le singolari vicende dei ministri del Tesoro, i Tremonti e i Siniscalco) nel secchio, anzi nel gorgo del berlusconismo non c’è altra maniera di stare che non sia quella di subire la forza che Berlusconi e lui solo di volta in volta gli imprime. La figura del «diversamente berlusconiano», che nel cielo della retorica suona come uno spericolato ossimoro, in quel secchio semplicemente non è contemplata. E se il fatto che dal secchio stia venendo fuori tutt’altro ad Alfano non basta per guardare a nuovi rapporti politici, è certo però che non può non bastare all’Italia. Che non vede l’ora di dire finalmente e con chiarezza: buonanotte al secchio.

L’Unità 26.10.13

“La televisione malata di questo paese”, di Giovanni Valentini

Padrone del divertimento televisivo, rastrella pubblicità, ammassa profitti, opera lobotomie collettive mai viste. (da “Morbo italico” di Franco Cordero – Laterza, 2013 – pag. 90)
È la prima volta, a memoria di “homo videns”, che il direttore generale della Rai sfida apertamente la politica per difendere gli interessi della sua azienda. E già questa novità, anche al di là del merito, è degna di considerazione. Non tanto perché denota un’apprezzabile autonomia personale e manageriale, quanto perché rivendica “coram populo” l’indipendenza della televisione pubblica rispetto alle interferenze del potere.
Quando Luigi Gubitosi dichiara pubblicamente che «Crozza non è in Rai per colpa della politica», attacca il Pdl e in particolare il suo capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, che aveva contestato i cospicui compensi del comico e di Fabio Fazio. Ma in realtà la sortita del direttore generale mette sotto accusa il conflitto d’interessi che condiziona da un ventennio tutto il sistema televisivo italiano: cioè quell’anomalia incarnata dalla figura di Silvio Berlusconi proprietario di Mediaset, capo di partito e già uomo di governo. Una distorsione del mercato che altera il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.
Se in Italia quel conflitto fosse stato effettivamente disciplinato; se non esistesse una concentrazione televisiva privata con tre reti in concessione; se Berlusconi non fosse il padrone del Biscione oltre che il leader del Pdl; e se infine l’onorevole Brunetta non fosse il capogruppo del medesimo partito a Montecitorio, non potremmo dargli poi tutti i torti quando reclama la massima trasparenza sui compensi della Rai. E così bisognerebbe fare luce anche sui contratti di certi produttori esterni per trasmissioni che si potrebbero tranquillamente realizzare “in casa”. O sullo strapotere di certi “agenti” che impongono attori e attrici, conduttori e conduttrici, mogli e fidanzate.
Ma l’offensiva del Pdl contro la Rai si configura oggettivamente come un “favoreggiamento” a beneficio del suo principale concorrente diretto, un aiuto del partito-azienda all’azienda-partito. Se alla fine Crozza è stato costretto a rinunciare al contratto con la Rai per sottrarsi a questo fuoco di sbarramento, la tv di Stato rischia ora di perdere ascolti e pubblicità a vantaggio di Mediaset e ovviamente anche de La 7 che continuerà a ospitare le trasmissioni del comico. È il trionfo del conflitto d’interessi, l’apoteosi dell’anomalia berlusconiana.
Si può disquisire quanto si vuole, allora, sull’astronomico compenso di Fazio e sul gestaccio di Maradona nella trasmissione “Che tempo che fa” da lui condotta. Ovvero, sul ruolo e sulla responsabilità del servizio pubblico radiotelevisivo. Ma tutte le polemiche che hanno investito in questi giorni la Rai hanno un’origine comune che qui denunciamo da tempo: la doppia natura o la doppia anima della tv di Stato, da una parte azienda pubblica che incassa il canone e dall’altra soggetto privato che raccoglie pubblicità sul mercato.
È proprio da qui che scaturiscono molte delle disfunzioni e storture che affliggono il nostro servizio pubblico, a differenza di quanto accade nel resto dei Paesi europei. La Rai, come Arlecchino servo di due padroni, è chiamata a fare contemporaneamente due parti in commedia: assolvere agli obblighi che derivano dal contratto di servizio con lo Stato e inseguire gli ascolti per contenderli alla tv commerciale, con il rischio di omologarsi al suo modello. C’è uno strabismo congenito, dunque, che altera inevitabilmente la tele-visione dei dirigenti, dei funzionari, dei giornalisti, dei conduttori o delle conduttrici di viale Mazzini e Saxa Rubra.
Sull’altare dell’audience, troppo spesso la Rai sacrifica – come davanti a una moderno totem mediatico – la sua missione istituzionale di servizio pubblico, con trasmissioni trash del genere “pacchi”, isoledei- famosi o serial e telefilm americani di cui viene infarcito il palinsesto di alcune reti del digitale terrestre. E mentre noi, cittadini e telespettatori, paghiamo il canone d’abbonamento, l’azienda pubblica continua a drenare risorse sul mercato della pubblicità, a danno di tutti gli altri media, vecchi e nuovi. Questa è la tv malata di un sistema e di un Paese malato.

La Repubblica 26.10.13

“L’autunno industriale”, di Rinaldo Gianola

La Rai manda in onda lunedì e martedì la miniserie «Adriano Olivetti – La forza di un sogno», dedicata all’avventura industriale, politica e culturale di un grande imprenditore italiano. L’Olivetti è scomparsa da anni, non c’è nemmeno più il suo nome sul listino di Borsa perché è stata assorbita da Telecom in uno dei tanti artifici finanziari dell’ultimo decennio.Non sappiamo se Luca Zingaretti è l’attore giusto e se sarà un successo, ma potrebbe essere l’occasione per consolarci di tutte le disgrazie che l’industria ha vissuto e vive, non solo per la recessione e altre minacce planetarie, ma anche per le nostre responsabilità, per i nostri ritardi, per la mancanza di coraggio, di uomini, di innovazione.
Anche se il rumore della politica, dalle sorti di Alfano alla campagna delle primarie del Pd, sovrasta tutto, non si può trascurare quella che oggi appare come una nuova emergenza economica e sociale. Proprio mentre ci illudiamo che il prossimo anno si possa finalmente manifestare una ripresina, mentre il governo mette in campo una legge di Stabilità che dovrebbe accompagnare, nelle sue intenzioni, il percorso di uscita dalla crisi, il motore economico del Paese, cioè l’industria, è ancora inceppato, si muove a stento, soffre. Si salvano in pochi, soprattutto quelli che fanno ricerca, innovazione e vendono all’estero. Il nostro autunno industriale si manifesta nelle ripetute strategie di ristrutturazione che imprese italiane e multinazionali annunciano per fronteggiare ulteriori cadute di mercato e per difendere i margini di profitto a costo di duri prezzi che naturalmente vengono fatti pagare ai lavoratori.
Grandi campioni nazionali, anzi ex a que- sto punto, come Telecom e Alitalia stanno vivendo momenti drammatici, tra scontri di azionisti, mancanza di fondi, ricerca di nuovi alleati e strategie. Se ne è parlato a lungo e ancora se ne parlerà. Forse ci tocca rimpiangere l’amata Sip, magari sognare la vecchia Alitalia che poteva comprarsi la Klm. No, non ne vale la pena guardare indietro. Ci facciamo solo del male. Però bisogna allargare lo sguardo per comprendere la fragilità di un tessuto industriale che, pur restando tra i primi nella manifattura europea, prende colpi ogni giorno, tutti i giorni, come ci fosse un disegno distruttivo che si alimenta certo del- la crisi, della nuova competizione internazionale, ma anche della latitanza, degli errori tutti nostri. Ieri la multinazionale svedese Electrolux ha annunciato una «revisione» delle sue attività produttive nel mondo: in sintesi vuol dire che almeno duemila perso- ne saranno licenziate, che i quattro stabilimenti italiani verranno messi sotto esame e probabilmente qualche centinaio di operai sarà sacrificato per migliorare l’attitudine competitiva degli impianti. Gli svedesi si presero la Zanussi trent’anni fa perchè anche allora non reggeva la vecchia formula del capitalismo familiare tricolore. Ma noi italiani siamo sempre stati dei campioni nell’industria del bianco. Electrolux ha fatto affari d’oro. Così come la Whirpool che ha capito il valore culturale, oltre che industriale, di ave- re la sede europea a Varese dove trionfava il cavalier Borghi della Ignis. Più in giù, a Fabriano, la Indesit taglia almeno mille operai mentre i dipendenti della Antonio Merloni non sanno più che santo pregare per assicurarsi un futuro minimo. Poi ci sarebbero i seicento esuberi della multinazionale Alca- tel Lucent nella Silicon valley di Vimercate e Brianza, dove anche la grande Stm dei microprocessori annuncia ristrutturazioni e tagli.
Se uno trovasse il coraggio bisognerebbe parlare dell’auto, la nostra industria, la Fiat e tutto il resto, l’indotto meccanico, il design, i progettisti, le fabbriche e gli operai. Una classe dirigente responsabile, in un Paese normale, ieri avrebbe preso in mano la pagi- na del Sole-24 Ore che annunciava la seguente notizia: «Auto, la produzione ai livelli del 1958». Avrebbe lanciato l’allarme, convoca- to gli stati generali dell’economia, magari avrebbe chiamato Sergio Marchionne per un caffè e uno scambio di idee. Al tavolo del ministro Zanonato, invece, la Fiat ha mandato un ex dirigente pensionato. Capito che aria tira? Di che cosa stiamo parlando? Di «Fabbrica Italia», delle balle di Marchionne? Quest’anno la produzione complessiva di tutte le fabbriche italiane sarà inferiore alle 400mila auto, il solo stabilimento Nissan di Sunderland ne produrrà circa il doppio. La Spagna, con una semplice politica di incentivi all’insediamento e un piano di trasporti finanziato dalla Bei, ha creato un’industria dell’auto con una produzione di 2,4 milioni di unità nel 2014. E noi? Zero. Il nostro modello industriale è rimasto ancorato prevalentemente al taglio dei costi, alla compressione dei diritti dei lavoratori, non potendo più contare sulle svalutazioni competitive. Aveva ragione la Cgil quando, oltre dieci anni fa, iniziò a segnalare il pericolo del declino. E adesso? Letta si era insediato a palazzo Chigi annunciando di voler guidare il governo della politica industriale. Si è visto poco. Bisogna fare delle scelte profonde, radicali. Obama ha riportato su il Pil americano con l’abbattimento del cuneo fiscale e lo sviluppo dello shale gas. In tutti i Paesi, a partire dalla Germania e dalla Francia, lavoro e industria sono le priorità. È urgente una svolta nelle scelte politiche ed economiche finalizzate alla crescita e all’occupazione, una svolta anche culturale. Un noto economista italiano sta ultimando un libro in cui propone di tornare in fabbrica, alla centralità della produzione e del lavoro per salvare il Paese. È una bella idea. Almeno proviamoci.

L’Unità 26.10.14

“Ma i colpevoli sono due”, di Stefano Rodotà

Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale — quello alla privacy.
Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti.
L’Europa reagisce, ma non è innocente. Non si può dire che questa sia una sorpresa, una vicenda imprevedibile, se non per la dimensione del fenomeno. Fin dai giorni successivi all’11 settembre, era chiaro che la strada imboccata dall’amministrazione americana andava verso l’estensione delle raccolte di informazioni personali, la cancellazione delle garanzie per i cittadini di paesi diversi dagli Stati Uniti, l’accesso alle banche dati private. Vi è stata una colpevole sottovalutazione di queste dinamiche e sono rimaste inascoltate le sollecitazioni di chi riteneva indispensabile un cambio di passo nelle relazioni tra Unione europea e Stati Uniti, per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden.
Angela Merkel ha reagito alla notizia di un controllo sulle sue telefonate. Ma negli anni Novanta si seppe di un sistema mondiale di intercettazione delle comunicazioni chiamato Echelon (gestito da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda), che riguardò anche Romano Prodi, allora Presidente del consiglio. Le reazioni furono deboli e il Parlamento europeo svolse una indagine assolutamente inadeguata. L’atteggiamento dell’Unione europea, quando ha negoziato con l’amministrazione americana in queste materie, è sempre stato debole, addirittura subalterno, e le pressioni delle lobbies americane continuano a farsi sentire in relazione al nuovo regolamento europeo proprio sulla protezione dei dati personali. Ora Barroso fa dichiarazioni molto dure, che tuttavia hanno senso solo se accompagnate da un profondo cambiamento di linea.
Tutto questo non diminuisce le responsabilità degli Stati Uniti, gravissime, perché è ormai chiaro che la gigantesca caccia alle informazioni non aveva come fine la sola lotta al terrorismo. Altrimenti non si sarebbero intercettate le comunicazioni di capi di Stato o di governo. Fin dai tempi di Echelon era chiaro che i dati raccolti servivano per conoscere strategie politiche ed economiche, per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee.
Vale la pena di ricordare le parole dette all’ultima assemblea dell’Onu dalla Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, anch’essa intercettata: «Senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia». E questa dichiarazione è stata seguita dalla cancellazione del suo viaggio ufficiale negli Stati Uniti. Siamo dunque di fronte ad una vera questione di democrazia planetaria, che nessuno Stato può pensare di affrontare da solo, sulla spinta di risentimenti nazionali o personali. Angela Merkel usa parole dure, Enrico Letta invoca verità, François Hollande protesta. Ma loro sono governanti della regione del mondo dove la tutela dei dati personali ha trovato la tutela più intensa, considerata come diritto fondamentale dall’articolo 8 della Carta dei diritti dell’Unione europea. Essi hanno l’obbligo e l’occasione per aprire una fase in cui la tutela dei diritti fondamentali sia adeguata alle nuove sfide tecnologhe, che si traducono in una offerta crescente di strumenti utilizzabili proprio per violare quei diritti.
Di fronte al Datagate non bastano fiere dichiarazioni di buone intenzioni, e quindi non ci si può appagare delle parole di chi, dagli Stati Uniti, promette misure in grado di “bilanciare le esigenze di sicurezza con quelle della privacy”. Non si tratta di scegliere la via delle ritorsioni, ma bisogna dire chiaramente che, proprio per le dimensioni della vicenda, questa non può essere gestita come un affare interno statunitense. Alcuni punti fermi, comunque, vanno stabiliti subito. Accelerare le nuove normative europee sulla privacy con un rifiuto netto delle pressioni americane. Rendere effettiva la linea indicata dalla risoluzione del Parlamento europeo che ha chiesto di sospendere l’accordo che prevede la trasmissione agli Stati Uniti di dati bancari di cittadini europei per la lotta al terrorismo, già per sé inadeguato per la debolezza con la quale l’Unione concluse quell’accordo. Mettere in evidenza l’impossibilità di proseguire la negoziazione del trattato commerciale in un contesto in cui la fiducia reciproca si è incrinata, sì che non è pretesa eccessiva chiedere agli americani azioni effettivamente risarcitorie e non cedere al ricatto di chi sottolinea i vantaggi di quel trattato, ponendo così le premesse per un perverso scambio tra benefici economici e sacrificio di diritti. E poiché l’intero continente latinoamericano ha adottato il modello europeo in questa materia, è davvero impossibile pensare all’avvio di iniziative coordinate, come esige una situazione in cui la tecnologia non conosce frontiere e, quindi, conferisce agli Stati più forti l’opportunità di divenire potenze globali? A questa globalizzazione delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei diritti altrettanto globale. Questa strategia più larga può incontrare l’opinione pubblica americana, dove già le associazioni per i diritti civili avevano avviato azioni giudiziarie e ora vi sono esplicite e diffuse manifestazioni di dissenso. Lì è vivo il “paradosso Snowden”, con l’evidente contraddizione legata alla volontà di perseguire proprio la persona che ha svelato le pratiche oggi ufficialmente ritenute illegittime. E non cediamo al riduzionismo, dicendo che si è sempre spiato e che, tanto, le tecnologie hanno già sancito la morte della privacy. Si è ormai aperta una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato.
Bisogna, allora, contestare la perentorietà dell’argomento che, in nome della lotta al terrorismo, vuole legittimare raccolte d’informazioni senza confini: da parte di molti, e in Italia lo ha fatto un esperto come Armando Spataro, si è dimostrata la pericolosità e l’inefficienza di raccolte d’informazione che non abbiano un fine ben determinato. Bisogna ricordare che la morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie per la sicurezza di affermare il loro diritto di violare la sfera privata, visto che ad essa non corrisponde più alcun diritto. E serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica, come stanno già cercando di fare. Bisogna seguire la tecnologia e mettere a punto regole nuove per la tutela della privacy, com’è accaduto in passato, e con una nuova determinazione, dettata proprio dalla gravità degli ultimi fatti. Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini.
Se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili.

La Repubblica 26.10.13

“Berlino e il nemico americano”, di Thomas Schmid

C’era una volta un’amicizia: quella che univa la Germania agli Usa. Un’amicizia tutt’altro che ovvia. Per lungo tempo la Germania aveva coltivato una profonda diffidenza nei confronti dell’America.
Della sua cultura, tacciata di superficialità, così come della sua tendenza a esaltare il successo economico e la ricchezza. Nella prima come nella seconda guerra mondiale i due Paesi si erano attestati su due fronti inconciliabilmente opposti. I nazisti demonizzavano gli Usa, definiti roccaforte della plutocrazia a guida giudaica. Perciò l’aiuto americano alla Germania del dopoguerra, moralmente screditata e in macerie, non era tutt’altro che scontato: non il piano Morgenthau, concepito per il ritorno a una società agricola, ma il piano Marshall, con in più una serie di programmi di rieducazione, scambi tra scolaresche e studenti universitari ecc. Una politica che inizialmente colse i tedeschi di sorpresa, ma ben presto li conquistò; e insegnò loro che non sempre la legge del più forte ha l’ultima parola. Quando poi, nel 1948, Berlino Ovest fu tenuta in vita grazie al ponte aereo che costò la vita a molti piloti americani, la simpatia dei tedeschi per gli Usa non conobbe più limiti. Gli ammiratori dell’«american way of life» erano ormai in maggioranza.
Ma tutto questo è acqua passata. Gradualmente i rapporti tra i due Paesi si andarono deteriorando. Se ancora nel 1963 John F. Kennedy venne accolto con grande entusiasmo nella Rft, e in particolare a Berlino, i suoi successori – e in particolare Ronald Reagan e George W. Bush – dovettero essere protetti dalla rabbia dei manifestanti. Certo, in gran parte le contestazioni si rivolgevano contro la guerra in Vietnam. Resta però il fatto che una volta sopito l’entusiasmo del primo dopoguerra, era riemersa l’antica diffidenza, lo scetticismo nei confronti degli americani. Come se i discendenti non avessero mai perdonato quei loro antenati che a suo tempo scelsero l’emigrazione, abbandonando il Vecchio continente. Negli ultimi decenni il legame transatlantico, che forse non fu mai vera amicizia, si è notevolmente allentato. E a ripristinarlo non è bastata neppure la fiducia dimostrata dal presidente George Bush, che dopo il 1989 si è adoperato con tutte le sue forze per sostenere e promuovere la riunificazione tedesca.
Oggi molti tedeschi hanno degli Usa un’idea prevalentemente negativa: se prima erano i «gendarmi del mondo», oggi li vedono come una nazione imperialista, prepotente nel perseguire i propri interessi senza alcun riguardo per i diritti degli stati minori. Si tratta indubbiamente di una visione deformata. Ma al momento si ha l’impressione che gli Stati Uniti colgano ogni occasione per conformarsi il più possibile e questo giudizio e avvalorare le accuse dei critici. Dopo i discutibili successi in Iraq e in Afganistan, hanno deposto il loro ruolo di pompieri del mondo. Voltate le spalle all’Europa, guardano ormai verso il Pacifico. Come ha dimostrato e dimostra tuttora il caso Nsa, per Washington gli interessi nazionali hanno priorità assoluta su tutto il resto.
Ormai si fa fatica a parlare di rapporti rispettosi e cordiali tra gli Usa con gli Stati alleati: la Germania ne ha fatto l’esperienza nel modo più duro e brutale. Se le notizie in proposito sono vere, è stato addirittura intercettato il cellulare di Angela Merkel: cosa che la cancelliera, nel suo ben noto stile sobrio e laconico, ha definito «totalmente inaccettabile». Eppure, sembra che si tratti di un dato di fatto; e l’amministrazione americana non si è sbilanciata più di tanto per smentirlo in maniera credibile. Ovviamente non è così che si migliorano i rapporti tra Usa e Germania. Si rischia anzi di dare spazio al sospetto, assai pericoloso in democrazia, che per la politica americana valga ciò che si dice della scienza e della tecnologia: se una cosa è fattibile, nulla e nessuno potrà impedire che un giorno si finisca per farla.
Ma chi ha questa intuizione, o conoscenza, dovrebbe stare bene attento a ciò che dice. Quando Edward Snowden lanciò le sue accuse contro la Nsa, Angela Merkel – che normalmente è cautela personificata – si mostrò tutt’altro che prudente. L’estate scorsa, in occasione della conferenza stampa federale, si azzardò a dire che «in terra tedesca valgono le leggi tedesche». Chi la conosce bene avrà notato la sua lieve esitazione prima di pronunciare queste parole. In un’altra occasione, nel corso di un’intervista, si è espressa in maniera ambigua: «Per quanto ne so – ha detto – non sono stata intercettata». Per cercare di completare questa frase ellittica e sommaria si potrebbe anche dire: «Io non ne sono informata, ma la cosa è senz’altro possibile ».
Le recenti rivelazioni mostrano con chiarezza lampante come a fronte di tecnologie che scavalcano agevolmente i confini nazionali, la sovranità degli Stati tenda a ridursi sempre più. A questo punto sarebbe piuttosto il caso di dire: non sempre, e non necessariamente, in terra tedesca le leggi che valgono sono quelle tedesche. Negli Stati europei non siamo più del tutto padroni in casa nostra.
Dovremmo però evitare di cadere nell’ipocrisia. Nell’affaire Nsa, la sobrietà della reazione di Angela Merkel sta a dimostrare che i servizi segreti e i governi europei erano perfettamente al corrente della portata delle intercettazioni in atto. E tutto induce a credere che almeno alcuni dei servizi segreti europei cooperino con la Nsa attraverso scambi reciproci di informazioni. Se la reazione tedesca è apparsa molto contenuta, è anche perché sappiamo bene che chi sta in una casa di vetro non dovrebbe fare a sassate. Nella vicenda della Nsa, le critiche contro gli Stati Uniti rischiano facilmente di apparire bigotte. Chi condanna quei metodi lo fa non per ragioni morali, ma perché non è all’altezza della tecnologia Usa. Lo ha detto molto chiaramente il sociologo francese Alain Touraine nella sua intervista a
Repubblica:
«La Francia e altri governi europei hanno programmi di sorveglianza elettronica che probabilmente violano la privacy. Tuttavia noi lo facciamo su scala minore, forse perché abbiamo mezzi meno potenti».
Cosa accadrà ora che Angela Merkel ha definito «totalmente inaccettabile» l’intercettazione del suo cellulare? Purtroppo, poco o niente. Negli Usa ne prenderanno atto, per poi passare ad altro. Il caso Nsa dimostra che nel complesso gioco dei rapporti con gli Usa, un’Europa priva di istituzioni comuni efficienti ha un peso del tutto insufficiente. L’accorta Angela Merkel lo ha detto fin dall’estate scorsa: nel campo della sicurezza dei dati l’Europa ha bisogno di un grande sforzo comune. Ma come spesso avviene, nei tre mesi trascorsi da allora nulla è cambiato, o quasi. Ecco il dilemma europeo: come conglomerato di stati nazionali l’Europa conta pochissimo. D’altra parte, è praticamente impossibile immaginare la Ue come Stato centralizzato, data la molteplicità delle sue culture, sia sul piano economico e giuridico che nello stile di vita.
L’autore è direttore di Die Welt Traduzione di Elisabetta Horvat

La Repubblica 26.10.13

“Morire davanti al ministero per una malattia dimenticata”, di Adriano Sofri

Proviamo a fare a meno della retorica, e a dire la verità. Per esempio, che le persone che non sono malate, o non gravemente, pensano che i malati di malattie gravi e progressive siano un po’ meno vivi. Più vicini a morire, dunque sempre meno vivi e poi quasi morti… La morte di Raffaele Pennacchio costringe a ripensarci. O piuttosto la vita. La forza può consumarsi, le abilità venir meno, ma la soglia fra la vita e la morte resta netta, e prima che sia varcata la vita è intera, anche in una carrozzella e col respiratore.
Il dottor Pennacchio è morto come si muore dalla parte giusta in una guerra giusta, in un’epoca in cui guerre giuste non ce ne sono più. È morto battendosi, con il coraggio e la tenacia che vengono dalla buona ragione. La sua vita di ieri non era dunque minore, anzi specialmente preziosa ed efficace. La grandissima maggioranza degli italiani avrà saputo solo così che tra i malati di Sla, che sono migliaia, molti si battono da anni facendo scioperi della fame, scioperi dei farmaci, presidii all’addiaccio. “Come faranno?”. Proprio per quello ce la fanno: chi crede di star bene, di essere al sicuro, non ce la fa.
La notizia di una malattia come quella fa stramazzare quelli che la ricevono, e che fino a un momento prima, “come tutti”, sentivano nel suo annuncio una dichiarazione di decesso iniziato, di aver cominciato a morire. Sempre di più, grazie all’esempio dei più coraggiosi, tanti malati hanno saputo sentirvi invece un cambiamento radicale della loro vita, l’inizio di un’altra vita, e di portarla fuori. Nomi sono diventati famosi ed esemplari, Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Stefano Borgonovo e tanti altri sportivi, Cesarina Vighy… Succede che non abbiano voglia di toni cortesi e ipocriti e vittimistici. Paola Nepi, che racconta “le mani addosso”, le mani altrui che da anni stanno su di lei, e di cui riconosce e smaschera ogni intenzione, ogni vibrazione. Severino Mingroni, affetto dalla locked-in syndrome,
che scrisse: «Avevo vissuto, ma sto vivendo intensamente solo dal 22 ottobre 1995, nonostante io sia un locked-in da allora, mentre la maggioranza degli umani sta semplicemente vegetando e non se ne accorge». Lui ha un computer a controllo mentale, una madre e una sorella. Lo aiutano. Lui aiuta loro, e una quantità di altri malati.
L’Agenda Coscioni ha una rivista, si chiama “Luca”, si imparano molte cose là, della ricerca scientifica, della medicina, e dell’umanità comune. C’è una fase di sperimentazione, autorizzata solo per i malati di Sla, dall’Istituto superiore di sanità e l’Aifa, del trapianto di cellule staminali in regione cervicale. Non promette miracoli. Ci sono superstizioni che promettono miracoli. Poi ci sono tante cose che sembrano minori, piccole, solo a chi, magari senza volere, pensa che quelle vite di malati siano minori, un po’ meno vite. Ottenere l’aggiornamento dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, avere un computer adatto, un sintetizzatore vocale, cose così, che sembrano superflue a chi non abbia fatto naufragio, e non debba attrezzare la sua sopravvivenza in un’isola sconosciuta.
Insieme al dottor Pennacchio c’erano tanti altri in piazza nella notte romana, vivi per intero. Rivendicano di potersi curare a casa propria, di poter vivere a casa propria. Ma anche dire così rischia di essere sbagliato e di tradirli. Quello che rivendicano, tutti, è di veder rispettato il loro diritto di scegliere. Non è una lotta fra assistenza a domicilio e strutture pubbliche o semipubbliche (salvo quando, ed è un’infamia, queste strutture sulle malattie speculino). È una lotta per scegliere. Contare su una struttura pubblica in cui cercare rifugio e aiuto quando ogni altra condizione appaia impossibile o peggiore, è un diritto fondamentale. Non esservi costretti, deportati, quando si possa ricevere l’assistenza di cui si ha bisogno e desiderio a casa propria, con le proprie persone, è altrettanto fondamentale. Si sono riascoltate ieri parole imbalsamate, “i vincoli di bilancio”. Di quelle bisognava far economia, non di denari. I malati e i loro famigliari sono ben diversamente competenti di ministri e sottosegretari, e quando spiegano, come spiegava ancora due giorni fa Raffaele Pennacchio, che l’assistenza a casa propria costa meno di quella nelle Residenze Sanitarie Assistite, vanno presi sul serio. Ma se non fosse così, se ci fosse uno scarto fra i costi rispettivi, potrebbe fare la differenza?
La libertà di scegliere è il punto che unisce tutti. Luca Coscioni e la sua battaglia ammirevole, lucida e scontrosa per la libertà di ricerca e di sperimentazione sulle cellule staminali. La decisione di Piergiorgio Welby sul momento in cui varcare la soglia, e il luogo e il modo, e in compagnia di chi. E la decisione del dottor Pennacchio e dei suoi compagni e compagne di continuare ad avere una casa, perché sono vivi, perché lui era vivo per intero, e meglio di altri ha saputo farne tesoro, della sua ultima notte di vita piena.

La Repubblica 25.10.13

“Il femminicidio non è solo un fenomeno da punire”, di Emma Fattorini

Tante le polemiche che hanno accompagnato il decreto governativo sulla violenza alle donne. Molte giuste, molte ingenerose. Quella più ripetuta è di essere stato affastellato insieme ad altri provvedimenti del tutto difformi. Ciò ha ferito tante donne e le tante legislatrici che si sono impegnate anima e corpo affinché la discussione sulla Convenzione di Istanbul avesse nelle commissioni e in aula un livello culturale, morale e politico, molto alto. Che non credo sia andato perso. Un lavoro che non si è tradotto pienamente nel decreto che però contiene cose buone nel metodo e nel merito: la rapidità e l’efficacia, la non verbosità massimalista, la genericità dei buoni sentimenti sempre corretti e benaltristi. Sì perchè tutte noi sappiamo che i problemi sono ben altri, che gli stereotipi, che la cultura e via elencando, ma intanto con questo decreto le donne portano a casa un pacchetto concreto: le corsie preferenziali nei processi, le modalità protette da garantire ai minori, la possibilità di rintracciare le entrate e le uscite dello stalker dal carcere, il permesso di soggiorno alle migranti.
Su due questioni il testo è davvero migliorato nel corso della discussione: la prima riguarda la copertura finanziaria, che certamente è ancora insufficiente, ma che riaggiusta lo squilibrio iniziale tra le tre p.: punizione, prevenzione, e protezione. La seconda riguarda invece un tema che il movimento delle donne ha discusso ed elaborato da tempo, dividendosi con argomentazioni serie e ponderate. Mi riferisco alla procedibilità d’ufficio (che si discusse in passato a proposito della legge sulla violenza sessuale) o, nel caso del decreto, all’irrevocabilità della querela.

Su questo c’è stato un dibattito molto acceso e pour cause. Personalmente diffido di ogni forma di procedibilità d’ufficio, perché toglie libertà alla donna, non risulta più efficace nella punizione, non funziona come deterrente, impaurisce ed espone la donna, qualora non si senta forte o semplicemente cambi idea, fosse anche per complicità con il suo torturatore. Le zone d’ombra tra amore e violenza, tra complicità e ribellione sono spesso imperscrutabili, e non possono mai trovare una soluzione legislativa davvero soddisfacente tra libertà e pena.

E, però il compromesso che si è raggiunto è equilibrato, e sufficientemente accettabile, perché prevede l’irrevocabilità solo per casi e reati gravissimi e diventa, invece per gli altri, revocabile, almeno in sede processuale. Questo lo ritengo particolarmente importante perché credo che la libertà e l’autonomia delle scelte femminili siano un «patrimonio» irrinunciabile.

C’è poi un aspetto che dovremmo ritenere non meno importante, quello dei minori: l’87% dei maltrattamenti avviene sotto gli occhi dei bambini e dei ragazzi. Spesso i giudici li affidano ai nonni paterni perché non crescano nell’astio verso quel genitore che si è macchiato del più efferato dei delitti e che rischia di renderli definitivamente e assolutamente orfani nel senso più orribile. E per questo si avvia una lungimirante politica, ancorché indiretta, di recupero dei maltrattanti.

Infine, per tornare alle ragioni profonde: se il fenomeno della violenza femminile non si può risolvere in termini punitivi, non ritengo neppure sia una «semplice» questione culturale, alimentata dai così detti e famigerati stereotipi che una mentalità più aggiornata e progressista supererebbe risolvendo così la questione. Purtroppo questa non è una cosa che si impara a scuola, con migliori programmi o indicazioni di comportamento più corretti. Con corsi di formazione o sensibilizzazione.

La violenza alle donne si annida nella crisi ormai avanzatissima dell’identità maschile e della difficoltà femminile a relazionarsi con essa. La donna è una vittima che, paradossalmente, è tale perché è diventata troppo forte. E così la causa profonda, più che sull’ educazione, risiede nella fragilità delle relazioni tra i sessi, nella solitudine che li accompagna ed in quella che è diventata una vera e propria trasformazione antropologica. Di questo bisogna essere consapevoli. Se non vogliamo fare chiacchere e lamentele dimostrative.

L’Unità 25.10.13