attualità, cultura, pari opportunità | diritti

“Il femminicidio non è solo un fenomeno da punire”, di Emma Fattorini

Tante le polemiche che hanno accompagnato il decreto governativo sulla violenza alle donne. Molte giuste, molte ingenerose. Quella più ripetuta è di essere stato affastellato insieme ad altri provvedimenti del tutto difformi. Ciò ha ferito tante donne e le tante legislatrici che si sono impegnate anima e corpo affinché la discussione sulla Convenzione di Istanbul avesse nelle commissioni e in aula un livello culturale, morale e politico, molto alto. Che non credo sia andato perso. Un lavoro che non si è tradotto pienamente nel decreto che però contiene cose buone nel metodo e nel merito: la rapidità e l’efficacia, la non verbosità massimalista, la genericità dei buoni sentimenti sempre corretti e benaltristi. Sì perchè tutte noi sappiamo che i problemi sono ben altri, che gli stereotipi, che la cultura e via elencando, ma intanto con questo decreto le donne portano a casa un pacchetto concreto: le corsie preferenziali nei processi, le modalità protette da garantire ai minori, la possibilità di rintracciare le entrate e le uscite dello stalker dal carcere, il permesso di soggiorno alle migranti.
Su due questioni il testo è davvero migliorato nel corso della discussione: la prima riguarda la copertura finanziaria, che certamente è ancora insufficiente, ma che riaggiusta lo squilibrio iniziale tra le tre p.: punizione, prevenzione, e protezione. La seconda riguarda invece un tema che il movimento delle donne ha discusso ed elaborato da tempo, dividendosi con argomentazioni serie e ponderate. Mi riferisco alla procedibilità d’ufficio (che si discusse in passato a proposito della legge sulla violenza sessuale) o, nel caso del decreto, all’irrevocabilità della querela.

Su questo c’è stato un dibattito molto acceso e pour cause. Personalmente diffido di ogni forma di procedibilità d’ufficio, perché toglie libertà alla donna, non risulta più efficace nella punizione, non funziona come deterrente, impaurisce ed espone la donna, qualora non si senta forte o semplicemente cambi idea, fosse anche per complicità con il suo torturatore. Le zone d’ombra tra amore e violenza, tra complicità e ribellione sono spesso imperscrutabili, e non possono mai trovare una soluzione legislativa davvero soddisfacente tra libertà e pena.

E, però il compromesso che si è raggiunto è equilibrato, e sufficientemente accettabile, perché prevede l’irrevocabilità solo per casi e reati gravissimi e diventa, invece per gli altri, revocabile, almeno in sede processuale. Questo lo ritengo particolarmente importante perché credo che la libertà e l’autonomia delle scelte femminili siano un «patrimonio» irrinunciabile.

C’è poi un aspetto che dovremmo ritenere non meno importante, quello dei minori: l’87% dei maltrattamenti avviene sotto gli occhi dei bambini e dei ragazzi. Spesso i giudici li affidano ai nonni paterni perché non crescano nell’astio verso quel genitore che si è macchiato del più efferato dei delitti e che rischia di renderli definitivamente e assolutamente orfani nel senso più orribile. E per questo si avvia una lungimirante politica, ancorché indiretta, di recupero dei maltrattanti.

Infine, per tornare alle ragioni profonde: se il fenomeno della violenza femminile non si può risolvere in termini punitivi, non ritengo neppure sia una «semplice» questione culturale, alimentata dai così detti e famigerati stereotipi che una mentalità più aggiornata e progressista supererebbe risolvendo così la questione. Purtroppo questa non è una cosa che si impara a scuola, con migliori programmi o indicazioni di comportamento più corretti. Con corsi di formazione o sensibilizzazione.

La violenza alle donne si annida nella crisi ormai avanzatissima dell’identità maschile e della difficoltà femminile a relazionarsi con essa. La donna è una vittima che, paradossalmente, è tale perché è diventata troppo forte. E così la causa profonda, più che sull’ educazione, risiede nella fragilità delle relazioni tra i sessi, nella solitudine che li accompagna ed in quella che è diventata una vera e propria trasformazione antropologica. Di questo bisogna essere consapevoli. Se non vogliamo fare chiacchere e lamentele dimostrative.

L’Unità 25.10.13