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“L’arroganza dell’America”, di Federico Rampini

L’opinione pubblica americana pensa ad altro (il pessimo debutto della nuova sanità obamiana), i mass media “dormono al volante”, Barack Obama è lento a reagire all’ultima puntata del Datagate. Il presidente è colto di sorpresa dalla durezza di Angela Merkel, dalla brusca telefonata “voluta da Berlino”, per protestare vibratamente contro lo spionaggio del cellulare della cancelliera. L’impreparazione della Casa Bianca e dell’America intera di fronte allo sdegno degli alleati, traspare nei bizantinismi adottati per placare, minimizzare. False smentite, bugie dalle gambe corte, tradiscono imbarazzo e pigrizia, sottovalutazione o arroganza. OBAMA risponde alla Merkel che “l’America non spia e non spierà la cancelliera tedesca” ma si guarda bene dall’usare il verbo al passato, dunque non esclude che lo spionaggio sia accaduto in passato. Trucchi semantici come quelli usati dal suo capo dell’intelligence, James Clapper. Di fronte alle rivelazioni di
Le Monde sulle 70 milioni di telefonate francesi sorvegliate dalla National Security Agency in un solo mese, Clapper smentisce che «siano state intercettate ». Ma lo spionaggio nell’èra di Big Data, per controllare quantità così smisurate di comunicazioni,
non ne invade tutti i contenuti bensì cattura i “meta-dati” (chi ha chiamato chi, da dove, quando). L’intercettazione dei contenuti scatta semmai ex post, se gli algoritmi che analizzano i meta-dati segnalano qualcosa di sospetto. Questo è il succo dei due maggiori programmi di spionaggio, Prism e Swift. Né Clapper smentisce l’intercettazione nelle ambasciate francesi a Washington e all’Onu. Quest’ultima indebolisce una linea difensiva di Obama: che la Nsa abbia «salvato vite umane, sventato attentati terroristici, anche ai danni dei nostri alleati ». No, lo spionaggio delle ambasciate all’Onu serviva per le manovre della diplomazia Usa ai tempi delle sanzioni contro l’Iran.
Quella difesa di Obama è la linea adottata fin dall’inizio del Datagate. In particolare in un altro memorabile screzio con la Merkel. A Berlino, 19 giugno: mancano poche ore all’atteso discorso del presidente Usa a Brandeburgo, che molti vorrebbero paragonare allo storico “Ich bin ein Berliner” di John Kennedy. La conferenza stampa che precede quell’evento è gelida, la Merkel avanza proteste per le prime rivelazioni sullo spionaggio della Nsa ai danni degli alleati. Obama le risponde con cortesia e fermezza: «Sono servite a prevenire attacchi terroristici, anche qui sul territorio tedesco». È l’argomento che i media Usa hanno ripreso, che l’opinione pubblica assuefatta al Grande Fratello post-11 settembre ha spesso accettato. Così ieri mattina, quando inizia la giornata politica a Washington, tutti i titoli dei Tg e le prime pagine dei giornali Usa sono monopolizzati da polemiche domestiche, sul software informatico impazzito che blocca le nuove assicurazioni sanitarie. Le proteste del presidente francese Hollande per lo spionaggio? Quattro righe nei notiziari esteri del
New York Times, un colonnino sul Wall Street Journal che precisa: «Il governo francese vuole già ridimensionare, non ci saranno conseguenze».
In questo clima, autoreferenziale e distratto su quel che accade nel mondo, Obama è colto in contropiede dalla cancelliera, dalla sua minaccia di “gravissimi danni” nella relazione bilaterale Germania-Usa. Difficile, stavolta, rispondere alla Merkel che il suo cellulare fu spiato per prevenire attacchi terroristici.
L’incidente con Berlino giunge al termine di un crescendo di disastri. Dilma Roussef, presidente del Brasile, non si è accontentata di cancellare una visita di Stato: è venuta qui all’Onu per proclamare la sua indignazione all’assemblea generale. Il Messico, alleato di ferro degli Stati Uniti, è in subbuglio per lo spionaggio sul suo ex-presidente. L’intera America latina sprofonda in un clima “antiyankee” quale non si ricordava da decenni. Valeva la pena pagare un prezzo così alto, pur di lasciare le briglie sciolte al Grande Fratello della Nsa? È questo il dibattito assente negli Stati Uniti, tra la classe dirigente e sui media. È vero, Obama promise già quest’estate una riforma delle normative sull’intelligence, nuove tutele per la privacy, un riesame complessivo del ruolo della Nsa. È la rassicurazione che lui ripete alla Merkel nell’ultima telefonata: «L’America sta rivedendo il modo in cui raccoglie intelligence, per bilanciare la sicurezza dei cittadini con le preoccupazioni sulla privacy». Ammesso che questa riforma avanzi, la sua lentezza tradisce la sottovalutazione del danno inflitto nel mondo intero al “soft power” americano.
Visti da Washington, gli europei sono sempre un’Armata Brancaleone che reagisce in ordine sparso. Hollande, Letta, Merkel, ciascuno parla per sé, con sfumature diverse, mentre non esiste ancora una protesta unitaria dell’Europa in quanto tale. Forse uscirà dal vertice Ue di oggi e domani. Nonostante questa tradizionale debolezza, dall’Europa si sente crescere la voglia di rappresaglie: contro la cooperazione anti-terrorismo tra le due sponde dell’Atlantico, o contro il patto per la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti. Per un’America obamiana che partiva da una popolarità a livelli record, la caduta dovrebbe essere inquietante. «Gli Stati Uniti non sanno avere alleati, per loro il mondo si divide tra nemici e vassalli», tuona da Parigi il presidente della commissione affari legislativi dell’Assemblée Nationale. Sono avvertimenti che stentano a “bucare” il muro di disattenzione degli Stati Uniti. Troppo abituati a considerarsi “la nazione eccezionale”, per misurare quel che stanno rischiando.

La Repubblica 24.10.13