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“Il tramonto di SuperMario che doveva salvare il Paese”, di Filippo Ceccarelli

Mario Monti o della dissipazione. Crudele è il destino dei salvatori della patria, chiamati a domare con successo lo spread e finiti vittime delle beghe para-condominiali di Scelta Civica. Passati dal garantire l’Italia con la cancelliera Merkel e ridotti a dolorosi zimbelli di un Cesa o di un Olivero. «Super Mario» avevano preso a chiamarlo anche a Strasburgo, e allora lui con ferma modestia: «No, no, solo Mario». Ventisette applausi alla presentazione del suo governo; e adesso un gelo imbarazzante ogni volta che il professore interviene al Senato, nemmeno il consenso pieno dei suoi, «un dilettante della politica» lo definiscono dopo avergli sfilato il partito, «la forza che ho ispirato e fondato», da sotto i piedi, come un tappeto, e addirittura ricevono felicitazioni per questo, ammirati bigliettini a sfondo cannibalico: «Complimenti, Pier, per come ti sei cucinato Monti».
Sventuratissimo tecnocrate, e si cercherebbe qualcosa, una parola, un gesto, un qualche segno che possa illustrare questa caduta come un autentico dramma, ma invano. La vera tragedia del potere, in questi tempi di chiacchiere e visioni a distanza, è che tutto si abbassa e s’immiserisce, e nella triste vicenda di Scelta Civica, tra velleità e fallimenti, caos e voltafaccia, si resta come ipnotizzati dal modo in cui le cronache hanno descritto gli stati d’animo di Monti dalle elezioni a oggi: deluso, eppure smanioso, poi risentito, quindi provato, poi ancora allibito e infine disgustato.
Patetici frammenti autobiografici accompagnano gli ultimi mesi: «Mi basta varcare i confini per essere riconosciuto», donde la tentazione di restarsene all’estero, senza più dover combinare pensieri e parole per tenere a bada gli appetiti dell’Udc, le bramosie dei superstiti di Fli o le frustrazioni del segmento montezemoliano. Come pure angosciosi soprassalti trasmettono di tanto in tanto lampi di verità: «Ho lavorato una vita intera a costruirmi una reputazione e adesso ho avviato la mia sistematica demolizione».
E comunque: quale incredibile e dissennato spreco di credibilità! Troppo facile adesso ricordare gli errori, il primo dei quali la «salita in campo», cioè mettersi in proprio, ma mischiandosi e perciò diventando in un paio di mesi come tutti gli altri, senza vocazione, e tuttavia accettandone i biechi codici, i nipotini, i cagnolini, la foto con Paulo Coelho, gli sportivi in lista, la recita «sugnu sicilianu» e la pizza napoletana con su scritto “Monti”. E questo già bastava a dimostrare come il gusto del potere, prima ancora dell’ambizione, trasfigura non solo le persone, ma anche le migliori e costose intenzioni.
Napolitano gli aveva detto: meglio di no. Lo stratega americano, a nome Axelrod, gli era costato 350 mila bombi; la società dei sondaggi, che dio la benedica, appena 48 mila. E però, anche dopo la sconfitta, del tutto indifferente al motto diabolicum perseverare, il professore si era messo in testa di fare il presidente del Senato. Gliela dovevano, «o me o nessun altro» fremeva con malcelato disappunto mostrando gli sms con cui il Quirinale, di nuovo, gli esternava il «divieto impostomi».
Non si pretenderà qui di seguire passo passo la genealogia e gli sviluppi dello scontro tra Monti e i suoi stessi parlamentari, oltretutto con la partecipazione straordinaria di uno specialista come Pierfurby Casini, ma certo la serietà e la sobrietà di un tempo erano già andate a farsi benedire. Ad aprile l’ex tecnocrate offeso toglieva il nome dal simbolo e dallo statuto; a maggio si impegnava di nuovo; a luglio minacciava nuovamente le dimissioni («Posso andarmene anche domattina»); ad agosto un ragazzetto incontrato per caso gli chiedeva: «Ma lei è triste e non avere più un lavoro?».
Arrivati a una certa età, sono domande cui è ancora più triste rispondere, altro che Bildenberg. Nel frattempo il ministro Mauro, come un sommergibilista, navigava in profondità estendeva la propria vogliosa agitazione al Ppe prefigurando grandiosi scenari centristi; e ironia della sorte, i berlusconiani erano tornati al governo e addirittura lo irridevano, come Brunetta, che dopo l’ennesima messa a punto l’aveva chiamato, anche evocando certe debolezze filogermaniche: «Il Grosse Rosikonen».
C’è forse una lezione, in questa parabola. La solita; che il potere è una bestiaccia che consuma anche le migliori personalità. Mario Monti, non super-Mario, apparteneva senz’altro a questa categoria. Ma l’uso scriteriato di risorse è un guaio vero, e non riconoscerlo in tempo porta ad altri peggiori guai.

La Repubblica 18.10.13

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