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«Così i social impact bond svuotano (davvero) le carceri», di Federica Fantozzi

«Il mio nome è Bond. Social Impact Bond». Si presenta con un promo accatti- vante che fa il verso a 007 uno degli strumenti finanziari più innovativi degli ultimi anni. Il Sib è un’obbligazione di risultato della finanza sociale: garantisce ai privati investitori un buon tasso di rendimento a medio termine se è stato raggiunto un certo risultato di interesse pubblico. Come, ad esempio, reinserire i detenuti e svuotare le carceri in modo strutturale.

Nato nel mondo anglo-sassone, il Sib presenta diversi vantaggi: sposta il rischio finanziario iniziale sui privati sgravando le esangui casse dello Stato e degli enti locali; fornisce servizi utili se non in- dispensabili alle comunità; offre una motivazione a persone che, per diversi motivi, vivono ai margini.

Ne parliamo con Janette Powell, coordinatrice delle attività di Social Finance, la società di consulenza che ha dato vita nel 2010 al progetto pilota nel carcere inglese di Peterborough. Illustrato al convegno di Uman Foundation, il progetto ha suscitato l’interesse del Guardasigilli Cancellieri. Funziona così: se nel 2014 il tasso di recidiva di 3mila detenuti scenderà almeno del 7,5% i 17 investitori che hanno raccolto un capitale di 5 milioni di sterline incasseranno per 8 anni un rendimento annuo del 13% pagato dal Tesoro con una parte dei proventi della lotteria nazionale.
Siete stati i pionieri e ora il modello si sta diffondendo. Quali sono le ragioni del successo?
«È un approccio radicale che dimostra la possibilità di trovare una strada nuova e più efficace per ridurre il crimine, i costi relativi e la necessità di prigioni. È una vittoria per la società. Ma anche per chi nella vita ha sbagliato».
Chi può partecipare al piano di Sib?
«I nostri clienti – noi li chiamiamo così – devono avere condanne inferiori a un anno. Quei 3mila sono il 70-90% della platea titolata a Peterborough. Ma molti mentono pur di iscriversi. Scoprirli è facile, significa però che il progetto ha una reputazione positiva dentro il carcere. È un buon indicatore».

Quali sono i reati più comuni ammessi?

«Taccheggio nei negozi, comportamenti antisociali come disturbo della quiete pubblica, alcol e droga. La violenza solo in caso di risse al pub o abuso domestico, che però richiede trattamenti specifici. In comune c’è il fatto che sono crimini commessi molte decine di volte, anche centinaia. E la pena detentiva non ha risolto nulla».

Lei crede che il reinserimento sia, invece, risolutivo?
«Guardi, ho 40 anni e ne ho trascorsi 20 nel terzo settore. All’inizio pensavo che andare in prigione fosse una punizione e che, una volta usciti, si facesse di tutto per non tornarci. Molti invece fuori non hanno nulla: famiglia, proprietà, status. Per loro la cella diventa un modo di vita, persino un desiderio. Un ambiente familiare e riparato, più sicuro della strada. Così ho cambiato prospettiva».

Qual’è oggi il suo approccio al problema del crimine di derivazione sociale?
«E’ facile dire che ognuno sceglie la propria strada. Io vedo che se si dà speranza a queste persone loro sono prontissimi a coglierla. Ci si aggrappano. Vogliono una vita normale, come tutti».

Voi cosa fate per dargliela? Qual è il vostro compito?
«Dobbiamo inventare un “pacchetto di sostegno” personalizzato. Ogni cliente è diverso e ha motivazioni private. Serve flessibilità».

In concreto?

«Il caso di Paul è abbastanza tipico. Ha 30 anni, scolarizzazione bassa, la sua matematica è al livello di un bambino di 5 anni. Ha 51 precedenti penali. Non è molto, abbiamo clienti con 250, ma lui è ancora giovane sebbene già noto alla polizia. La prima attività, quando era ancora in prigione, è stata un corso per essere padre: ha un figlio piccolo che all’epoca non vedeva mai. Poi gli abbiamo insegnato a compilare correttamente i moduli per la previdenza sociale: se hai i sussidi non rubi».

Il punto cruciale del reinserimento, però resta il lavoro. Che sbocchi ci sono? «Sosteniamo i costi per la formazione e le certificazioni da operaio: una procedura cara. Altri diventano chef, barman, giardinieri, decoratori di interni».

Chi sono i finanziatori?

«Trust ed enti di beneficenza, ma anche ricchi privati. Nei prossimi anni però credo che il mercato si aprirà ai piccoli investitori come per le normali obbligazioni dello Stato».

Il ministro della Giustizia Cancellieri, dopo la vostra tavola rotonda, ha detto che vorrebbe andare nella direzione dei social bonds. Avete contatti con l’Italia? «Abbiamo manifestazioni di interesse. E non vediamo l’ora di esplorare queste opportunità. In questo momento di ristrettezze è essenziale spendere bene, e con i Sib paghi solo se l’iniziativa ha successo. Nel mondo sta suscitando molta curiosità. L’Italia deve solo decidere da che settore cominciare: crimine, salute, minori, homeless».

L’Unità 17.10.13