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“La lente dell’Europa sui conti pubblici”, di Federico Fubini

Se c’è una novità nell’ultimo vertice dell’Fmi, è in ciò che non è successo. Per la prima volta si è smesso di parlare ossessivamente dell’euro. Il contagio partito in Grecia nel 2010 non tiene più svegli la notte i mandarini delle diplomazie e delle banche centrali. Nei giorni della legge di stabilità, il governo rischierebbe però di trarre il segnale sbagliato se pensasse che anche l’Italia è uscita dai radar: l’esame che questa manovra sta per affrontare a Bruxelles potrebbe dimostrare l’opposto nel giro di sei settimane.
Nessuno in realtà nella Commissione europea intende pronunciarsi a caldo sulle misure. Non è sorprendente, benché proprio la mezzanotte di ieri fosse la scadenza data al governo da Bruxelles per inviare il provvedimento. È tutto troppo «nuovo e delicato» per commentare, si spiega, sia a causa di fattori legati all’Italia in particolare che per il quadro complessivo dell’area euro. C’è il caso nazionale: visto da Bruxelles o da Berlino questo appare – a ragione o a torto – il solo paese in crisi a restare poco leggibile; Grecia, Portogallo, Spagna o Irlanda si sono dimostrate più fragili, ma tutti in Europa ormai hanno un’idea più o meno chiara delle loro prospettive. Se non altro perché sono ancorate ai piani di salvataggio, su di loro la visibilità a un anno o due sembra assicurata. Si capisce cosa faranno e si intuisce come risponderanno i mercati. Invece per l’Italia, è il timore diffuso in Europa, molto meno: ed è la più pesante delle economie vulnerabili, quella il cui impatto si fa sentire su tutto il sistema.
È con questo spirito che l’esame della legge di stabilità sta per iniziare a Bruxelles in condizioni inedite. Quest’autunno per la prima volta si applica la cornice di regole che Mario Draghi, presidente della Bce, ha chiamato «fiscal compact». È un «patto di bilancio» imperniato su pochi pilastri che cambiano la natura stessa della sovranità nazionale. Da ora in poi, ogni proposta finanziaria passerà al vaglio di Bruxelles prima che il parlamento del paese coinvolto la approvi; l’esame preliminare serve a chiedere (di fatto, a imporre) modifiche all’impianto se la manovra risultasse incoerente con le regole europee e gli obiettivi. Per l’Italia ciò significa che entro fine novembre la Commissione prima e l’Eurogruppo dei ministri finanziari poi guarderà a fondo l’impianto del bilancio. Quindi si pronuncerà. Non è un caso che il mese prossimo siano già in agenda due vertici dell’Eurogruppo.
Il governo arriva a questo passaggio pieno di trappole mandando Bruxelles, secondo il Financial Times, una versione della manovra che ieri mostrava ancora delle caselle bianche. La promessa fatta alla Commissione è di riempirle fra qualche giorno, non appena ci sarà l’accordo di tutti. Eppure all’attivo ci sarebbe anche un po’ di credibilità. Ieri Olli Rehn, il commissario Ue agli Affari monetari, ha detto che l’Italia ha dei margini d’investimento in più nel 2014 perché il suo deficit resta sotto il 3% del Pil. Non era scontato. Alla Francia per esempio è stato permesso di rinviare la stretta di bilancio e restare sopra il 3%, ma la vigilanza europea sui conti di Parigi si è fatta asfissiante. La lista di rassicurazioni richieste ai francesi è lunghissima; a confronto, il governo italiano viene marcato meno stretto.
Questo non significa che l’esame europeo sarà una passeggiata, al contrario. In base al «fiscal compact», l’Italia dovrebbe ridurre il suo debito pubblico rapidamente a partire dal 2015: sarebbe una rivoluzione copernicana di cui oggi si faticano a vedere i presupposti, ma la legge di stabilità verrà misurata anche su quell’impegno. Quanto alla Commissione, se quello di Rehn è un segnale, potrebbe dimostrarsi meno severa negli atti pubblici che non nei colloqui privati. Poi però si andrà all’Eurogruppo, dove ogni governo ha una sensibilità e una convenienza diversa. In Germania per esempio si sono già rifatti i conti sui numeri di debito, deficit e saldi al netto degli interessi contenuti nell’ultimo Documento di economia e finanza del Tesoro italiano. E la conclusione dei tecnici tedeschi è che quelle stime sono fragili, niente affatto a prova di bomba. A Berlino molti pensano che l’Italia non stia facendo la sua parte, dopo aver incassato un sostegno provvidenziale grazie alla disponibilità della Bce a intervenire, protetta dal tacito assenso di Angela Merkel.
La cancelliera non ha ancora il suo governo post- elezioni ed è improbabile che voglia creare un caso politico sul grande vicino del Sud proprio ora. Ma le regole europee sul «fiscal compact» sono nuove, nessuno vuole che perdano subito mordente. Non ha voglia di concedere sconti l’Olanda, pressata com’è dai partiti anti-euro in casa e dall’infrazione a Bruxelles per il suo deficit sopra il 3%. Ha solo elettori da guadagnare dall’intransigenza anche il governo Helsinki. E per parte sua l’Italia non ha molti alleati. La Francia in Europa è in perdita di velocità, piombata in un silenzio assordante per la crisi di fiducia che la paralizza. E la Spagna, vincolata al pacchetto di salvataggio Ue per le sue banche, vorrebbe semmai che l’Italia la raggiungesse: da mesi Luis de Guindos, ministro delle Finanze di Madrid, ripete in privato che anche Roma dovrebbe chiedere un aiuto europeo.
Il ministro Fabrizio Saccomanni, su questo sfondo, avrebbe bisogno di una manovra solidissima. Lui, il ministro agli Affari europei Enzo Moavero e il premier stesso sarebbero perfettamente in grado di difenderla a Bruxelles. Ne hanno le competenze e i rapporti. Tutti in Europa però hanno visto come la strategia per tenere il debito sotto controllo è basata, da ora al 2017, su un aumento previsto del surplus di bilancio di 45 miliardi (prima di pagare gli interessi sul debito). In teoria sono quasi tutti tagli di spesa. Da stamani, molti ne cercheranno invano traccia nella legge di stabilità.

La Repubblica 16.10.13

Ferrovie Carpi, Ghizzoni “Insoddisfatta della risposta delle FFSS”

La parlamentare carpigiana aveva presentato una interrogazione al Ministero dei trasporti. I gravi disservizi che si sono registrati nella tratta ferroviaria Modena-Mantova questa estate, in agosto in particolare, sono legati, soprattutto, alla turnazione per ferie del personale: è questa la sostanza della risposta che le FFSS hanno fornito al Ministero dei Trasporti interrogato in proposito dalla parlamentare carpigiana Pd Manuela Ghizzoni. “E’ una risposta insoddisfacente – ha commentato l’on. Ghizzoni – tutte le aziende devono far fronte al calo del personale per le ferie estive, è compito della direzione governare il fenomeno in modo da tutelare i diritti dei lavoratori, ma anche quelli degli utenti del trasporto pubblico locale. E invece le Ferrovie dello Stato stanno privilegiando quei settori del trasporto che risultano più redditizi, a scapito di tutti gli altri”.

Per tutta l’estate, ma soprattutto nel mese di agosto, i pendolari che utilizzano la tratta ferroviaria Modena_Mantova hanno dovuto subire pesanti disservizi: cancellazioni di corse e ritardi erano all’ordine del giorno con gravi ripercussioni sui tempi di vita e di lavoro degli utenti. La parlamentare carpigiana del Pd Manuela Ghizzoni ha raccolto la denuncia dei pendolari e l’ha portata, con una specifica interrogazione, all’attenzione del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi. Nella giornata odierna, dagli uffici del Ministero è arrivata la risposta in Commissione, una risposta, però, che non ha soddisfatto l’interrogante. Il Ministero, infatti, si è limitato a riportare le informazioni fornite dalle Ferrovie dello Stato: i disservizi estivi si sono verificati per “una serie diversificata di cause, tra cui una contingente indisponibilità di agenti (per assenze imprevedibili e improvvise) che ha reso necessario rimodulare i turni del personale in un periodo, quello estivo, in cui viene, fra l’altro, attuata la turnificazione del personale in servizio per il godimento delle ferie contrattualmente previste”. “Certo che è più probabile che il personale vada in ferie in agosto rispetto a un altro periodo dell’anno – ha commentato l’on. Ghizzoni – è un problema di tutte le aziende, ma è proprio la direzione dell’azienda che deve farsi carico di “governare” i piani ferie in modo da tutelare i diritti dei lavoratori e quelli degli utenti. Cosa che non è successa questa estate, ma, soprattutto, cosa che succederà anche la prossima estate se non vi sarà un impegno ulteriore di Ferrovie dello Stato”. Rispondendo al rappresentate del Ministero, infatti, Manuela Ghizzoni ha ribadito la propria insoddisfazione rispetto a una risposta formale da parte di FFSS che non comporta impegni per il prosieguo. “Purtroppo – commenta l’on. Ghizzoni – anche in questa risposta si legge in controluce quello che avevo già denunciato nel testo della interrogazione: in questo momento la direzione delle Ferrovie dello Stato è tutta concentrata a far quadrare il bilancio economico dell’ente, investendo quindi nei settori più redditizi, a scapito di quelli, come il trasporto pubblico locale, che non sono altrettanto remunerativi. Eppure da un’azienda pubblica – conclude l’on. Ghizzoni – ci aspetteremmo una maggiore attenzione alle esigenze degli utenti, tutti gli utenti, non solo quelli che viaggiano su tratte redditizie. E’ per questo che continueremo a vigilare e a portare all’attenzione del Governo gli eventuali disservizi affinché venga impresso un deciso cambio di rotta nelle politiche aziendali delle Ferrovie dello Stato”.

“Economia, Nobel bifronte”, di Ronny Mazzocchi

L’economia si conferma l’unica disciplina in cui due persone possono dividere un premio Nobel dicendo cose opposte. È successo già nel 1974 con Friedrich Von Hayek, un ostinato antisocialista e liberista convinto. Il quale si ritrovò sul palco dell’Accademia di Svezia in compagnia di Gunnar Myrdal, che oltre ad essere un brillante economista era stato anche ministro del partito socialdemocratico svedese.

Stavolta ad essere premiati a Stoccolma da Re Gustavo per i loro studi sull’andamento del prezzo delle azioni saranno tre prestigiosi economisti americani: Roger Fama, Lars Peter Hansen e Robert Shiller.

Se nessuno ha da eccepire sulla qualità dei lavori dei tre premiati, qualche commento in più si può fare sulla curiosa accoppiata fra Fama e Schiller. Il primo è stato il pioniere di quella che è tradizionalmente conosciuta come la teoria dei mercati finanziari perfetti. Il secondo è invece noto soprattutto come uno dei suoi più famosi e brillanti critici. Nei suoi lavori più noti, Fama sostiene che i mercati finanziari generano sempre prezzi giusti, tenendo conto di tutte le informazioni disponibili. Il prezzo di ogni azione rispecchia sempre le migliori ipotesi di analisti, investitori e manager circa le prospettive di guadagno futuro. Detto in altri termini, i prezzi finanziari sono legati ai «fonda- mentali» dell’economia. Non riflettono mai un ingiustificato pessimismo o ottimismo. Non esiste, cioè, la possibilità di bolle speculative. Se i prezzi salgono al di sopra dei livelli giustificati dai fondamentali, entrano in gioco gli speculatori ben informati che vendono le azioni in loro possesso fino a che i prezzi non tornano al livello giusto. Viceversa, se i prezzi scendono al di sotto dei loro valori reali, gli speculatori intervengono comprando.

Il messaggio centrale della teoria dei mercati efficienti è che se il prezzo di una azione cambia, significa che qualcuno da qualche parte ha scoperto qualche nuova informazione prima ignota.

Tale ipotesi ha tuttavia un forte limite logico: se davvero i prezzi delle azioni in un dato momento riflettono tutte le informazioni disponibili sulle prospettive economiche e su tutti gli altri fattori che riguardano una determinata società, gli investitori non avranno alcun incentivo a scoprire informazioni ed elaborarle. Ma se nessuno scopre ed elabora informazioni, i prezzi delle azioni non rifletteranno quelle informazioni e il mercato non sarà efficiente. Un paradosso che sembra trovare conferma nella analisi empiriche condotte da Shiller.

Osservando il comportamento dei mercati finanziari, il neo premio Nobel arriva ad affermare che difficilmente tutti quei movimenti nei prezzi delle azioni possono essere spiega- ti con la teoria dei mercati efficienti. C’è qualcosa di diverso dai fondamentali a determinare quegli andamenti così erratici, qualcosa che ha a che fa- re con gli «spiriti animali» e la psicologia di massa. Quando il prezzo di una azione sale determinando il successo di alcuni investitori, questo attira l’attenzione dell’opinione pubblica, favorisce il passaparola, crea entusiasmo e fa aumentare l’aspettativa di ulteriori aumenti di prezzo in futuro. In un contesto di questo tipo, con i prezzi sottoposti al «giudizio convenzionale» e non ai fondamentali, gli speculatori – invece di ristabilire i prezzi corretti come sostiene Fama – avrebbero la tendenza ad alterare ancora di più i prezzi per ottenere facili guadagni. Le bolle speculative e le successive crisi finanziarie non sono così più una fantasia, ma una concreta possibilità.

Certo, condensare una intera carriera di due economisti ad una singola posizione è senza dubbio riduttivo. Negli ultimi 30 anni Fama è stato decisamente più ecclettico e Shiller ha scritto non pochi contributi sulla bon- tà dell’uso dei derivati. Quel che è certo è che, sui mercati finanziari e sul loro comportamento, le loro posizioni sono diverse e comunque legittime al punto da meritare entrambe il riconoscimento più ambito per uno studioso.

Quella che sembra una bizzarria dell’Accademia di Svezia ci consente di ricordare una cosa troppo spesso dimenticata: gli economisti non sono paragonabili ai dentisti. Su tantissime patologie del nostro sistema economico non solo non c’è condivisione sulle cure, ma nemmeno sulle diagnosi. E – a dispetto di quanto affermato dal comitato che assegna il Premio Nobel – non sono nemmeno dei buoni indovini se, 150 anni dopo il celebre «Calcul de Chances» di Jules Regnault, non sono ancora riusciti a trovare una spiegazione soddisfacente della dinamica dei prezzi delle azioni.

L’Unità 15.10.13

«Il sistema rischia il collasso Insostenibili altri sacrifici», di Bianca Di Giovanni

«Qui è a rischio la sostenibilità del sistema». Vasco Errani, presidente della Conferenza Stato-Regioni, è appena uscito da una raffica di incontri con il ministro Delrio. Sulla Sanità le Regioni non arretrano neanche di un millimetro: lo hanno fatto capire negli ultimi giorni, insieme al ministro Beatrice Lorenzin. Anzi, aspettano che il ticket abolito venga sostituito con due miliardi di trasferimenti. Le Regioni hanno appena fatto un accordo positivo con il governo sull’ utilizzo dei fondi strutturali per il 2014-2020. Il clima è mite, ma intanto dal Tesoro filtrano notizie allarmanti. «Sulla Sanità non sono possibili altri tagli. Le notizie che sono uscite in queste ultime ore ci confortano e sono il segno positivo dell’ ascolto da parte del governo delle nostre posizioni – dichiara il presidente dell’Emilia Romagna uscendo da Palazzo Chigi – Significa che il fondo 2014 per la sanità dovrà passare da 107,9 miliardi di euro a 109,9 miliardi di euro ». Eppure le voci (e le carte) dicono altro.

Presidente, ma le ha viste le indiscrezioni. Nella bozza che circola in queste ore il taglio c’è, ed è anche pesante.

«Io sto a un comunicato del Tesoro che smentisce tutte le indiscrezioni circolate in queste ore. Resto a quel-o. D’altro canto di indiscrezioni ce ne sono sempre molte».

Sì, ma anche di smentite, che poi magari non sono proprio vere. Se quei numeri fossero confermati?
«Per me vale un elemento, che ho ripetuto in tutte le sedi. La Sanità ha già contribuito ai conti pubblici con 30 miliardi di euro negli ultimi anni. Su questo c’è un accordo con il governo, che ribadiva esattamente questo. Inoltre dovrebbero essere riconosciuti i due miliardi dei ticket: questo per noi è irrinunciabile. Anche perché questo ci è stato detto».
Altrimenti?

«Altrimenti è messo a rischio il governo del comparto, non è pensabile proseguire con il servizio».
Ma cosa dice il governo sui ticket?

«Dice che ci trasferirà i due miliardi che avrebbero dovuto arrivare da quella misura, giudicata incostituzionale dalla Consulta».

Sì, ma invece di nuovi trasferimenti arriva un taglio. Sembra quasi che lei non ci creda…
«Vedremo. Vorrei ricordare che lo stop a questo tipo di intervento non arriva solo da me. Arriva da tutti i governatori, dallo stesso ministro della Salute e da molti altri osservatori».

Le esigenze di finanza pubblica per l’esecutivo vengono prima di tutto… «Vorrei ricordare che su questo punto c’è stato un accordo prima dell’estate, mi piacerebbe che il governo tenesse fede a quell’accordo». E se non lo facesse?

«Si aprirebbe una situazione molto complicata. Il risultato sarebbe l’oggettiva impossibilità di concludere il patto della salute, significherebbe la paralisi del sistema, perché già oggi siamo oltre le nostre possibilità». Lei parla di 30 miliardi: in quanti anni? «Trenta miliardi sono i tagli stabiliti dal 2010 al 2015. Questo significa che già a legislazione vigente noi subiamo dei tagli. Se a questi se ne aggiungono anche altri, davvero la cosa diventa ingovernabile. Lo hanno detto tutti: la Corte dei conti, l’Ocse, l’Istat. Forse bisognerà pure ascoltare gli esperti, o no?»

Nella Sanità riuscite già a utilizzare i costi standard che si evocano da molto tempo?
«I costi standard li introdurremo gradualmente. Ma è impossibile affrontare questo passaggio con l’emergenza che incombe. Serve la sostenibilità. Anzi, per dirla ancora più chiaramente, serve il Patto della salute, e quindi la sostenibilità. Senza questi elementi, nulla è possibile». Quando vi vedrete di nuovo con il governo.

«Per ora non ci sono appuntamenti fissati. Aspettiamo domani l’esito del consiglio dei ministri, che speriamo ancora sia più positivo delle indiscrezioni di oggi (ieri, ndr). Dopodiché vorremo avere un confronto di merito con il governo sulle cifre, su ogni singola voce che si vuole toccare».

L’Unità 15.10.13

“Corsi di sostegno, i tempi si allungano”, di Alessandro Giuliani

Nell’incontro di giovedì prossimo con l’amministrazione, i sindacati chiederanno di attuare una nuova rilevazione delle candidature dei prof sovrannumerari: quella attualmente in mano al Miur è infatti superata. Le operazioni porteranno però via alcune settimane, rimandando la pubblicazione dei bandi universitari per la selezione dei 6.398 abilitati che non versano in questo stato. Per i corsisti di ruolo senza cattedra il corso dovrebbe essere gratuito.
Avviare con celerità i corsi di riconversione per soprannumerari. Ma realizzando prima una nuova rilevazione nelle scuole, perché quella attuata un anno fa è ormai superata. E non prevedere costi per i corsisti. Sono le richieste principali che i sindacati presenteranno giovedì mattina, in occasione dell’incontro programmato al Miur all’amministrazione sulle modalità di avvio dei corsi di specializzazione , da realizzare nell’anno accademico 2013/2014 e con priorità rispetto alle attività formative omologhe rivolte a 6.398 docenti abilitati.
L’incontro si svolgerà a quasi due settimane dalla pubblicazione della nota n. 10402, con cui viale Trastevere ha invitato Usr e atenei a far partire i corsi di sostegno. Nella nota il Miur sottolineava “l’urgenza di avviare prioritariamente i corsi destinati ai docenti delle classi di concorso in esubero”. Ad essere interessati sarebbero non pochi docenti: dalle ultime rilevazioni nazionali, infatti, risultano oggi senza cattedra oltre 8mila insegnanti, in gran parte operanti alle superiori. Solo successivamente si passer à alla specializzazione di coloro che non versano in questo stato (in gran parte si tratterebbe di precari).
Ora, i sindacati temono che per abbreviare i tempi di allestimento dei corsi l’amministrazione proceda direttamente alla loro attivazione. Senza aggiornare le candidature. Che, a distanza di un anno, potrebbero presentare diverse novità: una parte di quel personale, per esempio, potrebbe aver ritrovato la sua cattedra, un’altra parte potrebbe essere andata in pensione. E c’è chi invece dal 1° settembre scorso potrebbe essere entrato nel “tunnel” dei senza posto. Insomma, per i sindacati non vi sono dubbi: quelle liste vanno riviste. Magari aprendo una “finestra”, per fornire la propria adesione ai corsi, di soli 10-15 giorni. In modo tale da far partire le attività formative in tempi rapidi. E sbloccare lo stato di sostanziale stand by.
Con l’occasione, i sindacati faranno all’amministrazione anche altre richieste. Ad iniziare dalla consistenza dei corsi, che dovranno ricalcare quelli rivolti al personale solamente abilitato: le full immersion, insomma, non sembrano essere gradite a nessuno.
I rappresentanti dei lavoratori chiederanno inoltre garanzie sulla gratuità dei corsi. Anche in questo caso la risposta dovrebbe essere positiva. Nella nota ministeriale 10402 si fa infatti riferimento ad un’altra nota, la DGPER n. 2935, risalente al 17 aprile 2012 , attraverso cui il Miur ha dato attuazione al decreto direttoriale n. 7 del 16 aprile 2012 , il Decreto che, in pratica, ha istituito e regolamentato gli stessi corsi specializzanti (previo accordo con la Conferenza nazionale dei presidi di Scienze dalla formazione). E in quest’ultimo provvedimento il Miur sottolineava che le specializzazioni sul sostegno sarebbero state attivate per la “piena integrazione degli alunni portatori di disabilità fisiche, psichiche e sensoriali”, solo “su base volontaria” e riservati a “docenti delle classi di concorso o tipologie in esubero, con particolare riguardo a tutte le classi di concorso interessate da restrizioni di orario prodotte della riforma in atto”. Inoltre, si specificava,che il numero dei corsi sarebbe stato “programmato” (senza però esplicitare la quota massima di partecipanti) e che sarebbe stato lo stesso Ministero i coprire gli interi costi delle formazione dei soprannumerari. Salvo sorprese, quindi, i costi dovrebbero essere a carico del Miur.

La tecnica della Scuola 15.10.13

“Mi presento, sono l’avvocato degli scolari”, di Mila Spicola

Buongiorno, sono l’avvocato della categoria studenti 0-12, quella che in genere non parla non si lamenta, non scende in piazza e non occupa. I miei assistiti assistono (non voglio cercar sinonimi) da parecchio tempo allo scontro tra due opposte fazioni ideologiche: a sinistra quella della tesi del «docente eroe, bistrattato, non capito, che lavora in condizioni svantaggiate, pagato poco, dileggiato da tutti, che rimane a soffrire anni di precariato e dopo anni di precariato viene buttato per strada» e a destra quella del «docente non all’altezza, impreparato, che lavora poco, solo 18 ore, in una categoria troppo numerosa e che fa comunque rimanere gli studenti italiani ultimi in lettura e matematica». Esattamente per questo ultimo passaggio i miei assistiti hanno deciso di rivolgersi a me e di agire per le vie legali adombrando accuse di totali incompetenza e superficialità nell’affrontare problemi e questioni che in fondo in fondo riguarderebbero per primi loro. Primo punto. Le ragioni e le cause per i mali addotti da entrambe le fazioni sono ascrivibili a responsabilità individuali dei docenti, a responsabilità complessive di categoria o, molto più semplicemente a ragioni di sistema? Secondo punto: qualcuno pensa di uscire dalle rispettive gabbie ideologiche per praticare in modo maturo, serio, dati alla mano, il difficilissimo spazio della terra di mezzo? Perché in quella terra di mezzo, ove lo si fosse dimenticato, ci sono i miei assistiti, i quali sarebbero gli unici a dover mettere bocca, qualora lo capissero, in questa matassa. Andiamo con ordine iniziando dalla fine. I miei assistiti segnalano come i dati diffusi da ogni agenzia di stampa, testata giornalistica e media qualche giorno fa riguardano l’indagine Ocse Pisa sulle competenze in lettura e calcolo della popolazione italiana adulta. Non i dati dell’indagine Ocse Pisa sugli studenti quindicenni, le quali riportano ben altri livelli. I miei assistiti a 15 anni non sono ultimi, sono poco sotto la media e con un «dipende»: se vanno al liceo, se vanno a un professionale, se vivono al nord o se vivono al sud. Perché il dato rendimento scolastico oggi come 60 anni fa dipende dal contesto di riferimento in misura maggiore rispetto all’azione degli insegnanti. Ahiloro. E lo sanno anche i bambini, cioè i miei assistiti. Fanno finta di non saperlo o di non comprenderlo gli adulti delle due fazioni. Del resto come potrebbero? Gli italiani adulti sono ultimi in lettura. Terzo punto: il docente lavora poco. Vale per tutti? Ne siamo certi? La misura sono le ore di lezione o il tempo scuola complessivo svolto sommando le lezioni e tutte le altre attività funzionali alla docenza effettivamente «lavorate»? Perché se il metro per misurare il lavoro della docenza è solo l’ora di lezione i miei assistiti dovrebbero suggerire ai loro fratelli universitari di controllare quante ore di lezione svolgono effettivamente i docenti ordinari universitari. Mi dicono: ma quelli fanno ricerca. E dov’è scritto che un consiglio di classe svolto da docenti di scuola non sia un’attività lavorativa di ricerca? Però sul contratto ci son segnate solo 18 ore… Soluzione gradita a destra come a sinistra: tagliamo la testa al toro, quantifichiamo quante ore effettivamente un docente svolge a scuola o dovrebbe svolgere e riscriviamo il contratto. O no? Parrebbe che per ogni ora di lezione ci sia un’ora di lavoro funzionale. Dunque fanno 36. Ma 36 ore riconosciute in un contratto pubblico sarebbero orario a tempo pieno o sbaglio? È in grado il sistema Italia di corrispondere un salario di tempo pieno ai settecentomila docenti italiani? No. A nessuno viene in testa che se non si è regolarizzato il contratto è esattamente per questo motivo? E allora perché ogni tanto se ne vengono fuori con le ore di lezione in più? Per malafede, per incompetenza o per mancata comprensione dei dati? A sentir Ocse Pisa Adult forse quest’ultima ragione è la più benevola. Quarto punto: i docenti non son preparati ai compiti che devono svolgere. Scusate, i miei assistiti chiedono a entrambe le due fazioni: chi li porta in cattedra i docenti? Forzano i cancelli ed entrano o arrivano dopo un (uno?) processo selettivo alquanto sgangherato? E chiedono anche: da dove vengono costoro? Non vengono da un percorso formativo universitario? Invece di prendersela con colui che è arrivato in cattedra, non è il caso di «prendersela» con i responsabili dei processi selettivi e formativi e chieder loro di adeguarli se non vanno bene? E infine: una volta che il docente è in classe, i miei assistiti (e mi sembra anche i loro docenti) chiedono: chi vieta di predisporre così come era prima, una normale, e sana formazione permanente in servizio, prevista come funzione normale e sana tra le funzioni del docente e dunque per tutti i docenti? Regolata, organizzata e qualificata e compresa civilmente nell’orario di lavoro? Chi lo vieta? Chi vieta tutto le cose di cui sopra? Chiedono i miei assistiti? La mancanza di risorse, l’incapacità di risolvere i problemi alla radice e di trovar toppe, un po’ di malafede, ideologica o non ideologica che sia, o, più semplicemente, il dato che gli italiani adulti sono un po’ duri di comprendonio e chi ne paga le spese sono i miei assistiti? I miei assistiti ringraziano per l’attenzione, sperando che a leggere e a comprendere siano molti ma molti di più di quelli indagati da Ocse Pisa Adult.

L’Unità 15.10.13

“La coperta corta”, di Massimo Riva

Le prime indiscrezioni sui contenuti della Legge di stabilità sono piuttosto sconcertanti. L’unico elemento positivo viene dalle smentite di alcuni membri del governo che definiscono queste anticipazioni destituite di fondamento. E, in effetti, c’è da sperare che sia proprio così. Si prenda, per esempio, la questione fondamentale della riduzione delle tasse su redditi da lavoro e imprese.
Un intervento in tal senso è fortunatamente confermato, ma si dura molta fatica a considerarlo il cuore della manovra 2014 come ripetutamente promesso. E ciò soprattutto perché la dimensione finale dei benefici garantiti risulta non solo risibile sul piano dell’equità fiscale ma anche del tutto impari a promuovere quella scossa di ripresa dei consumi che pure anche il governo Letta dice di avere in cima ai suoi obbiettivi.
Lo stanziamento previsto per questo capitolo si dovrebbe aggirare intorno ai cinque miliardi, divisi grosso modo a metà fra sgravi alle imprese e nelle buste-paga dei lavoratori. Ebbene, per questi ultimi il beneficio dovrebbe aggirarsi fra i 100 e i 200 euro su base annua, diciamo una dozzina di euro al mese, che progressivamente scenderanno a zero per chi abbia un imponibile di 50/55 mila euro. Un meccanismo che per la forma sarà anche solennemente ispirato al sacro principio della progressività del prelievo fiscale, ma che nella sostanza rischia di sortire effetti comici come sarebbe l’offerta di cinque-sei euro in più al mese a chi abbia un reddito fra i 40 e i 50mila euro annui. Che simili mance possano rimettere in moto il volano della domanda interna è un’illusione e neanche troppo pia.
Certo, ben si sa che la coperta dei conti pubblici è corta, anzi cortissima, e che il governo Letta sarebbe stato entusiasta di mobilitare non cinque ma dieci o quindici miliardi per questo intervento. Non si venga però a dire che la ristrettezza delle disponibilità finanziarie dipende soltanto dalla pesante eredità che un destino cinico e baro ha scaricato sulle spalle del governo attuale. In verità, anche quest’ultimo ha fatto la sua parte nel legarsi le mani riducendo per sua scelta le risorse da impegnare sul fronte fiscale del lavoro dipendente. Mentre a parole si è continuato a ripetere che proprio questo fronte doveva essere considerato prioritario su ogni altro, nei fatti si è messa avanti la questione dell’Imu sulla prima casa con la quale s’è data una sforbiciata al gettito tributario quasi pari a quella ora progettata per le buste-paga e le imprese.
Non c’è da dubitare che sia il premier Letta sia il ministro Saccomanni avrebbero fatto più che volentieri a meno di pagare un dazio così pesante al diktat sull’Imu posto dal partito di Berlusconi. Resta il fatto che hanno dovuto piegarsi, pena la sopravvivenza del governo, e così il denaro disponibile per fare cose più serie e più utili si è ulteriormente ridotto.
Con contorno anche di soluzione legislative pasticciate come la scelta di inserire nel testo della Legge di stabilità per il 2014 la copertura per il mancato incasso della seconda rata Imu che scade a dicembre di quest’anno. Una trovata che avrebbe fatto inorridire il maestro di Letta, Nino Andreatta.
C’è poi un altro fronte politicamente caldo: quello della sanità per la quale si parla di tagli nell’ordine di quattro miliardi in tre anni. Che il settore meriti interventi di razionalizzazione anche contabile è sicuro, ma la sgradevole impressione è che in realtà si stia tornando all’abusata logica delle sforbiciate lineari dove l’unica cosa che conta è il risparmio immediato e non il consolidamento economico del servizio. Si sa che le ultime ore di predisposizione della manovra finanziaria annuale sono sempre contraddistinte da trattative convulse con progetti e proposte che vanno e vengono dal tavolo decisionale. C’è solo da augurarsi uno scatto di verticalità da parte del premier e del ministro dell’Economia che faccia chiarezza sul nodo sanità e trasformi l’intervento a favore delle buste- paga in qualcosa di molto diverso
da quello di cui si parla.

La Repubblica 15.10.13