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“Mi presento, sono l’avvocato degli scolari”, di Mila Spicola

Buongiorno, sono l’avvocato della categoria studenti 0-12, quella che in genere non parla non si lamenta, non scende in piazza e non occupa. I miei assistiti assistono (non voglio cercar sinonimi) da parecchio tempo allo scontro tra due opposte fazioni ideologiche: a sinistra quella della tesi del «docente eroe, bistrattato, non capito, che lavora in condizioni svantaggiate, pagato poco, dileggiato da tutti, che rimane a soffrire anni di precariato e dopo anni di precariato viene buttato per strada» e a destra quella del «docente non all’altezza, impreparato, che lavora poco, solo 18 ore, in una categoria troppo numerosa e che fa comunque rimanere gli studenti italiani ultimi in lettura e matematica». Esattamente per questo ultimo passaggio i miei assistiti hanno deciso di rivolgersi a me e di agire per le vie legali adombrando accuse di totali incompetenza e superficialità nell’affrontare problemi e questioni che in fondo in fondo riguarderebbero per primi loro. Primo punto. Le ragioni e le cause per i mali addotti da entrambe le fazioni sono ascrivibili a responsabilità individuali dei docenti, a responsabilità complessive di categoria o, molto più semplicemente a ragioni di sistema? Secondo punto: qualcuno pensa di uscire dalle rispettive gabbie ideologiche per praticare in modo maturo, serio, dati alla mano, il difficilissimo spazio della terra di mezzo? Perché in quella terra di mezzo, ove lo si fosse dimenticato, ci sono i miei assistiti, i quali sarebbero gli unici a dover mettere bocca, qualora lo capissero, in questa matassa. Andiamo con ordine iniziando dalla fine. I miei assistiti segnalano come i dati diffusi da ogni agenzia di stampa, testata giornalistica e media qualche giorno fa riguardano l’indagine Ocse Pisa sulle competenze in lettura e calcolo della popolazione italiana adulta. Non i dati dell’indagine Ocse Pisa sugli studenti quindicenni, le quali riportano ben altri livelli. I miei assistiti a 15 anni non sono ultimi, sono poco sotto la media e con un «dipende»: se vanno al liceo, se vanno a un professionale, se vivono al nord o se vivono al sud. Perché il dato rendimento scolastico oggi come 60 anni fa dipende dal contesto di riferimento in misura maggiore rispetto all’azione degli insegnanti. Ahiloro. E lo sanno anche i bambini, cioè i miei assistiti. Fanno finta di non saperlo o di non comprenderlo gli adulti delle due fazioni. Del resto come potrebbero? Gli italiani adulti sono ultimi in lettura. Terzo punto: il docente lavora poco. Vale per tutti? Ne siamo certi? La misura sono le ore di lezione o il tempo scuola complessivo svolto sommando le lezioni e tutte le altre attività funzionali alla docenza effettivamente «lavorate»? Perché se il metro per misurare il lavoro della docenza è solo l’ora di lezione i miei assistiti dovrebbero suggerire ai loro fratelli universitari di controllare quante ore di lezione svolgono effettivamente i docenti ordinari universitari. Mi dicono: ma quelli fanno ricerca. E dov’è scritto che un consiglio di classe svolto da docenti di scuola non sia un’attività lavorativa di ricerca? Però sul contratto ci son segnate solo 18 ore… Soluzione gradita a destra come a sinistra: tagliamo la testa al toro, quantifichiamo quante ore effettivamente un docente svolge a scuola o dovrebbe svolgere e riscriviamo il contratto. O no? Parrebbe che per ogni ora di lezione ci sia un’ora di lavoro funzionale. Dunque fanno 36. Ma 36 ore riconosciute in un contratto pubblico sarebbero orario a tempo pieno o sbaglio? È in grado il sistema Italia di corrispondere un salario di tempo pieno ai settecentomila docenti italiani? No. A nessuno viene in testa che se non si è regolarizzato il contratto è esattamente per questo motivo? E allora perché ogni tanto se ne vengono fuori con le ore di lezione in più? Per malafede, per incompetenza o per mancata comprensione dei dati? A sentir Ocse Pisa Adult forse quest’ultima ragione è la più benevola. Quarto punto: i docenti non son preparati ai compiti che devono svolgere. Scusate, i miei assistiti chiedono a entrambe le due fazioni: chi li porta in cattedra i docenti? Forzano i cancelli ed entrano o arrivano dopo un (uno?) processo selettivo alquanto sgangherato? E chiedono anche: da dove vengono costoro? Non vengono da un percorso formativo universitario? Invece di prendersela con colui che è arrivato in cattedra, non è il caso di «prendersela» con i responsabili dei processi selettivi e formativi e chieder loro di adeguarli se non vanno bene? E infine: una volta che il docente è in classe, i miei assistiti (e mi sembra anche i loro docenti) chiedono: chi vieta di predisporre così come era prima, una normale, e sana formazione permanente in servizio, prevista come funzione normale e sana tra le funzioni del docente e dunque per tutti i docenti? Regolata, organizzata e qualificata e compresa civilmente nell’orario di lavoro? Chi lo vieta? Chi vieta tutto le cose di cui sopra? Chiedono i miei assistiti? La mancanza di risorse, l’incapacità di risolvere i problemi alla radice e di trovar toppe, un po’ di malafede, ideologica o non ideologica che sia, o, più semplicemente, il dato che gli italiani adulti sono un po’ duri di comprendonio e chi ne paga le spese sono i miei assistiti? I miei assistiti ringraziano per l’attenzione, sperando che a leggere e a comprendere siano molti ma molti di più di quelli indagati da Ocse Pisa Adult.

L’Unità 15.10.13