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“Ventennio il lungo addio al berlusconismo”, di Massimo Giannini

Ai nemici della teoria del Ventennio berlusconiano converrà ricordare cosa ne disse il suo stesso eroe eponimo, al termine di un Consiglio Europeo: «Qui sono un veterano, insieme a tanti ragazzotti dell’Est. Con altri cinque anni di attività politica arrivo a diciannove. Quanti me ne mancano per arrivare a quello lì?». Era il 15 ottobre 2008. Il Cavaliere aveva da poco ri-stravinto le elezioni, e da premier forte della più schiacciante maggioranza parlamentare della Repubblica si sognava già nei libri di storia. A fianco o (preferibilmente) al di sopra del Duce. Già allora era proprio lui il primo ad accreditare, nell’immaginario collettivo, l’idea che il ciclo del suo strapotere potesse trasformarsi davvero (come fu il fascismo secondo la profezia di Piero Gobetti) in un’altra “autobiografia della nazione”.
Le cose poi sono andate diversamente. In quel promettente autunno di cinque anni fa si vedeva già issato su un altro predellino, non quello dell’Audi blindata a San Babila ma quello della Flaminia decappottabile che tra due ali di folla lo avrebbe condotto al soglio quirinalizio. Il “piazzista” consacrato per sempre Statista. Quello che non aveva previsto è la misura della corruttela pubblica che lui stesso ha costruito ben prima dell’epifanica discesa in campo del ’94, e che gli è costata una micidiale sequenza di 18 processi e di condanne penali (due in primo grado, una ormai definitiva). Quello che non aveva previsto è la dismisura dei comportamenti privati che lui stesso ha praticato dopo l’ultimo “plebiscito” dell’aprile 2008, e che gli è costata un’esiziale default di affidabilità interna e di credibilità internazionale.
Ma insomma, i cinque anni nel frattempo sono passati, il Sovrano stanco e malconcio è caduto dal trono. Non solo quello di Palazzo Chigi (dove lo hanno scalzato prima i neo-tecnici e poi i neo-centristi) ma persino quello di Palazzo Grazioli (dove ne hanno leso irrimediabilmente la maestà i “governisti” guidati dal delfino senza “quid”). Eppure, anche se ha smesso di comandare come un tempo, il vecchio Conducator è ancora lì a lottare contro i magistrati e i congiurati. Contro l’anagrafe e i servizi sociali. È ancora lì a terremotare la politica, a paralizzare il Parlamento, a tenere in ostaggio il Paese. Come succede, appunto, dal 1994. Per questo, prima di stabilire se il Ventennio berlusconiano è finito, bisognerà pur convincersi che il Ventennio berlusconiano è esistito. E non è stato il frutto di una manipolazione storica (quella di una élite intellettuale che ha speculato sulla vocazione platealmente “dittatoriale” del berlusconismo). E nemmeno di un’ossessione psichiatrica (quella di una sinistra irrisolta che per definire se stessa ha avuto bisogno del nemico da combattere sempre ma da abbattere mai).
Il Ventennio berlusconiano è esistito, innanzitutto perché lo hanno voluto gli italiani. Ed è stato persino utile, nella misura in cui ha inoculato il bipolarismo (per quanto “coatto” e ideologico) nelle vene di un Paese abituato al consociativismo. I tre trionfi elettorali del Cavaliere nascono certo anche dalla spropositata forza di fuoco propagandistico delle sue tv e dal suo gigantesco e indisturbato conflitto di interessi. Ma resta il fatto che Berlusconi è stato liberamente votato da svariati milioni di italiani. E per quanto populista, cesarista e a tratti tecnicamente “totalitario”, il suo potere è stato conquistato sul terreno della democrazia. Una democrazia che lui stesso ha svilito, in virtù di una concezione irriducibilmente “proprietaria” delle istituzioni. Ma pur sempre democrazia. Questo suggerisce riflessioni amare sulla natura del suo ciclo politico, sul suo rapporto profondo con le masse e sui deficit culturali della sinistra.
Nel Ventennio berlusconiano si celebra un “epos”, che risale all’Arcitaliano di Longanesi. Il mito dell’“uomo nuovo”, del self made man ricchissimo e infaticabile che si è fatto da solo (e non con i soldi della mafia transitati per la paterna banca Rasini), che sorge tra le macerie di Tangentopoli per fondare una (mai nata) Seconda Repubblica. Poi la leggenda dell’“uomo forte” e sempre “solo al comando”, il mattatore che domina la scena e spazza via l’accidioso teatrino della politica. Infine la mistica dell’Unto del Signore, che salta ogni mediazione e trova solo nel popolo la sua legittimazione. Così incuba il virus dell’anti-politica (che deflagrerà con Grillo) e si diffonde il modello del partito personale (che ingolosirà persino Renzi).
Nel Ventennio berlusconiano si perpetua un “ethos”, che riflette e amplifica i caratteri peggiori della nazione. Un’etica pubblica nella quale le regole o non ci sono (perché soverchiate dal libero dispiegamento degli animal spirits di un leaderismo autocratico e di un capitalismo autoreferenziale) o si possono forzare (perché manipolate da un Parlamento disposto a votare ben 38 leggi ad personam, oltre a una mozione che dichiara ufficialmente Ruby “nipote di Mubarak”). E una morale privata che pretende di far coesistere la “religione del lavoro” con l’evasione fiscale e la corruzione di finanzieri, magistrati e senatori. Il culto ostentato della sacra famiglia con il vizio malcelato delle olgettine.
Il Ventennio berlusconiano, infine, è esistito perché ha cementato il blocco sociale di una destra anomala, anti-comunista e anti-europea, sopravvissuta al suicidio democristiano e che sopravviverà al regicidio berlusconiano. Oggi è “ridotta” al suo zoccolo duro. Ma vale comunque 8 milioni di elettori, pronti a seguire il condottiero anche nella sua ultima “reincarnazione”: quella del pregiudicato. Il suo, per dirla con Chandler, sarà un lungo addio. E del Ventennio, dopo lo strappo del 2 ottobre sulla fiducia a Letta, celebriamo oggi non ancora la fine, ma semmai l’inizio della fine. I danni strutturali che ha prodotto, nella politica e nella società, resisteranno al di là dei dati anagrafici del suo protagonista. E poi si tratterà di capire se i colonnelli sedicenti “moderati” della destra italiana riusciranno davvero ad essere “diversamente berlusconiani” (come finge di credere Alfano). O se invece, asserragliati nel bunker di Arcore, si rassegneranno a morire
berlusconiani.

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“TUTTI I CICLI DELLA STORIA”, di GUIDO CRAINZ
Un primo ventennio vi è certo stato, nel Novecento italiano, ed ha coinciso con un regime: ha devastato e sepolto l’Italia liberale, e sulle sue ceneri è nata la Repubblica.
Qui però le questioni si complicano: ove si guardi alla storia politica il 1945 è una cesura indubbia ma lo è anche per la storia economica o per quella sociale e del costume? Con il procedere dei decenni, poi, le periodizzazioni ci appaiono via via più discutibili e meno rigide, più ricche di contaminazioni e ambiguità. È sicuramente facile identificare la fase della Ricostruzione, segnata anche dalla guerra fredda (e dal centrismo in politica), o quella del miracolo economico (e del primo, più fecondo centrosinistra). Una grandissima trasformazione, il nostro “miracolo”: ha riguardato economia e consumi, culture e immaginari, geografia sociale e produttiva, modalità dell’abitare e del vivere, sino al rapporto fra religione e laicità o all’attuazione di una Costituzione troppo a lungo “congelata”: non c’è parte del nostro vivere collettivo che non sia stato segnata in profondità dal breve e tumultuoso scorrere di quegli anni. Una “mutazione antropologica”, per dirla con Pier Paolo Pasolini.
Da lì in poi le periodizzazioni proposte di volta in volta lasciano invece molti dubbi, a partire da quella “stagione dei movimenti” che il ’68 avrebbe innescato e che rischia di coprire col suo manto anche pulsioni corporative o localistiche. E che confluisce in anni settanta variamente messi agli atti come stagione delle riforme o – per altri e opposti versi – della strategia della tensione e poi degli anni di piombo. Definizioni che alla lunga distanza appaiono molto parziali mentre sembra ingigantirsi invece la cesura di cui sono simbolo alla fine del decennio i funerali di Aldo Moro: quasi “funerali della Repubblica”, come è stato scritto. Spartiacque fra un “prima” e un “dopo” nel modo di essere della società e della politica. Di lì a poco, nello sconfitto rifluire del terrorismo, diventeranno sempre più visibili i guasti che stanno corrodendo istituzioni e partiti: “muore ignominiosamente la Repubblica”, scriveva il poeta Mario Luzi.
Non è difficile cogliere infine negli anni Ottanta anche la corposa incubazione della stagione successiva: con il radicale modificarsi dei luoghi di lavoro e dei ceti sociali, l’irrompere di nuove culture (o inculture), il dominio di un sistema dei media sempre più invasivo e distorsivo, e sempre più intrecciato alla politica. Con la crisi, non solo italiana, dei partiti basati sull’appartenenza e la militanza. Ma anche con il degradare delle istituzioni, con un salto di qualità nella corruzione politica, con lo sprezzo crescente dei valori collettivi. Solo un anticipo di quel che avverrà poi, scandito e accentuato dal tracollo del panorama politico precedente, dall’affermarsi prepotente del partito mediatico e personale, dall’erosione quotidiana della legalità e del diritto. Da questo punto di vista è certo lecito parlare di ventennio berlusconiano ma c’è da chiedersi se abbiamo avuto davvero una “seconda repubblica”.
Per avere qualche dubbio è sufficiente uno sguardo alla Francia: lì la “numerazione” delle repubbliche è scandita da grandissimi traumi (la Rivoluzione, il 1848, la Comune di Parigi, l’occupazione nazista, la crisi algerina), seguiti da profonde modifiche istituzionali. Davvero un’altra cosa, e per molti versi è utile cogliere invece le radici dell’ultimo ventennio: ci aiuta a capire meglio con quali e quante macerie dobbiamo ora fare i conti. Quanto sia lunga e difficile la nuova Ricostruzione che ci aspetta.

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“QUELLO STILE COSÌ NUOVO”, di SEBASTIANO MESSINA
Senza accorgercene, giorno dopo giorno, ci siamo ritrovati in un’Italia diversa. A partire da quel 26 gennaio del 1994, quando Berlusconi annunciò la sua “discesa in campo”, cominciando proprio con questa formula a usare il calcio come metafora della politica: poi sarebbero venuti gli “azzurri”, la “squadra di governo” e tutto il resto. E lo fece inaugurando uno strumento nuovo, il videomessaggio, qualcosa che somigliava ai discorsi di fine anno del Quirinale a reti unificate ma senza la paludata ufficialità dei presidenti: il politichese veniva sostituito da un lessico semplice e diretto, che gli italiani conoscevano bene perché era il linguaggio della pubblicità.
Poi venne il “mi consenta”, l’intercalare che diventò presto il simbolo e la cifra dello stile del Cavaliere, quella cortesia formale così diversa dal vizio di interrompere l’interlocutore quando arrivava al cuore del suo discorso, una maleducazione studiata a tavolino e insegnata scientificamente a centinaia di berluscones affinché diventassero sabotatori del nemico sui campi di battaglia della televisione, quella televisione che Berlusconi ha sempre – e a ragione – considerato l’arena che conosce meglio di chiunque altro. Ed è infatti usando la tv che lui ha rivoluzionato le regole del campionato della politica e non solo con gli spot che permisero a Forza Italia di diventare in tre mesi il primo partito della nazione. Usando un vocabolario di cinquecento parole, che tutti potessero capire – «perché ricordatevi che lo spettatore medio è uno studente di seconda media, che neanche siede al primo banco» – Berlusconi ha dapprima scavato un solco tra sé e “il teatrino della politica” popolato ovviamente dai suoi avversari, poi ha dato il via al suo show: fatto di “contratti con gli italiani” stipulati sulle scrivanie di ciliegio di Bruno Vespa, di mappe delle opere pubbliche di prossima realizzazione (ma mai costruite, a cominciare dal Ponte sullo Stretto), di vertici internazionali trasformati in palcoscenici per SuperSilvio (ricordate quando annunciò, a Pratica di Mare, l’ingresso della Russia nella Nato?).
Ma il ventennio berlusconiano ci lascia anche altre cose. Le
convention, per esempio, che somigliano ai congressi di una volta ma non eleggono nessuno, servono solo ad andare in tv. I club, che hanno sostituito le vecchie sezioni di partito, e vivono di spillette, portachiavi e gadget assortiti. Gli avvocati in Parlamento. Le miss che escono dalla tv ed entrano a Montecitorio, le igieniste dentali che escono dalle “cene eleganti” e diventano consigliere regionali, le “nipoti di Mubarak” che escono dai commissariati e vanno a riscuotere dal fidato cassiere. Le barzellette sconce che prendono il posto delle citazioni di De Gasperi. Le strepitose gaffes internazionali, dalle corna nella foto dei Grandi al “cucù” per Angela Merkel (poi oggetto di meno spiritose considerazioni estetiche).
Ma il berlusconismo resta, innanzitutto, un culto della personalità. Mai l’Italia aveva avuto, dopo Mussolini, un capo del governo che credeva così convintamente nella propria superiorità planetaria («Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me»), uno che mandava a casa degli elettori un libretto con la storia della sua meravigliosa vita, e che non esitava a paragonarsi a Gesù, quando parlava della “traversata del deserto” ai suoi militanti, battezzati prima “missionari” e poi addirittura “apostoli della libertà”, chiamati a portare tra la gente “il Vangelo secondo Silvio”, che Dio lo perdoni quando avrà smesso di ridere.

La Repubblica 10.10.13

“Se l’Europa si chiude”, di Paolo Soldini

Sono ingenerosi i fischi che hanno accolto Barroso (e non solo lui, ma anche il premier Letta) a Lampedusa? Forse sì. Dal presidente della Commissione e ancor più dalla commissaria agli Affari interni Cecilia Malström sono venuti nei giorni scorsi segnali nuovi. Non soltanto la sincera commozione, ma anche una qualche presa di coscienza della necessità di cambiare, d’ora in poi, l’approccio delle istituzioni europee alla tragedia dell’immigrazione. Questa nuova consapevolezza ha, per così dire, un risvolto italiano, che il presidente del Consiglio ha espresso ponendo sul tappeto la necessità di rivedere la legge Bossi-Fini. Quelle parole si possono considerare una sorta di riscontro, politico e morale, al dolore di cui ha dato manifestazione inginocchiandosi davanti alle bare dei morti. E però Barroso e la commissaria Malström, co- me il nostro ministro dell’Interno, doveva- no essere ben consapevoli di quel che po- che ore prima era accaduto ben lontano da Lampedusa, a Lussemburgo, nella riunione dei 28 ministri dell’Interno che s’era trovata sul tavolo la crudelissima necessità di parlare di quei trecento morti. Il modo in cui lo hanno fatto non ci piace e non fa onore all’Europa e alle sue istituzioni. Misura, in qualche modo, la debolezza colpevole che le politiche di Bruxelles e dei governi dell’Unione hanno mostrato e continuano a mostrare nei confronti di un fenomeno che, come pochi altri, caratterizza l’epoca che viviamo. Come in molti altri aspetti che non riguardano l’economia, l’Europa nei confronti di questo fenomeno epocale è come se non ci fosse. Ma qui la sua assenza ha conseguenze più gravi e dolorose che altrove. Lo ha riconosciuto Hollande, annunciando che la «lezione di Lampedusa» gli ha ispirato un piano fondato su «prevenzione, solidarietà e protezione dei rifugiati» che renderà pubblico nei prossimi giorni. In Italia molti si sono indignati, a ragione, contro il ministro dell’Interno tedesco Hans-Peter Friedrich che, a nome di un fronte dei paesi del nord e del centro Europa, ha respinto con perdite le richieste dei Paesi più esposti all’arrivo di profughi e immigrati, i quali proponevano la revisione del regolamento europeo «Dublino II» in base al quale l’asilo deve essere chiesto nel Paese d’ingresso nell’Unione. È una materia che deve essere discussa, perché è vero che uno squilibrio c’è: la Germania, la Svezia e altri Paesi ospitano in proporzione alla popolazione molti più rifugiati di quanti ne restino in Italia o in Spagna (ma non in Grecia e soprattutto a Malta). E però ciò avviene proprio per la mancanza di una regola comune, di un «asilo europeo», che sono proprio i governi dei Paesi a non volere, nella convinzione che regole nazionali proteggano meglio dalla «invasione» e che chi più è severo abbia più chance di scaricare il problema sui vicini. Pure l’Italia ha ragionato in questo modo e l’esistenza della Bossi-Fini ne è la testimonianza. Per questo l’annuncio di Letta sulla sua possibile revisione è un buon segnale anche per gli altri Paesi. Ma a Lussemburgo è venuta alla luce un’altra gran- de debolezza politica dell’Europa, ovvero l’incapacità di gestire quella che è una qualità fondativa dell’Unione: la libera circolazione delle persone sancita dal trattato di Schengen. Berlino chiede che venga bloccata la procedura che dall’inizio dell’anno prossimo dovrebbe far entrare pienamente Romania e Bulgaria nell’area di libera circolazione e Parigi la segue perché non è capace di gestire i campi nomadi dei rom provenienti da quei due paesi. Non è il primo attacco al trattato di Schengen. Sarkozy fece di peg- gio al tempo dell’emergenza dei profughi tunisini, l’Austria ha già imposto restrizioni e recentemente la Danimarca ha ristabilito controlli alle frontiere. Friedrich sostiene che i limiti alla libera circolazione sono necessari per evitare che i sistemi sociali dei Paesi ricchi siano «assaliti» da masse di bisognosi solo per approfittarne. A guardar bene tra il rifiuto, o l’incapacità, di gestire in modo comunitario i rifu- giati e l’attacco a Schengen ci sono rispondenze profonde. Dietro ci sono gli stessi egoismi, le stesse paure, le stesse miopìe di fronte alla complessità del mondo. È la logica per cui il regno del benessere, insidiato, ha il diritto di difendersi. Il problema dei profughi è che arrivano, non perché arrivano e come arrivano. Negli anni scorsi i democratici hanno criticato giustamente la politica dei respingimenti praticata contro buon senso e diritto dai governi italiani di allora. Ma a ben vedere la logica che sta dietro a quel pochissimo di linea comune europea che oggi si incarna in Frontex, e prossimamente nel sistema Eurosur, è praticamente la stessa. Che cosa dobbiamo pensare? C’è chi dice che la questione è troppo complicata e gli interessi in campo troppo divergenti per proporre soluzioni. A noi pare, invece, che il problema, come si diceva una volta, sia politico. Trovare un accordo su una politica comune dell’asilo, magari dotate di strutture comunitarie, non parrebbe impossibile se la volontà ci fosse davvero. Non sarebbe neppure costoso. Perché non ci potrebbe essere un ufficio europeo che già a Lampedusa, e negli altri approdi simili, decida se accettare le richieste di asilo e distribuisca i richiedenti tra i vari Paesi? Perché l’Unione non approva subito i piani di reinsediamento dei profughi di guerra che l’Onu ha già pronti? Perché non si organizzano convogli scortati che prelevino le persone minacciate da guerre e repressioni sanguinose? Se l’Unione lo facesse, Barroso (o il suo successore) qualche applauso se lo prenderebbe.

L’Unità 10.10.13

“La vergogna e l’accoglienza”, di Gad Lerner

Il capo del governo italiano che si inginocchia e chiede scusa di fronte a centinaia di feretri senza nome, riconoscendo le colpevoli inadempienze di cui si sono macchiate le nostre istituzioni. Questo ci resterà della giornata di ieri, insieme al turbamento del presidente della Commissione europea cui raccontavano della madre ritrovata senza vita, ancora attaccata col cordone ombelicale alla creatura che stava partorendo. Li seppelliranno nella stessa bara.
La mente corre alla fotografia del cancelliere tedesco Willy Brandt in ginocchio di fronte al memoriale del ghetto di Varsavia, il 7 dicembre 1970, perché anche quelle odierne sono colpe storiche; anche la strage di ventimila migranti nel Canale di Sicilia è una tragedia epocale. Messi proficuamente a confronto con lo sdegno degli isolani che da anni convivono con la sofferenza altrove ignorata o, peggio, liquidata come un fastidio di cui liberarsi, i responsabili della politica hanno dovuto interrompere il penoso scaricabarile sulle reciproche sfere di competenza. Al ministro degli Interni si è spento in gola l’argomentare insulso sulla necessità del “pattugliamento” per impedire le partenze; dopo che già papa Francesco aveva messo a tacere i propagandisti che fino a poco tempo fa si vantavano dei respingimenti in mare.
Enrico Letta ha confidato la sua vergogna nell’apprendere che, in ottemperanza alla legge italiana vigente, i sopravvissuti sono stati incriminati per immigrazione clandestina. E al Senato si è già manifestata una inedita maggioranza in grado di abrogare questa normativa infame, come già decine di migliaia di cittadini avevano richiesto sottoscrivendo l’appello lanciato dal nostro giornale.
La commissaria europea per gli Affari interni, Cecilia Malström, ha finalmente indicato la priorità dettata da questo flusso di migranti che non hanno altra scelta per scampare a guerre e dittature se non quella di assoggettarsi alle organizzazioni criminali (divenute ricche e potenti, si badi bene, anche per l’assenza di vie di fuga garantite dalle istituzioni a ciò preposte). Dunque la Malström ha parlato di “iniziativa umanitaria”. Di per sé non vuol dire ancora nulla. Meglio sarebbe dire con chiarezza che va organizzato un corridoio di transito, prima a terra e poi in mare, sotto la tutela delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.
Non c’è un minuto da perdere. Al posto delle imbarcazioni sgangherate dei trafficanti, fra le due sponde del Mediterraneo devono viaggiare traghetti e aerei sicuri, smistati razionalmente fra diversi porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza. Ponendo fine così anche al dramma del sovraccarico di Lampedusa. Ogni giorno che passa senza corridoio umanitario, non solo aggrava le sofferenze dei migranti, ma regala profitti enormi, e quindi ulteriore potere, alle organizzazioni criminali.
Ieri l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha reso noto che nel 2012 sono giunti in Europa (500 milioni di abitanti) circa 332 mila profughi. Di queste persone, 13 mila sono approdate via mare sulle coste dell’Italia (60 milioni di abitanti). Per quanto la guerra in Siria e il disastro del Corno d’Africa abbiano incrementato le partenze nel 2013, si tratta di un flusso senz’altro governabile, purché si appronti il corridoio umanitario. La cui istituzione favorirebbe anche il necessario monitoraggio, l’identificazione certa dei profughi, e una loro distribuzione razionale.
Gli stessi imprenditori politici della paura che in Italia hanno brandito la legge Bossi-Fini come una bandiera, adesso, per mascherare il loro imbarazzo, spesso ricorrono a un argomento specioso: se non possiamo più garantire l’impermeabilità delle nostre frontiere, dicono, allora tanto vale spalancarle. Con la consueta demagogia, anche Beppe Grillo, dopo aver cavalcato per anni gli stereotipi della xenofobia, si era rifugiato ieri dietro a tale paradosso, prima di proporre al Senato l’abrogazione del reato di immigrazione clandestina.
L’allestimento di un corridoio umanitario e il ripristino di una normativa capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati sono l’unica risposta possibile a questa falsa contrapposizione
mors tua vita mea.
Dopo aver proclamato il lutto nazionale per onorare le vittime di Lampedusa, Letta ieri ha annunciato che verrà loro tributato un funerale di Stato. Ben fatto, ma è una scelta impegnativa: di solito i funerali di Stato sono riservati ai nostri connazionali. Mi auguro che il pellegrinaggio delle autorità nel mezzo del dolore di Lampedusa sia servito a convincerle della improrogabile necessità di adeguare al tempo contemporaneo la nostra nozione di cittadinanza. Non si tratta di negare la distinzione fra italiani e stranieri, sulla quale pure le obiezioni minoritarie alla nomina della ministra Kyenge evidenziano un grave ritardo culturale. Si tratta piuttosto di riconoscere che nel mondo di domani sarà sempre più arduo distinguere fra diritti umani, diritti sociali e diritti politici. A meno di abiurare il principio fondamentale dell’accoglienza per chi fugge in cerca di salvezza.

La Repubblica 10.10.13

Femminicidio, ok della Camera. Il dl passa all’esame del Senato

Il testo, approvato a Montecitorio con 343 sì e 20 astenuti, dovrà essere approvato da Palazzo Madama che avrà pochi giorni per convertirlo: scade, infatti, il 14 ottobre. I sì sono arrivati da Pd, Pdl e Scelta Civica. M5s motiva l’astensione: “Non votiamo un decreto fritto misto”. Dopo scontri e polemiche la Camera ha approvato il decreto legge sul femminicidio con 343 sì, nessun no e 20 astenuti. I sì sono arrivati da Pd, Pdl e Scelta Civica. La Lega e il M5s si sono astenuti, mentre Sel non ha partecipato al voto (i deputati sono usciti fisicamente dall’Aula). Il provvedimento passa ora al Senato per un via libera rapido. Palazzo Madama, infatti, avrà pochi giorni per convertirlo, in quanto il provvedimento va approvato entro il 15 ottobre.

Moltissimi gli emendamenti che rischiano di non farlo passare, ma il ministro delle Pari Opportunità, Cecilia Guerra, a RNews si dichiara fiduciosa: “Ormai abbiamo anche la copertura economica, siamo determinati perchè la proposta è un notevole passo, in ogni caso andremo avanti”.

Donatella Ferranti (Pd), relatrice del provvedimento insieme a Francesco Paolo Sisto (Pdl) e presidente della commissione Giustizia esprime soddisfazione: “Senza enfatizzare, un ottimo provvedimento. Importante. Le donne ora potranno contare su una tutela più attenta e incisiva contro ogni violenza di genere”. E si augura che, “dati i tempi strettissimi, il senato lo voti a tamburo battente. Se il decreto dovesse decadere sarebbe un passo indietro gravissimo”.

Secondo Ferranti il testo uscito dall’esame parlamentare, “grazie all’apporto di tutte le forze politiche, è decisamente migliorato rispetto alla versione originaria”. Alla Camera, spiega, “abbiamo individuato soluzioni equilibrate sull’irrevocabilità della querela, abbiamo introdotto norme processuali di maggior tutela a favore delle vittime dei reati e abbiamo potenziato l’aspetto preventivo riuscendo anche a finanziare, con il contributo del governo, il piano di azione contro le violenze sessuali e di genere e il fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità”.

Quanto all’aspetto strettamente repressivo, Ferranti richiama da un lato la scelta di colpire con “aggravanti di tipo generale i reati di violenza commessi non solo ai danni ma anche in presenza di un minore” e dall’altro l’accento posto “sull’allontanamento dalla casa familiare come misura cautelare d’urgenza nei confronti di quei ‘reati sentinella’ (percosse, lesioni o stalking) che sono rilevatori di condizioni di violenza domestica”.

“Insomma, un decreto – conclude Ferranti – che rappresenta una prima concreta attuazione della Convenzione di Istanbul. Un segnale forte, la presa di coscienza e l’affermazione che violenze, prepotenze e offese contro le donne non solo non sono più tollerabili o sottostimabili ma costituiscono una lesione esiziale per l’intera comunità”.

I deputati del Movimento cinque stelle, duramente criticati da Matteo Orfini del Pd (“I grillini non votano la legge contro il femminicidio. Vergogna a 5 stelle”, scrive su Twitter), motivano così la loro astensione: “Non votiamo un decreto fritto misto”, o “macedonia”. Il riferimento è alle misure relative a Province, Tav e vigili del fuoco contenute nel decreto legge. “Abbiamo scelto di non votare il decreto macedonia sul femminicidio – spiega tra gli altri la deputata M5S Giulia Di Vita – perchè si tratta di un ricatto vergognoso!”.

www.repubblica.it

“Un Bosone da Nobel”, di Pietro Greco

Premio Nobel per la fisica 2013 al belga François Englert e allo scozzese Peter W. Higgs «per la scoperta teorica del meccanismo che contribuisce alla comprensione dell’origine della massa delle particelle subatomiche, recentemente confermata dalla scoperta della prevista particella fondamentale da parte degli esperimenti Atlas e Cms presso il Large Hadron Collider del Cern».
L’Accademia delle scienze di Stoccolma ha, dunque, premiato il «bosone di Higgs», il padre che gli ha dato il nome, Peter W. Higgs, e un altro, François Englert, degli altri quattro o cinque padri che gli hanno dato vita, sia pure per via teorica: (Robert Brout, Phil Anderson, Gerald S. Guralnik, Carl R. Hagen e Tom Kibble).
Ma la motivazione del Nobel fa anche esplicito riferimento (e, dunque, riconoscimento) ai gruppi di fisici sperimentali che il «bosone di Higgs» lo hanno rilevato per via empirica: i gruppi Atlas e Cms, il primo guidato dall’italiana Fabiola Gianotti e il secondo a lungo guidato dall’italiano Guido Tonelli.
L’esistenza di svariati padri testimonia di come la storia del meccanismo che ha portato a ipotizzare una particella, il «bosone di Higgs», capace di donare la massa a tutte le altre e, dunque, all’universo intero sia piuttosto complessa. Il meccanismo si chiama BEH, dai cognomi di Brout, Englert e Higgs. È stato ipotizzato all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, prevede l’esistenza nell’universo di un campo, chiamato campo di Higgs. Proprio come esiste un campo elettromagnetico o un campo gravitazionale. In questo campo le particelle si muovono come in un liquido viscoso, più le particelle lo sentono più diventano pesanti, ovvero acquistano massa. Alcune particelle lo sentono moltissimo e, di conseguenza, sono pesantissime. Altre, come i neutrini, lo sentono pochissimo e dunque sono leggerissime. Il meccanismo è stato ipotizzato in maniera indipendente dalla coppia Brout ed Englert (sulla base di ipotesi formulate da Anderson) e da Peter Higgs. Tuttavia Higgs è stato il primo a ipotizzare l’esistenza di bosone di gauge, ovvero di una particella che trasporta l’informazione del campo a cui è associato, proprio come fa il fotone per il campo elettromagnetico. Il bosone che media il «campo di Higgs» è noto come «bosone di Higgs». Tuttavia l’esistenza del bosone e del campo di Higgs prevede che il vuoto risponda a specifiche leggi di simmetria, che prevedono la rottura spontanea di simmetria. Per questo, come nota il fisico e divulgatore Gian Francesco Giudice, il premio Nobel di ieri è un piccolo monumento alla simmetria, alle sue leggi e al ruolo che esse giocano nelle fisica delle alte energie.
Ora, la teoria della rottura spontanea di simmetria e dell’esistenza di particelle di gauge, su cui si basa il meccanismo BEH è stata messa a punto, sempre all’inizio degli anni ’60 da Guralnik, Hagen e Kibble. Ecco perché il campo e il bosone di Higgs hanno sei o sette padri. Di cui solo due sono stati premiati.
Ma la storia non finisce mezzo secolo fa. Anzi prosegue nel tempo, disegnando due strade diverse. Una teorica. Il meccanismo funziona così bene, mette a posto tante cose nell’universo della fisica fondamentale che diventa la base del Modello Standard delle alte energie, che porta Stephen Weinberg, Sheldon Glashow e Abdus Salam a formulare, poco dopo, la cosiddetta teoria elettrodebole, che unifica due forze fondamentali della natura (l’elettromagnetismo e l’interazione debole) e prevede l’esistenza di altri bosoni intermedi (W+, We Z0), rilevati poi al Cern di Ginevra da Carlo Rubbia e dal suo gruppo.
Il meccanismo di Higgs o Brout, Englert, Higgs (BEH) o di Brout, Englert, Higgs, Anderson, Guralnik, Hagen, Kibble (BEHAGHK) regge per cinquant’anni il vaglio della teoria e, anzi, diventa la base fondamentale della fisica delle alte energie, secondo cui in natura esistono quattro forze fondamentali e due gruppi di particelle, gli adroni (a loro volta composti da quark) e i leptoni (tra cui vi sono l’elettrone e i neutrini). Intanto il secondo percorso intrapreso dal meccanismo di Higgs, attraverso la verifica sperimentale e la cattura del bosone di Higgs, resta vuoto per oltre mezzo secolo. La particella, piuttosto pesante, sfugge a ogni tentativo di intrappolarla. Cosicché per tutto questo tempo abbiamo una teoria solida (ma non completa), addirittura un Modello Standard, senza una decisiva prova sperimentale. Gli scienziati sanno che una situazione del genere non può durare a lungo, pena il discredito stesso della teoria. Per questo soprattutto per questo è stato costruito il Large Hadron Collider (LHC): per catturare, finalmente, il bosone di Higgs e validare con un fatto empirico il modello teorico. Come tutti sanno, ormai, l’impresa è riuscita a due gruppi, Atlas e Cms, dei sei che lavorano ad LHC. Il primo, Atlas, è guidato dall’italiana Fabiola Gianotti; il secondo, Cms, è stato a lungo guidato da un altro italiano, Guido Tonelli, e ora dall’americano Joe Incandela. I due gruppi hanno individuato una particella in un range di energia compreso tra 125,2 e 126,0 GeV e che ha tutte le caratteristiche che dovrebbe avere il bosone di Higgs. La grande maggioranza della comunità dei fisici delle alte energie ritiene che quella sia la particella di Higgs. Tutto questo è avvenuto esattamente un anno fa e la conferma è stata dato poco più di sei mesi fa.
I due percorsi, quello della teoria di successo e quello della verifica sperimentale, dopo mezzo secolo si sono incontrati. E, dunque, non c’era Nobel più atteso e meritato. Ovviamente quando si attribuisce un premio a un lavoro che non è individuale, ma il frutto di un’impresa cui hanno partecipato in molti, resta qualche interrogativo. Perché sono stati premiati solo Higgs ed Englert? Beninteso, i due lo meritano. Ma non lo meritano un po’ anche gli altri quattro o cinque teorici?
E poi gli sperimentali, meritano solo una citazione o forse avrebbero dovuto avere qualcosa di più? Va detto che spesso a Stoccolma i teorici e gli sperimentali coinvolti in una scoperta importante sono premiati separatamente. Spesso a qualche anno di distanza l’uno dall’altro. Dunque, dopo il riconoscimento c’è speranza che anche i leader dei due gruppi, pieni zeppi di italiani, che hanno catturato il bosone di Higgs al Cern ottengano il Nobel. Non resta che attendere.

L’Unità 09.10.13

“Quei ragazzi perduti”, di Gianna Fregonara

C’è un battaglione di giovani perduti nei dati pubblicati ieri dall’Ocse: si tratta di oltre un milione e mezzo di ragazzi che ancora non hanno trent’anni e non hanno neppure le «competenze adeguate» per potersi muovere nel mondo del lavoro. Più di un milione — sono ragazzi tra i 16 e i 24 anni — non ha un titolo di studio sufficiente per poter lavorare, si legge nelle pagine del rapporto che ci condanna ancora all’ultimo posto, fanalino di coda dell’educazione per quanto riguarda la lettura/scrittura e penultimi nella matematica. La novità triste di questi dati — che invece segnano finalmente una parità di competenza tra uomini e donne almeno per quanto riguarda la lingua italiana, per la matematica non è ancora così — è che non è soltanto il cosiddetto analfabetismo di ritorno, cioè quello di chi per troppo tempo non si è più occupato della propria formazione, il problema principale degli italiani. Ma un vero e proprio analfabetismo: chi va a scuola — soprattutto al Nord — ha performances molto più simili a quelle europee, ma chi lascia è del tutto perduto.
I dati dicono che la scuola fallisce là dove l’abbandono è molto al di sopra della media europea, quando la scelta della scuola da frequentare è sbagliata, quando si fanno confronti con Paesi come la Gran Bretagna dove un universitario su due a 30 anni è laureato mentre in Italia il traguardo è riservato soltanto ad uno su cinque. Dove si perdono questi giovani, che diventano i Neet (Not in education, employment or training)? Non basta a consolarsi che nei decenni scorsi la situazione complessiva dell’educazione in Italia era anche peggiore (tre anni di scolarizzazione media negli Anni Settanta). Il confronto con il nostro passato non è adeguato: in Germania 8 tedeschi su 10 in età adulta hanno oggi un diploma di scuola superiore, in Italia neppure uno su due. Il ministro Carrozza ha annunciato che è ora di invertire la rotta per combattere questa emergenza, l’impressione è però che non basti stanziare fondi, che anche per quanto riguarda la scuola sia necessario un vero salto culturale:

IL Corriere della Sera 09.10.13

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“Gli italiani non sanno contare né parlare”, di Alessia Camplone

Bocciatissima. In italiano e in matematica, le materie base della nostra istruzione. L’Italia colleziona un’altra maglia nera: è ultima tra tutti i paesi dell’Ocse, in una classifica che mette a confronto le 24 nazioni più industrializzate, per le “competenze alfabetiche” degli adulti. Si tratta delle capacità linguistiche ed espressive, che oggi sono fondamentali nella vita e nel lavoro. Ed è penultima in matematica. L’indagine apre però uno spiraglio: stiamo migliorando. Abbiamo ridotto, in base ai parametri comuni di ricerca, le distanze rispetto agli altri Paesi. La reazione del governo è che sono state già adottate «diverse misure» per recuperare terreno, come hanno scritto in una nota congiunta i ministri del Lavoro e dell’Istruzione Enrico Giovannini e Maria Chiara Carrozza, che però non nascondono la brutta figura e definiscono i dati dell’Ocse «allarmanti».
Lo studio Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), firmato in Italia dall’Isfol, è una fotografia aggiornata al 2011-2012 e riguarda tutta la popolazione dai 16 ai 65 anni. Gli adulti italiani si fermano nelle competenze alfabetiche a un punteggio medio di 250 in una scala che va da zero a 500. La media Ocse è di 273. Sono appena un po’ meglio di noi la Spagna e la Francia, rispettivamente penultima e terzultima. I paesi più virtuosi nelle due classifiche sono Giappone e Finlandia, ma tutto il Nord Europa è in “zona Champions”.
SENZA TITOLI
E in matematica? Ci batte in negativo solo la Spagna, che quindi si scambia con noi penultimo e ultimo posto.? Paghiamo il peso dei ritardi dei meno giovani: tra i 25 e i 64 anni, circa il 45% degli italiani non ha un diploma di secondaria superiore, contro un dato europeo del 25%. Se poi ci riferiamo a lauree e titoli post-diploma, è una questione che riguarda il 15% degli italiani contro il 27% degli europei. Negli abbandoni scolastici arriviamo a un elevatissimo 18%. Poi c’è l’allarme sui Neet, i giovani tra i 16 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e neanche cercano lavoro. Il loro punteggio è 242, quindi sotto la media nazionale. Anche questa ricerca sottolinea il ritardo del nostro meridione rispetto al Nord; in compenso le donne hanno colmato il divario con i maschi. «Conscio della gravità della situazione del capitale umano disponibile nel nostro Paese – scrivono Giovannini e Carrozza – il governo ha già adottato diverse misure orientate a potenziare il sistema formativo e a fronteggiare l’emergenza Neet».
LE MISURE ADOTTATE
Quali sono? Sono stati stanziati 560 milioni di euro per il triennio 2013-2015 tra decreto Lavoro e decreto Scuola. Una commissione di esperti identificherà nuovi interventi in funzione del piano “Garanzia giovani”, voluto dall’Europa e che partirà a gennaio per favorire l’occupazione. Oltre 300 milioni finanzieranno nel triennio iniziative nel Mezzogiorno tra cui forme di autoimpiego e autoimprenditorialità e borse di tirocinio formativo a favore dei Neet. C’è un programma di didattica integrativa contro l’abbandono scolastico. Un programma per l’orientamento degli studenti. Cento milioni aumenteranno ogni anno la dote del Fondo per le borse di studio degli universitari.

Il Messaggero 09.10.13

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“Non sappiamo leggere né contare In coda alla classifica dei Paesi Ocse”, di Orsola Riva

Italiani ultimi in italiano e penultimi in matematica. Una bocciatura senza appello. È quanto risulta dall’ultima indagine Ocse sulle «capacità fondamentali» della popolazione adulta (dai 16 ai 65 anni) in 24 Paesi sviluppati. E non consola certo il fatto che, rispetto alle precedenti rilevazioni, il gap con gli altri Paesi si sia ridotto. Né che, come già per lo spread dei titoli di Stato, ce la battiamo con gli eterni rivali spagnoli (penultimi nelle competenze alfabetiche e ultimi in quelle scientifiche). Mentre i francesi sono terzultimi e quartultimi.
Nordici e mediterranei
La ricerca dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico parte dalla considerazione che la rivoluzione tecnologica ha prodotto trasformazioni tali nel mondo del lavoro da richiedere una serie di abilità e conoscenze nuove. La mappa delle competenze fondamentali tracciata dall’indagine è la seguente: in cima stanno Giappone e Finlandia, seguiti dalla maggioranza dei Paesi del Nord Europa. In fondo i tre grandi Paesi mediterranei dove più morde la disoccupazione (la Grecia non è inclusa nella classifica).
Non conforta l’insistenza dell’Ocse sull’importanza della cosiddetta formazione continua. Perché se è vero che il luogo di lavoro può compensare i deficit accumulati durante l’educazione scolastica, in Paesi con un alto tasso di disoccupazione ciò equivale a un circolo vizioso: chi non lavora non può migliorare le proprie competenze e con competenze scarse sei tagliato fuori dal mercato del lavoro.
Le cifre italiane
I dati della classifica, raccolti in Italia dall’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori), parlano chiaro: in una scala che va da 0 a 500, il punteggio medio degli italiani nelle capacità linguistiche ed espressive (la cosiddetta «literacy») è pari a 250, contro una media Ocse di 273. Nelle competenze matematiche (la «numeracy») scendiamo a 247 (contro 269).
Uno su due senza diploma
Un dato appare particolarmente allarmante: quello degli italiani senza un diploma. Un adulto su due ne è sprovvisto contro il 27% della media Ocse (la Germania ha raggiunto l’obiettivo di Lisbona 2010: sotto il 15%). I diplomati sono il 34% e i laureati solo il 12% . E comunque un diplomato giapponese si destreggia meglio di un laureato italiano.
Nord e Sud, uomini e donne
Il divario fra Nord e Sud del Paese si conferma a tutti i livelli, ma si allarga per quelli di istruzione universitaria. Una buona notizia (finalmente) sul fronte del gap maschi e femmine. Le donne recuperano soprattutto sul versante delle competenze alfabetiche (con le giovanissime che battono i maschi anche in matematica).
Emergenza «Neet»
Ma il dato forse più drammatico è quello che riguarda i cosiddetti «Neet» (Not education, employment or training), un brutto acronimo per indicare i giovani fra i 16 e i 29 anni che non studiano né lavorano. Parliamo di oltre due milioni di persone: una vera e propria generazione perduta il cui destino si incrocia con quello dei ragazzi che abbandonano la scuola (700 mila l’anno). Il loro punteggio medio si colloca al di sotto della già poco edificante media nazionale.
In una nota congiunta il ministro del Lavoro Enrico Giovannini e quello dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza hanno ribadito il loro impegno proprio nei confronti di questi giovani: «Il governo ha già adottato diverse misure… In particolare con il decreto Lavoro dello scorso giugno e il decretoscuola approvato a settembre sono stati stanziati complessivamente oltre 560 milioni per il triennio 2013-2015». Ma molto ancora resta da fare.

Il Corriere della Sera 09.10.13

“La ricerca eccellenza dimenticata (solo da noi)”, di Luca De Biase

Cinquant’anni di ricerca sono sfociati in 3o minuti di festa al Cern di Ginevra per l’assegnazione del Nobel a Peter Higgs e Francois Englert. Una festa in larga parte italiana. Perché il premio ai teorici del bosone, la particella subatomica che spiega come la materia abbia una massa, è un premio anche alle migliaia di fisici che hanno realizzato il grande esperimento che ha provato la teoria. Dunque è, appunto, un premio anche ai ricercatori italiani che hanno contribuito in modo determinante al risultato, oltre che alle tecnologie italiane che sono servite a costruire il Large Hadron Collider, la macchina che ha rilevato il bosone. Negli ultimi anni abbiamo applaudito all’assegnazione di Nobel a scienziati italiani che avevano sviluppato le loro ricerche all’estero: ma questa volta si tratta di ricercatori stranieri che devono il successo anche alla ricerca svolta in Italia. Nel momento in cui l’esperimento ha raggiunto i suoi obiettivi, in effetti, i qúattro principali progetti di ricerca al Cern erano guidati da scienziati italiani. E lo erano in particolare i due esperimenti dedicati al bosone: Atlas e Cms. L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), le università di Pisa e diMilano, il centro di calcolo di Bologna e altri centri di eccellenza italiani lavoravano in rete nell’elaborazione delle conoscenze generate dagli esperimenti e nella costruzione degli apparati necessari a realizzarli. 1115% degli scienziati coinvolti, l’n% dei finanziamenti e il 20% delle tecnologie sviluppate per il progetto erano italiani, ricorda Fernando Ferroni, presidente dell’Infn. Italiani che hanno lavorato a questa impresa conquistandosi il posto per merito, sulla base di una cultura pragmatica e senza puntare alla notorietà ma alla verità. Sicché il loro contributo alla crescita del Paese è tecnologico, scientifico e profondamente culturale. Il loro apporto alla costruzione del futuro del Paese è potenzialmente immenso nel quadro dell’economia della conoscenza. E la conseguenza è semplice: investire nella ricerca è una strategia giusta, che genera ritorni visibili e modernizza il Paese. Che merita molta più attenzione. Da parte dello Stato. Da parte delle aziende. Da parte dei cittadini. Tanto per fare un esempio, nei superconduttori serviti a piegare la traiettoria delle particelle che corrono nell’anello del Ceni ci sono tecnologie sofisticatissime dell’Ansaldo. Del resto, molti apparati sono stati realizzati al Infn. E uno dei maggiori centri di calcolo connessi alla grid del Cern per géstire l’immensa mole di dati prodotti dal Lhc è a Bologna. Si tratta di fatti che si trasformano in opportunità per le imprese e i governi che li sappiano riconoscere. Le automobili più avanzate, i computer più performanti, le innovazioni dei materiali e l’ingegneria più audace sono prodotte da chi sa riconoscere queste opportunità. Il valore aggiunto, nell’economia della conoscenza, si concentra sull’immateriale che in parte essenziale è prodotto dalla ricerca di frontiera. E gli esploratori di questa frontiera non possono che offrire questo valore a chi lo sa cogliere. Italiani o no. L’orgoglio di squadra dei fisici li con duce a festeggiare insieme. Ma a valle della collaborazione scientifica ci sono varie forme di competizione. Tra le imprese che ne comprendono il valore, per l’innovazione tecnologica. Tra i territori che attirano i talenti e riescono a trasformarli in generatori di innovazione ulteriore. Da questo punto di vista occorre un cambio di passo. I fisici italiani stanno popolando i centri di ricerca stranieri. «I francesi del Cnrs scherzano dicendo che li stiamo “invadendo”» dice Ferroni. «I nostri giovani partecipano ai concorsi in giro per i mondo dove si è valutati per merito e vincono spesso. Da noi… Prendiamo un dato. Nel 2005 c’è stato un concorso per 5o posti di ricerca e l’età media di chi si è presentato era di 33 anni. Il concorso successivo, per 37 posti, si è tenuto nel 2010 e l’età media di chi si è presentato era di 38 anni. Cinque di più». La matematica fa venire in mente un’opinione: il dato fa pensare che chi non è andato all’estero, non ha trovato un lavoro in azienda e non ha vinto nel 2005 si è arrangiato, ha accettato posti di varia natura, ha aspettato pazientemente il nuovo concorso e si è ripresentato cinque anni dopo. Un aneddoto che non va sopravalutato ma che descrive una sorta di paralisi. Che l’Italia non merita. Perché l’eccellenza italiana nella fisica non è un episodio. La storia di Enrico Fermi e dei ragazzi di via Panisperna Edoar- do Amaldi, Franco Rasetti, Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Oscar D’Agostino, Ettore Majorana ha lasciato un’eredità straordinaria che ispira in modo inesauribile i fisici italiani. Quasi novant’anni di tradizione generativa è ‘un giacimento di futuro che è tempo di cominciare a valorizzare sul serio. Non è questione di fuga dei cervelli. È questione di attrazione. All’Iit di Genova e alla Fondazione Mach di San Michele all’Adige, per esempio, come in altri centri ci si riesce. E ora di riflettere anche sulle buone notizie. E di farne buon uso.

Il Sole 24 Ore 09.10.13