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Ghizzoni e Vaccari “L’agenzia delle Entrate rimanga a Mirandola”

I parlamentari modenesi del Pd presenteranno una interrogazione al ministro Saccomanni. La deputata Manuela Ghizzoni e il senatore Stefano Vaccari, nei prossimi giorni, depositeranno, ciascuno nel proprio ramo del Parlamento, una interrogazione di uguale contenuto in cui si chiede al ministro Saccomanni di non sacrificare, alle esigenze di riduzione dei costi, l’ufficio dell’Agenzia delle entrate di Mirandola che, secondo i piani nazionali, chiuderà i battenti lunedì prossimo. “Le ragioni del risparmio – affermano Ghizzoni e Vaccari – non possono prevalere su quelle di un territorio già così pesantemente danneggiato dal sisma”.

Cittadini, imprenditori, forze politiche, associazioni e Istituzioni locali chiedono che l’Agenzia delle Entrate rimanga a Mirandola, e non solo come sportello decentrato, ma con tutte le funzioni e le attività che ha sempre svolto. I parlamentari modenesi Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari, ancora una volta facendosi interpreti delle esigenze del territorio, hanno deciso di portare il caso direttamente sul tavolo del ministro Saccomanni. Presenteranno, infatti, ciascuno nel proprio ramo del Parlamento, una interrogazione di uguale contenuto in cui si chiede che il Comune di Mirandola possa contare su di un ufficio dell’Agenzia delle entrate pienamente funzionante, senza ulteriori oneri a carico del Comune. Com’è noto, la direzione regionale delle Agenzie delle Entrate ha annunciato per lunedì 30 settembre la chiusura dello sportello mirandolese. Per un po’, le funzioni svolte saranno espletate in parte nella sede di via Bernardi, nei locali messi a disposizione dal Comune, e in parte a Carpi. “Hanno ragione i cittadini, le imprese locali e l’amministrazione comunale – spiegano la deputata Ghizzoni e il senatore Vaccari – Le ragioni del risparmio non possono prevalere su quelle di un territorio già così pesantemente danneggiato dal sisma. Qui, ancora più che altrove, è necessaria una presenza capillare di uffici e servizi: la ricostruzione passa anche da questo”. A Mirandola il tema sembra trovare un consenso bipartisan sarebbe opportuno che avvenisse anche in Parlamento: “Facciamo appello ai colleghi delle altre forze politiche – concludono Ghizzoni e Vaccari – sosteniamo insieme le giuste richieste che arrivano dal nostro territorio”.

«È il segno del declino, Berlusconi primo responsabile», di Bianca Di Giovanni

«È la materializzazione della crisi di cui parliamo ogni giorno, la conseguenza del declino italiano». Vincenzo Visco commenta così la notizia dell’aumento di capitale di Telefonica in Telecom. Una fotografia disarmante, se consideriamo che «Telecom viene acquistata da un suo competitor, che era molto più debole degli italiani e che, da quello che capisco, pagherà pochissimo» aggiunge. Insomma, per l’ex ministro è un colpo fortissimo al sistema paese. E l’Alitalia? Lì come andrà a finire? «Come Telecom», replica tranchant.

Quali responsabilità ha la politica?

«Il 99% delle responsabilità sono dei governi Berlusconi. Vorrei ricordare che al momento dell’uscita di Tronchetti Provera c’era un’ipotesi di acquisto degli americani della At&T che avrebbero pagato 3 euro ad azione. Si decise l’arrocco difensivo, in nome dell’italianità, con una società di controllo che evidentemente non ha retto».

E non si è fatto nulla neanche sulla rete.

«Difatti, questo è il problema principale. C’era un progetto allo studio, non so bene per quali motivi non sia andato avanti. E non so neppure se il governo abbia ancora la possibilità di intervenire. E questo è drammatico in un momento di assoluta carenza di risorse. La rete di telecomunicazione è un asset importantissimo di sviluppo, ma servono molte risorse. Noi continuiamo a parlare di Iva e Imu e in- tanto accadono cose gravi».

Cosa pensa oggi della rivalutazione che si fa delle scelte del governo Prodi, di cui faceva parte, sia su Telecom che su Alitalia?

«Beh, su Alitalia Padoa-Schioppa aveva il progetto di cederla ai francesi, ma in condizioni molto diverse. Oggi non si sa bene come andrà a finire». All’epoca anche i sindacati si opposero. «In Alitalia i sindacati, soprattutto le sigle autonome interne, hanno responsabilità pesantissime».

E la questione Rovati su Telecom?

«Quella soluzione era sostanzialmente lo scorporo della rete. Fu attaccata perché la proposta proveniva da ambienti governativi, ma la strada era quella giusta. Si è aspettato troppo tempo per risolvere la questione, e oggi ci ritroviamo così».

Lei parla di responsabilità di Berlusconi. Ma anche Monti e Letta non hanno mosso un dito.
«I governi tecnici di solito hanno una legittimazione ridotta».

Ma Letta guida un governo politico. E per di più è un esecutivo che crede nello sviluppo industriale. Non è una beffa? «Questo è un governo che non crede a nulla, nel senso che le linee al suo interno sono opposte. La destra ha sempre creduto fosse meglio lasciar fare e magari agire solo per difendere l’italianità».

È il fallimento delle larghe intese?

«Non direi così. Parlerei piuttosto di un governo a sovranità limitati, i cui margini di azione sono ristretti. In ogni caso a questo punto il governo deve dire qualcosa sulla rete. Non può certo finire che non abbiamo nessun controllo su un monopolio naturale. Qui si tratta di un colpo molto serio». Lei parla della materializzazione della crisi. Ma anche in Spagna c’è crisi. «Infatti. Evidentemente però le azien- de spagnole non sono così indebitate come le nostre. Da noi le aziende non riescono (o non sono capaci) a ricapitalizzarsi, e alla fine devono essere cedute. Lo scenario per cui alla fine l’Italia sarà costretta a vendere tutto non è escluso. Osservo anche il fatto che Telefonica, che in precedenza era molto più debole di Telecom, oggi sta acquisendo anche altre società in Europa ed ha forti interessi in Brasile. Sta qui l’immagine del nostro declino, di un Paese senza un progetto. Oggi si è aspettato troppo tempo per risolvere questi problemi: manca la consapevolezza e anche un piano condiviso».

Letta ha invocato investimenti stranieri. Non potrebbe essere questo il caso? «L’acquisizione a basso costo di una delle più importanti aziende europee non mi pare un investimento da auspicare. Comunque era una storia annunciata. È l’ultimo atto di una lunga catena, iniziata con Edison, poi Parmalat, poi la filiera del lusso. Oggi arriva a compimento un processo che dura da anni. C’è un declino economi- co, e ci sono anche responsabilità storiche delle classi dirigenti».

Infatti, forse andrebbe rivista tutta la storia delle privatizzazioni.
«Certo, vista ex post quella di Tele- com poteva essere fatta diversamente, mi pare che lo stiano riconoscendo tutti».

L’Unità 25.09.13

«Ridare dignità alle vittime nell’Italia dei femminicidi», di Alessandra Arachi

Le donne raccontate dai giornali. Esibite in televisione. Cliccate su internet. «Come possiamo ridare loro dignità?». La domanda, a nome del consesso, l’ha posta Annamaria Tarantola. Non è una domanda qualsiasi. Non in un posto qualunque. Ieri mattina al Senato si sono dati appuntamento le istituzioni e i responsabili dell’informazione in Italia per un convegno che sullo sfondo di quell’orrore chiamato femminicidio ha cercato di individuare le radici di così tanta violenza, con l’intento di applicare la cosidetta convenzione di Istanbul che il nostro Parlamento ha ratificato nel giugno scorso.
Coro unanime: il nostro in Italia è un problema fortemente culturale. Lo hanno detto il presidente del Senato Piero Grasso e lo ha ribadito con dovizia di dettagli la presidente della Camera Laura Boldrini, mentre la presidente della Rai ha riferito dati dell’Oms piuttosto inquietanti.
Ha detto Annamaria Tarantola: «I dati dell’Organizzazione mondiale della sanità del giugno 2013 ci dicono che nel mondo più di una donna su 3 è vittima di violenza e che questa percentuale in Italia sale a 1 su 2. Di più. Di peggio: mentre nel mondo le donne uccise dal proprio partner sono il 13% in Italia questa percentuale è incredibilmente del 44».
Non si riesce a star dietro ai femminicidi, in Italia. Ieri a Mantova Franca è stata picchiata con il cric dal marito ed ora è in fin di vita. Ma poi ci sono l’altro ieri l’omicidio di Marta in Sardegna da parte del suo fidanzato e di Ilaria in Puglia da parte del suo convivente.
Come si può ridare loro dignità? La presidente della Rai ha annunciato un lavoro importante che l’azienda sta facendo per ribaltare l’immagine della donna, anche a discapito dell’audience: «Per questo fine non ci interessano gli ascolti». In Rai si sta cercando anche di riequilibrare la partecipazione degli esperti ai dibattiti, oggi sbilanciata verso gli uomini.
Quindi è stato il turno dei responsabili dell’informazione. Ad uno ad uno hanno preso la parola un po’ tutti coordinati dalla vicepresidente del Senato, la Pd Valeria Fedeli, organizzatrice del convegno. Mario Calabresi, direttore della Stampa, ha spiegato che secondo lui «il problema è del punto di vista, bisogna affrontare i racconti dei femminicidi dal punto di vista delle vittime, non degli assassini». Quindi Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica, Barbara Stefanelli, vicedirettore del Corriere della Sera, e Sarah Varetto, direttore di Sky tg24. Le conclusioni a Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato che ha ricordato come oggi nelle commissioni di Montecitorio si discute proprio della legge sul femminicidio.

Il Corriere della Sera 25.09.13

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Dieci Regole per l’Informazione

Ecco una sintesi in dieci punti delle riflessioni delle giornaliste della «27esima Ora» sul ruolo dei media.

1 Evitiamo di riferirci alle donne come «soggetti deboli», vittime predestinate, e agli uomini come «soggetti violenti», in preda a ineluttabili meccanismi mostruosi. Le donne vengono rese vulnerabili, in determinate condizioni, dalla violenza che gli uomini agiscono, in determinate condizioni. Insistere su deboli e violenti in una società che ancora tende a crescere le bambine come dolci e gentili e i bambini come forti e aggressivi conferma uno dei pre-giudizi alla base della non parità e alla radice della violenza.

2 Raptus di gelosia, omicidio passionale, l’ha uccisa, ma l’amava moltissimo. Sono frasi fatte e rifatte da una cultura che pesa sulla libertà di donne e uomini. Non lasciamoci tentare dal lato morboso delle storie. Le storie vanno raccontate, ma proviamo a rinunciare alle parole sbagliate, dai testi ai titoli.

3 Cerchiamo di porre la stessa attenzione nell’iconografia. Spesso proponiamo ai lettori solo le facce, i corpi, i sorrisi delle donne ferite o uccise. Le chiamiamo Angela, Maria, Serena. Rubiamo le loro immagini da Fb. Ma dove sono gli uomini che commettono quei reati? Ombre e, in quanto tali, ci limitano nel decifrare il male.

4 Non si può imporre a ogni articolo o titolo intenti educativi, ma la storia non può partire e fermarsi all’ultimo atto.

5 Non stiamo parlando di un’emergenza, di un’onda improvvisa che si è alzata e che si abbasserà. La violenza degli uomini sulle donne è una realtà che permane nei codici espressi e nell’oscurità dei corpi. Quello che rende strutturale la violenza è la natura stessa delle relazioni violente, anche quando non si concludono con un femminicidio. Sospendiamo la battaglia dei numeri. Stiamo sprecando tempo ed energie che potremmo dedicare alle persone.

6 Offriamo le testimonianze di quante sono riuscite a «venirne fuori». Proporre modelli positivi — donne che si sono chiuse una porta alle spalle e sono state sostenute da forze dell’ordine, magistratura, comunità di accoglienza — aiuta la diffusione di una consapevolezza che oggi in Italia è ancora debole. Una storia che si rivela sbagliata può essere chiusa: esiste un sistema di sicurezza al quale si ha diritto di ricorrere. Quando una donna viene uccisa nonostante ripetute denunce non è perché «non c’era nulla da fare», ma perché c’è stata una falla in quel sistema e su quella falla si deve lavorare.

7 Non basta develinizzare i palinsesti di televisioni-giornali-siti di giornali. Raccontiamo le donne reali: che lavorano o che fondano una propria impresa, che avanzano nella ricerca o nelle istituzioni; che scelgono di dedicarsi alla cura della famiglia senza sentirsi obbligate; che cambiano idea su una scelta precedente senza temere le conseguenze del passo indietro.

8 Gli uomini che «condividono la subcultura della superiorità maschile» sono più inclini a diventare «partner abusanti». E «le donne portate a concepire un ruolo subalterno» nella coppia sono più inclini a subirla. Non ci resta — come mass media — che contribuire al sovvertimento della subcultura generale della diseguaglianza secondo cui la mascolinità si esprime attraverso il dominio. Proviamo a cambiare racconto: raccontiamo che la violenza è fragilità. La scuola può aprire dal basso un laboratorio di idee al quale i media devono partecipare rivoluzionando, insieme, i codici lessicali e le rappresentazioni rosa-azzurre che definiscono le aspettative e determinano i desideri.

9 Evitiamo la contrapposizione maschile-femminile. Non lasciamo che la violenza sulle donne resti una conversazione tra donne. Gli uomini che prendono la parola su questioni di genere spesso temono di essere poco credibili. Invece la voce di un uomo — un giornalista, nel nostro caso — ha effetto amplificato sul pubblico. Allo stesso tempo è fondamentale raccontare gli uomini autori di violenza, dove nascono il rancore e la rabbia e l’incapacità di sopportare un «no» o un «basta». L’esperienza dei centri di ascolto per i violenti si può rivelare utilissima per smontare il meccanismo che sta sotto l’idea sbagliata di virilità.

10 Perché il fattore culturale che definisce i rapporti tra uomini e donne è così resistente? Scrive Lea Melandri che le donne restano legate al «sogno d’amore», il richiamo a un focolare che ne faceva le protagoniste della casa e del rapporto con i figli. E che gli uomini restano prigionieri dell’idea di rappresentare l’universale, frutto di un genere che ha avuto privilegi, ma anche mutilazioni della libertà. Come parlarne senza semplificazioni o denunce spettacolari? Nella nostra formazione dovrebbe entrare una riflessione sulle differenze tra i generi. La libertà di pensiero e giudizio è uno strumento base del giornalismo. Forse dovremmo chiederci perché sia ancora così difficile usarlo quando parliamo di donne e uomini. Molto sta cambiando, ma siamo — noi per primi — in una terra di passaggio. Interrogarsi è un acceleratore.

Il Corriere della Sera 25.09.13

“Se la politica è dei padroni”, di Paolo Borioni

La vicenda del finanziamento ai partiti assume ormai caratteri che confinano con l’inciviltà politica. La destra non ritiene di accettare nemmeno la soglia massima di donazione posta a 100mila euro. Chiunque deve, secondo il Pdl, poter donare anche una cifra indecente, di quelle pensate per condizionare, o addirittura per comprare un partito, e non per sostenerlo. Per questo ieri la commissione Affari Costituzionali della Camera ha interrotto i lavori. Ora, salvo ravvedimenti notturni, tutto dipenderà dall’aula. La ragione, anzi la scusa, addotta dalla signora Gelmini è che «disincentivare il finanziamento dai privati mentre si abolisce il finanziamento pubblico non è logico». Come è ovvio dietro c’è altro: Berlusconi nel suo crepuscolo inglorioso usa ogni stratagemma per mantenere i suoi nella sudditanza, e quello di donazioni senza limite gli regala un’arma che solo lui possiede per continuare ad essere quel padrone che è sempre stato. Del resto, ha pienamente ragione a sospettare che moltissimi, nel suo partito, stanno già pensando ad altre destinazioni. Ma in pubblico il rituale della fedeltà esteriore va mantenuto. Così gli esponenti del Pdl aprono senza scrupoli all’indecenza, ovvero a quella che deve essere chiamata col suo nome: la fine della democrazia, l’affermarsi di una serie di partiti padronali senza più possibili limiti, il trionfo della corruzione impunita e impunibile. Occorre far loro capire che questa assurda pretesa non passerà. Ma ragionino, i parlamentari del Pd, sulle parole della Gelmini: esse racchiudono una logica alla quale anche molti di loro hanno in qualche modo ceduto. Una volta demonizzato il finanziamento pubblico, e una volta, quindi, passato l’assunto per cui il contributo dei privati è l’unica risorsa legittima, i partiti si trovano di fronte ad un orizzonte di potenziale ansia di sopravvivenza. Anche se in forme diverse e meno sfacciate di quelle dichiarate dal Pdl, moltissimi potrebbero vivere la situazione per cui delle risorse vanno trovate purchessia. Molti potrebbero pensare che in fondo tutto è permesso se si è stati così nobili e progressisti da abolire il finanziamento pubblico. Questa logica si ritrova, a ben vedere, anche nella soglia dei 100 mila euro, abbondantemente troppo alta. In molti contesti 100 mila euro sono già una donazione che condiziona indebitamente un partito. La possibilità inoltre spingerebbe i partiti a cavarsela con un centinaio di ricchi emarginando ancora di più la raccolta diffusa, che richiede il coinvolgimento dei militanti.

E invece, il pubblico dovrebbe servire a incentivare, con meccanismi di cofinanziamento, la raccolta militante trasparente, quella che rafforza, anziché uccidere, la democrazia dal basso. Ma se non si è saldi sul limite, e se anzi non si cerca di abbassarlo, è ovvio che anche il cofinanziamento proporzionale alla raccolta privata premierebbe i padri-padroni come il Cavaliere. È vitale dunque rimanere saldi. Speriamo che nessuno, nel Pd, ceda di fronte a chi di sicuro, dal Pdl o M5S, li accuserà di «cercare scuse per salvare il finanziamento pubblico». Speriamo che a nessuno venga in mente di cercare mediazioni a mezzo milione, o un milione di euro di tetto. Il limite è già stato superato.

L’Unità 25.09.13

“La Norimberga del capitalismo”, di Alessandro Penati

La prima pagina della sezione economica di Repubblica di ieri: “Telecom in mano agli spagnoli”; seconda: ”Trattativa con Air France … Alitalia in picchiata”; terza: ”Ansaldo, baluardo Cdp contro coreani e giapponesi”. Titoli analoghi, negli ultimi tempi, a proposito della vendita di Bulgari, Loro Piana, Parmalat, Avio. Ma chi pensasse che il vero problema dell’Italia oggi sia la colonizzazione delle nostre grandi aziende, si sbaglierebbe due volte.
Gli stranieri comprano, e a prezzo di saldo, perché le nostre aziende valgono poco; e valgono poco perché sono state gestite male per troppo tempo dagli italiani, e non reggono più la concorrenza in un mondo sempre più aperto. Il problema dunque è tutto nostro. Lo abbiamo creato con la nostra incapacità. Lo straniero alle porte è la conseguenza, non la causa.
Le nostre aziende riescono a essere competitive finché dominano una nicchia, troppo piccola per essere aggredita dai grandi gruppi internazionali. Ma la dimensione della nicchia finisce per limitare quella delle imprese. I tentativi di espansione fuori dai confini, spesso finisce con una Caporetto (Rcs, Fininvest, Enel, Finmeccanica, Indesit, DeAgostini). Meglio quindi restare a casa, e operare in settori protetti dalla concorrenza estera grazie a concessioni, licenze o regolamentazione nazionale; e dove le relazioni con la classe politica locale e nazionale sono indispensabili: banche, assicurazioni, energia e servizi di pubblica utilità, autostrade e trasporti, giochi e scommesse, immobiliare. Aziende grandi, capaci di crescere fuori dai confini, reggere la concorrenza e acquisire una posizione rilevante nel mondo, ce ne sono anche da noi, ma bastano le dita delle mani a contarle: Fiat Industrial e, forse, Auto, Luxottica, Autogrill, Prysmian, Generali, Eni e qualche altra. Troppo poco per un paese di 60 milioni di abitanti. L’incapacità di crescere delle nostre imprese ci esclude dai settori che beneficiano maggiormente dalle economie di scala, che spesso sono anche quelle a maggior crescita della produttività (e quindi dei salari che pagano): tecnologia, farmaceutica e apparecchiature sanitarie, engineering e costruzioni, informatica, grande distribuzione, e ora anche lusso e tempo libero.
Il problema poi non è lo straniero, ma lo straniero sbagliato: troppo spesso non si vende a quello che paga di più o a chi è meglio in grado di espandere l’azienda. Si grida allo scandalo per Telefonica in Telecom. Ma Telefonica è arrivata a dieci anni dalla privatizzazione, dopo che vecchia e nuova aristocrazia imprenditoriale (Agnelli, Colaninno, Tronchetti Provera) erano solo riuscite a ridurre il valore di Telecom e aumentarne il debito. Telefonica in Telco, poi ce l’hanno portata, e hanno stretto un patto per comandare, la Banca Intesa di Bazoli e Passera, la Mediobanca di Nagel e Pagliaro (e allora Geronzi) e, le Generali di Perissinotto. Ben sapendo che Telefonica, essa stessa piena di debiti e acerrimo concorrente in Brasile, sarebbe stato il peggior socio straniero. L’hanno fatta entrare nella stanza dei bottoni senza che pagasse un euro di premio al mercato, e garantendole di fatto un’opzione a prendersi il controllo futuro a un prezzo risibile. Che Telefonica, infatti, esercita oggi a poco più di 1 euro per azione; azioni che era stata disposta a pagare 2,9 euro sei anni prima. Le banche però sono felici: l’operazione di sistema ha generato perdite colossali, ma almeno rientrano dai prestiti a Telco e si garantiscono l’uscita a 1,1 euro, incassando più dei 60 centesimi di valore del titolo in Borsa. Un ultimo calcetto negli stinchi del povero risparmiatore.
Da azioniste di controllo, le nostre banche hanno poi nominato un vertice, un autorevolissimo consiglio di amministrazione e un management che in sei anni non è riuscito a prendere nessuna decisione su rete, investimenti all’estero, dismissioni, o ristrutturazioni finanziarie; ma ce ha ne ha messi altrettanti per dismettere le televisioni, sebbene irrilevanti per il bilancio della società. E Telecom è l’unica telefonica al mondo, che è riuscita a perdere la leadership a favore di un concorrente (Vodafone), pur partendo da una situazione di monopolio.
La colpa non è degli spagnoli. Una felice operazione di sistema fatta, immagino, per guadagnare crediti nei confronti di un Governo, allora guidato da Prodi, che voleva difendere gli “interessi nazionali”. Ma in questo, colore del Governo e /o nome del primo ministro fanno poca differenza, come i casi di Alitalia e Finmeccanica stanno a dimostrare.
Non credo all’ingenuità dei politici. Dietro gli “interessi nazionali” c’è la difesa dei sindacati, che vogliono l’azionista di riferimento italiano perché meno determinato a ristrutturare e tagliare posti di lavoro, anche se c’è capacità in eccesso, il settore è in declino,
e l’azienda inefficiente. Fattori che portano poi l’azienda al declino; ma il nostro sindacato non brilla per lungimiranza. C’è la difesa delle tante piccole imprese fornitrici che gravitano intorno alle grandi, ma che non hanno le dimensioni e l’efficienza per essere concorrenziali nel mondo; a rischio di sostituzione se arriva lo straniero che vuole standard internazionali. E soprattutto la difesa della propria capacità di influenzare: e se l’azionista straniero non risponde alle loro telefonate? O non si precipita in visita pastorale a Roma?
La storia di Alitalia è identica. Manager dopo manager, tutti di nomina politica, portano l’azienda allo sfascio. Il Governo Berlusconi (ipotecando i soldi dei contribuenti) interviene con un’operazione di sistema per difendere “gli interessi nazionali”. La solita Banca Intesa si presta a finanziarla. I soliti imprenditori patrioti (Riva, Ligresti, Benetton, Colaninno, Tronchetti, Marcegaglia) rispondono all’appello per ingraziarsi il potente di turno a Roma; ma sono poi incapaci di gestire l’azienda. La solita brillante idea di far entrare con uno strapuntino uno straniero “gradito” (Air France), garantendogli però un’opzione al futuro controllo. Questi, poi, la esercita, ma a una frazione del prezzo che avrebbe pagato al momento dell’ingresso (si è preservato però la facciata della difesa della nazionalità). E la solita scelta sbagliata, perché ora anche Air France è in difficoltà; ma ormai è dentro.
Con Finmeccanica il copione non cambia. Ho ritrovato un mio articolo
di 14 anni fa (Corriere, 26 settembre 1999) in cui scrivevo: “Il Governo ha annunciato una privatizzazione (Finmeccanica) attraverso un’operazione che di fatto blinda il controllo pubblico di due società; si maschera un aiuto di Stato; si evitano ristrutturazioni sgradite ai sindacati; e si fa un passo avanti nella politica dei campioni nazionali. Finmeccanica è un conglomerato di imprese, messe assieme senza troppa logica industriale, sommersa dai debiti e perdite. Per risollevarsi deve concentrarsi nei settori dove può essere concorrenziale e redditizia, e uscire da quelli (energia, trasporti) che nulla hanno a che fare con la sua attività principale, e dove è troppo piccola o troppo inefficiente per competere”. Da allora non è cambiato nulla: Finmeccanica continua ad essere mal gestita, da manager pubblici che l’hanno ridotta in questo stato, in crisi finanziaria, incapace di ristrutturare; e non riesce ancora a vendere treni ed energia (Breda, Sts, Ansaldo) per paura di svendere allo straniero. Allora c’erano D’Alema e Bersani al Governo. Ma non mi sembra ci sia una grande differenza con il Governo attuale. Oggi però non si può più contare sulle banche per una soluzione di sistema, perché sono a loro volta in crisi. Avanti quindi con l’idea di utilizzare la Cassa DP al loro posto. Così si ritorna all’Iri, e il cerchio si chiude.
È il fallimento di Italia S. p. a. Inutile scatenare la caccia ai colpevoli. Lo sono tutti: governi e ministri, banchieri, imprenditori nobili e meno nobili, sindacati. Ci vorrebbe una Norimberga per i crimini contro il capitalismo in Italia: ma forse l’Europa e i mercati ci stanno già giudicando.

La Repubblica 25.09.13

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“CESSIONI ED ESUBERI, SINDACATI SUL PIEDE DI GUERRA”, di Massimo Franchi

Per i 46mila lavoratori Telecom, erano 120mila prima della privatizzazione, il passaggio ad un controllo sostanzialmente spagnolo non è per niente una buona notizia. Se le politiche dell’attuale dirigenza hanno costretto a forti sacrifici i lavoratori, la prospettiva di passare sotto il modello Telefonica rischia di produrre 16mila esuberi. I sindacati sono inviperiti. Prima di tutto per non essere stati assolutamente informati e contattati dall’azienda. Solo venti giorni fa, in un incontro informale per presentare il nuovo capo del personale Mario Di Loreto, l’amministratore delegato Marco Patuano aveva escluso novità a breve, ribadendo il rispetto dell’accordo firmato il 23 marzo, approvato dai lavoratori, che riportava nel perimetro Telecom molte precedenti esternalizzazioni, tramutando gli iniziali esub eri in contratti di solidarietà. Fino alla primavera 2015 ben 33mila lavoratori del gruppo andranno avanti con questi contratti che prevedono livelli di solidarietà variabili dal 6 al 18 per cento. La posizione unitaria di Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom è di opposizione decisa al riassetto societario e al fatto che gli spagnoli di Telefonica salgano al 70% di Telco, il patto di sindacato ” con Mediobanca, Generali e Intesa San Paolo, che detiene il 22,45% di Telecom. «Con questa operazione per la prima volta si consegna in mani straniere un gruppo strategico: un’operazione mai avvenuta in nessun Paese occidentale, un’operazione inquietante perché i problemi di sottocapitalizzazione e l’ingente debito di Telecom sono tutt’altro che risolti, anzi potrebbero essere aggravati dalla situazione di Telefonica a sua volta caratterizzata da un elevatissimo tasso di indebitamento », riassume una nota della Slc Cgil. E il modello Telefonica non è certo positivo. «Telecom passerà sotto il controllo di un gruppo che in Spagna recentemente si è liberato del settore Call center e di quello dell’Information technology. È chiaro che punterà a fare così anche in Italia e quindi i 4mila lavoratori del call center e i 12mila dell’il, che lavorano al software, rischiano seriamente il posto di lavoro », sottolinea il segretario nazionale Michele Azzola. LA GOLDEN SHARE Per i sindacati sostenere che il gruppo rimane comunque in mani italiane è un «sofisma». La prospettiva certa fra due anni è quella di una fusione con Telefonica. E per questo la Cgil chiede che «il governo convochi immediatamente gli azionisti di riferimento di Telecom Italia e le parti sociali per verificare quale sia il progetto industriale ». Ma «nel caso non vi fossero gli elementi di chiarezza necessari, i ministeri competenti (Saccomanni, Economia, e Zanonato, Sviluppo, ndr) dovranno esercitare i poteri previsti dalla golden share per salvaguardare gli interessi generali e le tutele occupazionali », come previsto dall’articolo 22 dello Statuto Telecom. Anche Vito Vitale, segretario della Fistel Cisl, chiede «un incontro immediato col governo e un tavolo istituzionale in cui si possano affrontare elementi strategici come la destinazione della rete che deve restare sotto il controllo italiano. Inoltre occorrono un piano di investimenti certo sulle reti di nuova generazione e soprattutto – aggiunge il sindacalista – le garanzie sui livelli occupazionali». Per Salvo Ugliarolo, segretario nazionale della Uilcom Uil, la priorità, «è garantire la tenuta occupazionale di Telecom. Siamo contrari a operazioni che comportino spezzatini e che mettano a rischio altri posti di lavoro». Oltre ai sindacati di categoria, la preoccupazione arriva direttamente dal leader della Cisl Raffaele Bonanni: «Dopo tutti questi anni in cui si sono imposte privatizzazioni vediamo come va a finire: tutte le aziende rimaste in mano al settore pubblico sono diventate più prestigiose e fanno più utile. Se c’è da alienare, alieniamo i beni demaniali, che possono farci recuperare soldi presupposto di investimenti».

L’Unità 25.09.13

“Quote rosa, tre mesi per adeguarsi ma le aziende sono ancora lontane”, di Manuela Messina

Per adeguarsi alle quote rosa nei Consigli di Amministrazione restano solo tre mesi. In caso contrario, le aziende riceveranno multe dai centomila al milione di euro per i CdA e dai ventimila ai 200 mila euro per i collegi sindacali. Non bastassero i richiami, la pena prevista è l’annullamento degli organismi di controllo. L’entrata in vigore, nell’agosto 2012, della legge n.120 del 12 luglio 2011, promotrici le parlamentari Lella Golfo (Pdl) e Alessia Mosca (Pd), che introduce le quote di genere nella composizione degli organi sociali delle società quotate e di quelle a controllo pubblico, ha iniziato a dare i primi frutti. Il numero di donne che siedono negli organi di amministrazione delle società italiane quotate è cresciuto, con poltrone “rosa” che oggi sono (dati Consob) il 17,2 per cento del totale. “Un record – spiega Alessia Mosca al La Stampa.it – visto che a fine 2011 le donne erano solo il 7,4 per cento” .

La legge in effetti parla chiaro. Entro la fine del 2013, tutti i CdA e le spa quotate dovranno avere almeno un quinto di rappresentanti donna ed entro il 2015 almeno un terzo. I segnali positivi ci sono tutti – Antonella Mansi eletta presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Giulia Bongiorno nel board della Juventus- ma i dati, a ben guardare, mostrano che c’è ancora molto da fare.

In un incontro della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa di Genova è emerso che per il 2013, mancano, per quanto riguarda il settore privato, 469 consigliere, mentre per la scadenza 2015, 351.

Secondo la Consob, “solo” il 18 per cento dei CdA è composto esclusivamente da uomini, ma la percentuale di società in cui almeno una donna è presente è maggiore tra le società a più elevata capitalizzazione, ovvero tra quelle incluse negli indici Ftse Mib e Mid Cap, dove le donne sono presenti rispettivamente nel 73 e nel 74,4 per cento delle società quotate.

In tutto si tratta di oltre mille consigliere alle quali si sommeranno, a breve, le circa novemila donne impegnate nelle società partecipate dallo Stato e dagli enti pubblici. I loro organi – grazie al regolamento di attuazione dell’articolo 3 della legge – in caso di sordità a diffida formale che riguardi il rispetto della legge, decadranno immediatamente.

“Lo consideriamo un grande successo – continua Mosca – anche perché l’osservatorio istituito presso la presidenza del Consiglio dei Ministri sta monitorando tutte le circa seimila società a partecipazione pubblica del Paese, non solo quelle che di solito catturano l’attenzione dei giornali”.

E se dubbi sui possibili escamotage impiegati dalle aziende per aggirare le aziende comunque rimangono – per esempio, la riduzione del numero dei componenti dei CdA, al fine di abbassare il numero legale delle quote riservate ai “volti nuovi” o l’assegnazione alle donne di ruoli meno incisivi nei board – la promotrice della legge si dice positiva. “Staremo a vedere. La legge ha raggiunto risultati prima insperati. Si vedrà dopo come perfezionarla per renderla più efficace possibile”.

Nonostante le donne rappresentino ancora una quota irrisoria nei board d’amministrazione di tutto il mondo, non mancano gli studi che dimostrano come la presenza femminile nei posti di comando delle aziende migliori le loro prestazioni effettive. Uno di questi è la ricerca, dal nome “Gender Interactions within the Family Firm” condotta dal team di economisti Alessandro Minichilli e Mario Daniele Amore dell’università Bocconi e Orsola Garofalo della Universitat Autonoma de Barcelona, che si basa sui risultati delle analisi effettuate, dal 2000 al 2010, su 2400 imprese italiane a controllo familiare, con un fatturato al di sopra dei 50 milioni di euro. Qui si è visto che le aziende il cui cda conta almeno due donne, hanno avuto un aumento medio del profitto del 18 per cento. Un risultato sorprendente, che si ha però solo in quelle aziende in cui c’è più di una donna al timone, forse per la possibilità che hanno i componenti femminili di fare squadra, legittimandosi a vicenda. Al contrario, se la manager si ritrova da sola in un board di uomini, i risultati sono meno incoraggianti. Il fenomeno si rivela comunque più marcato nel nord Italia, in aziende più piccole e in cui le donne al comando non appartengono alla famiglia proprietaria. Secondo un’altra analisi, realizzata dal 2008 al 2009 da Cerved su un campione di duemila imprese con un fatturato di 100 milioni all’anno, le aziende con il 30 per cento di donne nel cda, hanno anche meno possibilità (il 6 per cento contro il 7,1 per cento delle imprese con un management totalmente maschile) di incorrere in default. Se l’amministratore delegato è donna poi il rischio default addirittura si dimezza: si passa da un 6,7 per cento di rischio con un a.d. maschile a un 3,8 nel caso di un amministratore donna.

La Stampa 25.09.13

“La doppiezza di Angela Merkel”, di Barbara Spinelli

Non è semplice definire la fisionomia di Angela Merkel divenuta cancelliera per la terza volta. In patria ha trionfato grazie alla sua sembianza tranquilla, rassicurante, digiuna d’ogni ideologia: i tedeschi la chiamano Mutti, Mamma.
Senza remore assorbe idee socialdemocratiche, come Blair assorbì Margaret Thatcher. In Europa la fisionomia è tutt’altra: perentoria, rigida, matrigna più che materna. È come se avesse accanto a sé un sosia, un signor Hyde che di notte s’aggira nelle città europee e non strangola certo fanciulle ma piega le economie dei paesi troppo indebitati, che la sua morale castigatrice non tollera. Li piega fino a spezzarli: è successo in Grecia, peccatrice per eccellenza.
È una doppiezza con cui continueremo a fare i conti, anche perché i tedeschi desiderano proprio questo: l’isola immunizzata in un felice recinto, e fuori un disordine caotico che solo l’inflessibile mano di Berlino può disciplinare, per salvare l’euro o distruggerlo purché la Germania non finanzi eccessive solidarietà.
Ulrich Beck ha dato un nome a questa strategia che esalta l’insularità nazionale, che è del tutto priva di visione europea, e ha tramutato l’Unione in disunione: l’ha chiamata modello Merkiavelli.
Il Principe deve scegliere: o farsi amare o farsi temere. La vincitrice delle elezioni si sdoppia: è amata in casa, e fuori incute paura. Se in questi anni ha eretto l’esitazione a norma, se un giorno apre all’unione federale e il giorno dopo s’avventa contro il rafforzamento del bilancio europeo, la mutualizzazione dei debiti, l’unione bancaria, è per meglio acquietare i propri elettori. «L’esitazione si fa strumento machiavellico di coercizione», anche se ogni volta lo sfascio dell’Europa è evitato in extremis, e ad alto prezzo.
Beck è convinto che alla lunga la strategia non reggerà. Verrà il momento di decisioni più ardite, e la Merkel oserà l’integrazione europea che non ha davvero tentato. Non più allarmata dal voto, aspirerà a una grandezza meno provinciale: vorrà entrare nei libri di storia come vi sono entrati Brandt, Schmidt, Kohl. Non sarà disturbata oltremisura dal nuovo partito anti-europeo ( Alternativa per la Germania), che farà sentire il suo peso ma non è ancora in Parlamento. Desidererà esser ricordata per la sua qualità di guida che accomuna gli europei, invece di spaventarli, soggiogarli, separarli.
Questo carisma non l’ha mai posseduto. Non c’è una sua sola frase sull’Europa che sia memorabile, se escludiamo l’interiezione (
Un passo dopo l’altro – Schritt für Schritt) che costella i discorsi. Lo stesso machiavellismo dovrebbe indurla a cambiar strada, a realizzare l’Europa politica che ogni tanto invoca. La Germania è diventata troppo potente – conclude Beck – per permettersi il lusso dell’indecisione, dell’inattività. Né lei né i socialdemocratici possono continuare a sonnecchiare sull’orlo del vulcano, come la bella addormentata descritta da Jürgen Habermas.
Per svegliarsi dal sonno non basta tuttavia liberarsi del machiavellismo: che è solo un metodo, utile a simulare l’assenza di ideologie. L’ideologia c’è, invece: la logica del recinto immunizzante presuppone la certezza di possedere una scienza infusa, un’ortodossia economica non confutabile, e di quest’ortodossia si nutre il neo-nazionalismo tedesco. Non è più l’aspirazione a un impero territoriale, ed è vero che Berlino non desidera restare sola al comando, come alcuni sostengono. È il nazionalismo di ricette economiche presentate come toccasana infallibili, e che può essere riassunto così: che ognuno «faccia i suoi compiti a casa» – dietro le rispettive palizzate, costi quel che costi – e solo dopo saranno possibili la cooperazione, la solidarietà, l’Europa politica di cui ci sarebbe subito bisogno. I risultati del nazional-liberalismo tedesco (il nome scientifico è
ordoliberalismo) sono stati disastrosi. In Grecia, i salvataggi accoppiati a terapie recessive hanno aumentato il peso del debito pubblico sul prodotto nazionale (130% nel 2009; 175 oggi), con effetti tragici su crescita e disoccupazione (27% sul piano nazionale, 57% fra i giovani).
La cancelliera non vuole comandare, ma soverchiatore è il dogma secondo cui l’ordine mondiale regnerà a condizione che ogni Stato faccia
prima ordine economico in casa. È predominio il rifiuto opposto agli eurobond, gli ostacoli frapposti all’unione bancaria perché Berlino mantenga il controllo politico sulle proprie banche, l’ostilità a un aumento delle risorse comunitarie che consenta quei piani europei di investimento che Jacques Delors propose invano fin dal ‘93-’94. È predominio quando la Banca centrale tedesca chiede di contare di più negli organi della Bce, e attacca Draghi perché s’è permesso contro il parere berlinese di soccorrere i paesi in difficoltà acquistando i loro titoli. Non meno prepotente è la Corte costituzionale di Karlsruhe, che paralizza l’Unione ogni volta che verifica la conformità dei piani europei di solidarietà alla Costituzione tedesca, senza mai inglobare gli imperativi dei trattati costituzionali della Comunità. Siamo abituati ad associare nazionalismo e autoritarismo. Ma il nazionalismo può anche indossare le vesti di una democrazia nazionale osservata con puntiglio: ma nell’isolamento, indifferente a quel che pensano e vivono le altre democrazie dell’Unione.
Se la Merkel ha vinto con questa ricetta è perché il neo-nazionalismo è diffuso nel paese. Una Grande Coalizione fra democristiani e socialdemocratici non cambierebbe nella sostanza le cose: la socialdemocrazia appoggia da anni le politiche europee del governo, pur denunciandone a parole i pericoli. Ha addirittura accusato la Merkel di spendere troppo. Proporsi un’Europa diversa è compito affidato alla cancelliera come ai suoi eventuali alleati di sinistra.
Il Modello Germania fa ritorno, ma non è più l’alternativa al mercato senza briglie che Schmidt concepì nel ‘76. I tedeschi cercano rifugio nell’ortodossia nazional-liberista non perché felici, ma perché impauriti. Vogliono a ogni costo stabilità. E «nessun esperimento», come Adenauer promise dopo il ‘45. Non tutti i tedeschi in verità, perché c’è povertà anche in Germania e ben 7 milioni di precari lavorano per salari oscillanti fra 8 e 5 euro l’ora (meno dal salario minimo in Spagna). Ma i più si sentono confortati da un leader che non sembra chiedere granché ai concittadini, anche quando in realtà chiede. Bisogna che la crisi tocchi la pelle del paese, perché ci sia risveglio. La Merkel ne è stata capace, a seguito della catastrofe di Fukushima: meno di tre mesi dopo, il 6 giugno 2011, ha rinunciato all’energia atomica.
Molto potranno fare gli Stati dell’Unione, se smetteranno la subalternità che li distingue. Tra i subalterni ricordiamo l’Italia di Letta-Napolitano, che s’aspettava chissà quali miracoli dal voto tedesco; e che dopo il voto si autoincensa paragonando l’imparagonabile: Larghe Intese e Grosse Koalition, Berlusconi e Merkel, indecentemente assimilati.
Molto dipenderà infine dalle sinistre tedesche. Sulla carta esiste una maggioranza parlamentare, composta di socialdemocratici, verdi e sinistra radicale (Linke).
Governare con la Linke è giudicato irresponsabile dalla Spd, ed è tabù comprensibile: il partito ingloba gli ex comunisti della Germania Est. Ma questi anni potevano essere usati per costruire un dialogo civilizzatore della Linke, e prefigurare un’alternativa alla Merkel. Per tanti tedeschi il dialogo è destabilizzante. Ma la democrazia non si esaurisce tutta nella stabilità, nella continuità. Priva come la Merkel di forti visioni, la socialdemocrazia è rimasta intrappolata nello spirito dei tempi: «Non c’è alternativa alle cose come stanno». È un altro recinto da smantellare, se con la Germania crediamo non alle cose come stanno, ma alla possibilità di un’Europa diversa.

La Repubblica 25.09.13