Latest Posts

“Una nuova idea di nazione”, di Michele Ciliberto

Quando si affronta la questione dell’immigrazione, occorre essere consapevoli di un dato fondamentale: oggi è in corso di profonda trasformazione l’idea di nazione, un processo strettamente connesso alla crisi del modello moderno di Stato. Cioè di quel modello imperniato su un rapporto organico tra Stato, nazione, territorio. Non a caso, la storia dell’Europa moderna, arrivata ormai alla sua conclusione, si configura proprio come una lunga vicenda di Stati nazionali territorialmente concepiti e costituiti.

È difficile periodizzare questo processo, e dire quando esso sia entrato in una fase di crisi. Per quanto riguarda l’Italia, è un fenomeno che diventa visi- bile negli anni Settanta, nel vivo di trasformazioni strutturali e culturali che investono in profondità il nostro Paese.

La vicenda della Lega si situa in questo contesto, ed è significativa in un duplice significato. Anzitutto perché è in- dice della crisi dello Stato nazionale moderno; in secondo luogo perché essa cerca di risolvere questa crisi attraverso la costruzione di una microentità statale di carattere regionale, territorialmente definita e rivendicata, fino ad assumere toni di carattere etnico, e addirittura razzista, quando la prospettiva politica della Padania viene meno. In altre parole, la Lega è stata, al fon- do, una risposta di carattere reazionario alla crisi, di vastissime proporzioni, dello Stato nazionale moderno. Oggi appare chiaro che anche tutta la vicenda jugoslava va vista in questo quadro: come l’esito sanguinoso di una crisi che è esplosa in termini più violenti do- ve il paradigma della statualità moderna era più debole e più fragile.

La storia, anche recente, insegna che da questa crisi si può uscire in una duplice direzione: riproponendo in termini più ristretti e asfittici il principio statuale moderno; oppure lavorando a una nuova concezione della nazionalità, che si ponga oltre le barriere moderne della statualità e della territorialità.

Ma una sfida di questo spessore può essere affrontata solo ponendosi dal punto di vista dell’Europa e intrecciando un nuovo principio di nazionalità e la nuova idea dell’Europa, sganciando entrambi dalla interpretazione della territorialità come condizione della cittadinanza, sia italiana che europea.

È questo il salto culturale, etico e an- che religioso che bisogna compiere oggi e nei prossimi anni, assumendo come punto di elaborazione e di iniziati- va politica la dimensione della interculturalità e del dialogo fra le religioni.

È un mutamento radicale di visione che richiede un impegno decisivo a livello di coscienza, di cultura, di educazione, da cui deve scaturire un concetto di cittadinanza italiana ed europea capace di andare oltre gli stessi concetti fondamentali della civiltà moderna, come quello di tolleranza – essenziale , certo, ma non non più sufficiente a definire il rapporto tra le differenti identità culturali e religiose, perché agganciato a forme di riconoscimento e di comunicazione tra mondi diversi che oggi devono essere, con forza e rigore, oltrepassate.

Non è il territorio che deve decidere oggi chi è italiano o europeo, chi è nativo e chi è straniero: ma la partecipazione a un comune vincolo civile, a una dimensione culturale condivisa, costituita da differenze in grado di risolversi in un condiviso senso di appartenenza. Nella costruzione della nuova Italia e della nuova Europa, la dimensione di valori comuni è decisiva, anzi è il ban- co di prova delle nuove identità nazionali ed europee che bisogna costruire.

Insisto sul temine nazione: dobbiamo lavorare a un nuovo concetto di nazionalità, non alla sua cancellazione. È vero il contrario. La nuova Europa da costituire richiede forme nazionali nuove ma potenti, in grado di arricchire con la loro storia la comune patria europea. La storia vive di differenze, non di uniformità.

C’è un nuovo mondo da costruire nel XXI secolo, oltre le barriere della «modernità», dalle quali non si riesce ancora ad uscire con la forza necessaria. Ed è in questo processo che va inserito il problema, grande e drammatico, della immigrazione. Padre Ernesto Balducci diceva che l’Europa era destinata ad essere travolta dall’Africa, se non avesse saputo fare i conti con i nuovi mondi che venivano alla luce. Aveva ragione: essi possono essere la condizione per un balzo in avanti della nostra comune civiltà – in Italia ed in Europa – oppure di una sua catastrofe. Certo, è una sfida che ha i suoi tempi e le sue tappe:è dunque giusto battersi per lo «jus soli» e per la eliminazione d leggi inique. Ma noi dobbiamo avere uno sguardo più lungo e riuscire ad avere una visio- ne di quello che potrà essere il nostro futuro. La modernità, la statualità nazionale moderna, è ormai finita; sta alle nostre spalle.

L’Unità 26.09.13

“La riscoperta del pubblico”, di Patrizio Bianchi

È esploso il caso Telecom Italia e d’improvviso un paese, che per anni ha nascosto le proprie responsabilità nei confronti del proprio sviluppo, scopre quanto rilevante sia disporre di grandi reti, di grandi imprese e progetti industriali. Nessuno sembrava voler porre il problema quando il gruppo Agnelli pretese di governare l’allora privatizzata Telecom con quote marginali.

O quando oscuri imprenditori bresciani dettero l’assalto al cielo della grande finanza, o quando Pirelli si impossessò dei grandi asset, anche immobiliari, del campione delle telecomunicazioni.
Le grandi privatizzazioni degli anni novanta, che portarono alla chiusura dell’Iri, vennero realizzate- sia pur sotto forte pressione europea – con un chiaro disegno strategico; bisognava disporre di grandi gruppi privati ma regolati pubblicamente, da lanciare sul nuovo mercato europeo che si stava creando con l’euro. Le privatizzazioni dei grandi servizi pubblici dovevano permettere del resto una liberalizzazione dei servizi, con l’accesso di nuovi operatori, così da far aumentare la concorrenza ed aumentare i vantaggi per i consumatori.
Ma i consumatori sono anche cittadini ed aldilà di più o meno consistenti vantaggi di costo del

singolo servizio vi è anche un disegno del futuro del paese che va salvaguardato, cosicché in tutti i casi di servizi a rete è sempre stato posto il problema, fin dall’inizio, di distinguere proprietà, regolazione e gestione della rete dalla proprietà e gestione dei servizi che i diversi operatori avrebbero, in un futuro più o meno prevedibile, potuto offrire. La proprietà pubblica della rete, o almeno una sua chiara regolazione pubblica, era la garanzia che quella vertebra fondamentale dell’ossatura di un paese, che rivendica la propria autonomia, rimaneva fra i beni della comunità, o almeno rimaneva sotto garanzia pubblica. La stagione delle privatizzazioni finì bruscamente nel 2000, quando appunto la Telecom cadde sotto il governo fragile degli Agnelli e dell’allora salotto buono dell’economia italiana e il Tesoro assunse la posizione di proprietario di portafoglio delle sue residue proprietà, e nei confronti di Telecom di osservatore muto dei continui rivolgimenti interni a proprietà sempre fragili – e visti i risultati, certamente non efficienti – mentre diveniva sempre più difficile scorporare la rete, che restava il principale asset “tangibile” di una società che continuava ad indebitarsi. Oggi si temono gli spagnoli, che del resto arrivano con un carico debitorio non migliore di quello di Telecom, così come la deficitaria Air France viene temuta come partner dell’ancora agonizzante nuova Alitalia. E qui si rivela chiaramente come alla fragilità delle imprese, già portabandiera degli interessi nazionali, si aggiungano le fragilità sia nazionali che europee nella formulazione di una politica industriale adeguata alla nuova Europa dell’età dell’euro.

In questi anni, nonostante le molte entrate competitive, tutte le grandi società di servizio telefonico in Europa hanno mantenuto le loro bandiere nazionali, Telecom Italia, France Telecom, British Telecom, Deutsche Telecom, Telefonica spagnola, così come nel trasporto aereo la nuova Europa è rimasta legata ad Air France, Lufthansa, British Airways, Iberia e per quanto ci riguarda all’Alitalia dei «patrioti». Sarebbe toccato all’Italia, che fra tutti era il più fragile dei giocatori europei avanzare in Europa un bisogno di andare aldilà dei campioncini nazionali per andare verso nuove aggregazioni capaci di giocare fortemente sul nuovo grande mercato interno europeo e insieme sul mercato globale.

La regolazione delle reti nazionali, la loro effettiva integrazione, l’apertura dei mercati, proprio perché i terreni su cui cresceva la liberalizzazione del servizio erano presidiati dalle autorità nazionali ed europee, erano l’ altro tassello di una integrazione reale dell’economia, di cui proprio noi dovevamo giovarci più di altri. La garanzia delle reti, per una maggiore efficienza dei servizi consolidati e l’apertura a nuovi servizi, sia di rete fissa che mobile, diveniva tanto più necessaria per un paese, come il nostro che rischiava, come purtroppo si è visto oggi, di venire spaccato in una parte minoritaria, capace di giocare autonomamente in Europa e nel mondo perché più integrata di prima al corpo centrale europeo, ed una vasta parte del paese, che è oggi ancora più marginale di prima, e per il quale proprio la disponibilità di reti di comunicazione, di telecomunicazione, di energie tradizionali ed alternative, costituisce la base infrastrutturale per un ipotesi di sviluppo, che superi la troppo lunga stagione della recessione. Mentre nella vicenda Telecom si alternano gli atteggiamenti di stupore ai «non sapevo», cresce nel paese un bisogno di sviluppo consapevole, in cui il richiamo alla politica industriale non sia inutile mantra, ma un disegno di futuro, di cui produzione, lavoro, ricerca, beni pubblici siano solida base.

Il disegno della nostra politica industriale riparte anche da questa vicenda, dalla riscoperta di quei beni, che – proprio perché pubblici – possono far crescere il mercato e la garanzia dei cittadini, generando opportunità di crescita per l’intero paese.

L’Unità 26.09.13

“I Sindacati allarmati scrivono a Letta: incontro urgente”, di Massimo Franchi

«Un urgente incontro in vista dell’adozione delle misure necessarie ». Cgil, Cisl e Uil lo chiedono al governo sulla vicenda Telecom. La lettera è firmata dai segretari generali delle tre confederazioni sindacali, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti e per mittenti ha il presidente del Consiglio Enrico Letta e il ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato. «La modifica dell’azionariato di Telecom Italia – si legge nella missiva – provoca conseguenze rilevantissime su tutto il comparto delle telecomunicazioni, settore strategico per il futuro del nostro Paese. Siamo a richiederle – conclude la lettera – un urgente incontro per un esame della situazione in vista dell’adozione delle misure necessarie ». La risposta del governo è stata immediata. Ma, come nel caso della legge di stabilità, per ora non c’è una data per l’incontro. «Li incontro volentieri », ha twittato il ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato. Poche e decise righe dunque per far emergere il più possibile nella vertenza Telecom la questione occupazionale, finora ai margini delle polemiche su italianità e sicurezza della rete, mentre negli ultimi 6 anni i sindacati si sono trovati a gestire ben 13mila esuberi nel gruppo. La posizione dei sindacati su questo punto è totalmente unitaria. La preoccupazinne è rivolta alla certezza che al passaggio societario seguirà un piano industriale diverso da quello sottoscritto in maniera unitaria a marzo. La richiesta è dunque quella di avere al più presto risposte chiare in materia di salvaguardia dei livelli occupazionali del gruppo in Italia, tenendo conto del fatto che fino al 2015 ben 33mila lavoratori (sui 46mila totali in Italia) sono già in regime di solidarietà. Telefonica poi in patria ha da poco venduto o esternalizzato i servizi di call center e Information technology e se lo facesse anche in Italia a rischio ci sarebbero 16mila posti di lavoro (4mila nei call center e 12mila nella ft). C’è poi il tema dello scorporo della rete e del fatto che potrebbe arrivare in un momento nel quale l’Agenda digitale è la parola con cui tutti si riempiono la bocca. «Finora siamo davanti ad un semplice cambio di assetti societario – spiega Massimo Cestaro, segretario generale Slc Cgil – noi vogliamo però immediatamente sapere di più dalla nuova proprietà, soprattutto sulle prospettive occupazionali». «Il problema di Telecom è di struttura dell’asset: arriva Telefonica che è ancora più indebitata, il governo deve intervenire su questo», attacca Vito Vitale, segretario generale Fistel Cisl.

«UN’OPERAZIONE MIOPE» La priorità Telecom si integra poi in una preoccupazione più complessiva che riguarda i casi così simili di Alitalia e Ansaldo Energia, Breda e Sts, per non parlare di Mps. Senza usare la parola «italianità », i sindacati chiedono che il Paese non perda asset strategici. Lo aveva ribadito in mattinata lo stesso segretario della Cgil Susanna Camusso. «Su Telecom si sta compiendo una operazione di svendita assolutamente miope, rispetto alla capacità di questo Paese di riprendersi. A coloro che dicono che c’è la ripresa vorrei chiedere come si immaginano possa esserci senza avere più grandi imprese. Non possiamo essere l’unico Paese europeo senza una rete pubblica ». Più in generale, per Camusso «paghiamo il prezzo di privatizzazioni fatte male e di una scarsa presenza di capitali industriali, ma soprattutto l’assenza di un indirizzo della politica di governo». Ancora più duro e sarcastico il leader Cisl Raffaele Bonanni: «Quella di Telecom nei fatti è una svendita, ma non poteva che andare a finire così. C’è stato un inizio di liberalizzazioni e privatizzazioni da manuale, da manuale di rapina». E sulla rete attacca: «Secondo noi deve restare in mano pubblica». Il segretario generale Uil Luigi Angeletti si sofferma invece sulle conseguenze occupazionali del passaggio a Telefonica: «Le rassicurazioni di Letta sui livelli occupazionali non valgono assolutamente nulla. Quando dovranno decidere cosa vendere e dove fare gli investimenti penso che verrà privilegiata, come noi pretenderemmo a parti invertite, l’occupazione della Spagna, piuttosto che quella dell’Italia, del Brasile o dell’Argentina». ”

L’Unità 26.09.13

******
“CONFINDUSTRIA E SINDACATI: ABBATTERE IL COSTO DEL LAVORO”, di Giorgio Pogliotti

Abbattere il carico fiscale che grava sul lavoro e sulle imprese per favorire la ripresa e sostenere l’occupazione. I leader di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, rispettivamente Giorgio Squinzi, Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, si sono incontrati ieri mattina per rilanciare le richieste contenute nel documento di Genova del 2 settembre, in attesa di un confronto con il premier Enrico Letta in preparazione della legge di stabilità. Sindacati e Confindustria pongono la questione fiscale al centro delle richieste, sollecitando l’eliminazione della componente lavoro dalla base imponibile Irap, per favorire le imprese che assumono e investono. Considerano «non più rinviabile » l’abbattimento del prelievo sui redditi da lavoro attraverso le detrazioni per lavoratori e pensionati, con l’obiettivo di rilanciare i consumi. La ripresa poggia anche su una maggiore efficienza della Pa ed una razionalizzazione della spesa pubblica. Nel corso dell’incontro i leader delle parti sociali hanno anche discusso dell’attuazione dell’accordo interconfederale dello scorso 31 maggio sulla rappresentanza, la democrazia e l’esigibilità dei contratti; entro fine mese verrà sottoscritto il regolamento per garantire l’applicazione delle misure. Susanna Camusso si è rivolta al Governo: «È arrivato il momento che per fare una scelta strategica ci sia un confronto con il sindacato». Un incontro con l’Esecutivo viene sollecitato dai sindacati anche sulla vicenda Telecom che suscita forti preoccupazioni per le ricadute occupazionali. Bonanni ha sottolineato che con le imprese c’è una «alleanza per fare della questione delle tasse un punto di ripresa economica», bisogna «alleviare le condizioni dei lavoratori e delle imprese perché i livelli di tasse sono altissimi», serve «una detassazione forte degli utili che vengono investiti e dei nuovi investimenti». Dalla legge di stabilità Angeletti si aspetta «una seria riduzione delle tasse sul lavoro, senza la quale non credo che il Governo abbia un futuro». Le stesse richieste sono state ribadite dal vicepresidente di Confindustria, Stefano Dolcetta, che intervenendo nel pomeriggio in un’audizione alla commissione lavoro alla Camera ha ricordato che dal 2007 la produzione industriale ha perso il 25%, il tasso di disoccupazione è raddoppiato, il reddito per abitante è tornato ai livelli del 1997, è alto il rischio di distruzione della nostra base industriale. «Oggi si cominciano a vedere primi indizi di recupero – ha aggiunto Dolcetta – ci auguriamo che questi segnali si consolidino e risultino confermate le previsioni di avvio della ripresa a fine anno. Siamo in un’emergenza, dobbiamo riconquistare la crescita, creare lavoro, riaffermare la centralità delle imprese». Il recupero di competitività per Confindustria poggia anzitutto su un «abbattimento significativo del costo del lavoro ». Dolcetta, accompagnato in audizione dal direttore generale delle relazioni industriali di Confindustria, Pierangelo Albini, ha rilanciato il Progetto per l’Italia dello scorso gennaio che punta su una «terapia d’urto » per eliminare completamente il costo del lavoro dalla base imponibile Irap, tagliare di n punti gli oneri sociali che gravano sulle imprese manifatturiere e conseguentemente dell’8% il costo del lavoro. Le riduzioni proposte su un arco di più anni in totale ammontano a circa 21 miliardi tra Irap e contributi, i2,5 miliardi di minor Irpef. I risultati economici attesi sono stimati in io punti di Pil e 1,1 milioni di occupati in più – al 2017 – rispetto allo scenario in assenza di politiche. La ripresa, secondo Dolcetta poggia anche sulla «correzione delle troppe rigidità del nostro mercato del lavoro», nell’attuale clima di incertezza è «un errore non puntare sul contratto a termine». Il vicepresidente di Confindustria ha citato la proposta delle imprese al tavolo sull’Expo di un “contratto di inserimento lavorativo”, di natura temporanea, acausale, caratterizzato da una disciplina snella per non sovrapporsi ad altri istituti come l’apprendistato. Per la ripresa dell’occupazione va favorito l’incontro tra domanda e offerta di lavoro: «Non bisogna perdere l’occasione del piano straordinario per i giovani», la Youth Guarantee europea che destina circa 50o milioni all’Italia, per «rendere più efficiente i nosei servizi per l’impiego favorendo forme di collaborazione tra pubblico e privato e ampliando la sfera di azione delle agenzie private».

Il Sole 24 Ore 26.09.13

“Una scelta di irresponsabilità istituzionale”, di Luigi La Spina

La notizia ha dell’incredibile. Le dimissioni in massa di tutti i parlamentari del Partito della Libertà, se la Giunta del Senato dovesse votare per la decadenza del leader del centrodestra, Silvio Berlusconi, da palazzo Madama, in un momento cos ì difficile per le sorti del Paese, annunciano una prova di irresponsabilità istituzionale, prima ancora che politica, davvero sconcertante. Il giorno dopo le assicurazioni di Alfano al presidente della Repubblica, proprio mentre il premier Letta parla all’Onu e alla comunità finanziaria internazionale per convincere gli interlocutori dell’Italia sulla nostra stabilità politica, quando i conti pubblici sono tornati a rischio e i casi Telecom e Alitalia manifestano la grave crisi del nostro sistema produttivo, il dramma personale del leader del centrodestra rischia di portare l’Italia in una situazione di vero caos parlamentare, politico e istituzionale, con conseguenze economiche e finanziarie del tutto imprevedibili.

L’impressione è che la tragedia di un uomo, passato dagli onori della ribalta internazionale e dalla percezione di un successo imprenditoriale e politico straordinario e destinato a non finire mai nel consenso della maggioranza degli italiani, alla prospettiva di un arresto e, magari, del carcere sotto un diluvio crescente di accuse, abbia tolto a Berlusconi quella lucidità che gli aveva consentito sempre di calcolare, con molta accortezza, le conseguenze di ogni sua mossa. In questo tunnel di disperazione spinto, per giunta, da un manipolo di ultrà che non vedono il loro futuro politico e anche personale se non asserragliati intorno a lui, in una furibonda e inutile guerriglia contro chiunque non lo aizzi a iniziative sempre pi ù incontrollate e controproducenti. Nella sostanziale incapacità dei molti e più avveduti suoi parlamentari di avere il coraggio di sottrarsi a un rassegnato e vile accodamento alle assurde proposte avanzate da tali ultrà.

Eppure, l’annuncio delle dimissioni in massa apre uno scenario tanto evidente quanto preoccupante. Mira, infatti, a impedire o a rendere drammatico il voto dell’assemblea al Senato per la ratifica della decisione della Giunta e a superare anche il verdetto della Corte d’Appello di Milano sull’interdizione di Berlusconi dai pubblici uffici previsto per metà ottobre. Dal momento che si tratta di una nuova sentenza, infatti, i suoi legali potrebbero ancora fare ricorso in Cassazione e, così, rinviare di alcuni mesi l’espulsione del leader del Pdl da palazzo Madama. Lo scontro istituzionale, giudiziario e politico non potrebbe, naturalmente, non travolgere il governo, ma l’illusione di Berlusconi, alimentata da quella disperata corte di ultrà, di ottenere subito le elezioni anticipate sarebbe sicuramente frustrata da altre e ben più gravi dimissioni, quelle già annunciate di Napolitano. Con il risultato che il nuovo presidente della Repubblica sarebbe eletto non da un nuovo Parlamento, ma dall’attuale. Un futuro che non sembra davvero più rassicurante per Berlusconi e più promettente per il centrodestra italiano.

Al di là di una contabilità miserevole sulle convenienze personali e politiche, però, quello che davvero stupisce è la distanza tra la comprensione di una fase molto delicata del Paese e l’annuncio di una mossa così irresponsabile. L’Italia è al bivio tra un destino di decadenza produttiva ormai drammatica, con il rischio di una crisi finanziaria che porterebbe a nuovi, pesanti sacrifici per tutti i cittadini, e la speranza di agganciare una pur flebile ripresa internazionale. Una situazione che richiederebbe, davvero, comportamenti adeguati alla gravità del momento da parte di tutta la classe politica. Non è difficile prevedere quale sarebbe l’accoglienza della maggioranza degli italiani, compresi molti elettori moderati, nei confronti di una così sconsiderata iniziativa dei parlamentari Pdl. Basterebbe domandarlo, peraltro, a quelle 500 donne, in coda su una strada di Genova, per il sogno di acchiappare uno dei tre posti di commessa che un negozio ha messo in palio.

La Stampa 26.09.13

******

“La scelta della disperazione”, di CLAUDIO TITO

LA POLITICA non sempre è fatta di razionalità, lucidità e calcolo. Le emozioni, i sentimenti, anche quelli incontrollabili, a volte condizionano le scelte. Oppure le determinano.
Un esempio lo ha fornito ieri il centrodestra. L’idea di far dimettere tutti i parlamentari del Pdl – o Forza Italia – risponde ad un solo stato d’animo: la disperazione. I racconti che quasi tutti gli esponenti berlusconiani fanno del loro leader, sono su questo punto assolutamente convergenti. Il Cavaliere si sente sull’orlo del precipizio per l’avvicinarsi della decadenza e per la paura che, senza le protezioni del suo mandato parlamentare, possa essere raggiunto da richieste di custodia cautelare a causa dei processi in cui è coinvolto.
E infatti la minaccia di abbandonare in blocco la Camera e il Senato è stata ieri sera brandita come un’arma e poi lasciata lì, sul tavolo. Non è stata innescata ma nemmeno ritirata. Se ne riparlerà semmai la prossima settimana o quando l’aula di Palazzo Madama voterà il suo addio al Parlamento. È per il momento una chiara forma di pressione nei confronti del Pd. È come se Berlusconi dicesse al partito di Epifani e al capo dello Stato Napolitano: potete ancora salvarmi, potete rinviare la decisione in giunta o bocciare la decadenza. Altrimenti faccio esplodere la bomba.
Ma si tratta di un avvertimento che non tiene conto di quel che sta avvenendo in Italia e soprattutto non considera gli attuali rapporti di forza. Una intimidazione – o un bluff – che lo “strano alleato” del Partito Democratico e il Quirinale non possono prendere in esame. La risposta infatti è già arrivata. Il Pd non può fare altro. Anzi, stavolta non può nemmeno far finta di soppesare la minaccia. La procedura che porta alla decadenza del Cavaliere è ineludibile per le forze di centrosinistra. Qualsiasi cedimento al Senato su questo aspetto verrebbe recepito dai loro sostenitori come un tradimento.
Ma c’è di più. Lo scontro in corso anche sulla politica economica del governo, le difficoltà emerse nella maggioranza in queste settimane nel rimettere ordine nei nostri conti pubblici spingono il Partito Democratico ad anticipare i tempi della verifica. Non più sulla legge di Stabilità, ma subito. Il tira e molla del Pdl, le incertezze sulle misure da adottare per far quadrare il bilancio dello Stato, i continui strappi di Berlusconi stanno diventando insostenibili per il Pd e per la sua base. Non a caso anche il presidente del Consiglio Letta ha iniziato a considerare la necessità di andare subito al redde rationem. L’inaffidabilità del Pdl, il rischio che tutte le misure “europeiste” di correzione dei conti, quelle meno digeribili per gli elettori, si possano ritorcere contro i democratici, sta spingendo Epifani ad essere ancora più intransigente.
Una situazione quindi che rischia di precipitare in ogni caso. Per molti le parole del Cavaliere sono state infatti l’inizio della campagna elettorale. Nel centrodestra già hanno individuato nel mese di marzo la data per richiamare gli italiani alle urne. Berlusconi ritiene che i sondaggi lo stiano aiutando e che per riuscire nell’impresa deve bloccare ora l’avanzata dei grillini. Ma la disperazione – se la mossa del centrodestra non si rivelerà solo un trucco – non aiuta ad esaminare con freddezza tutte le potenziali ripercussioni. Dimentica ad esempio che molto probabilmente non potrà ricandidarsi.
Anche lo strumento selezionato per provocare la crisi di governo appare contorto: le dimissioni in blocco sono una strada complicata. Serve l’approvazione dell’aula, poi l’impegno anche dei subentranti a lasciare lo scranno. È chiaro che il Parlamento sarebbe comunque inagibile. Ma il sistema riporterebbe una lesione senza precedenti: se si accettasse che una minoranza – non una maggioranza – è in grado non solo di far cadere un governo ma anche di costringere il Parlamento a sciogliersi, assisteremmo ad un vero e proprio paradosso della rappresentanza parlamentare. Senza contare che l’articolo 67 della Costituzione renderebbe inaccettabile il percorso imposto da Berlusconi ai suoi parlamentari: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
E tutto questo senza considerare gli effetti sulla nostra credibilità internazionale e soprattutto sul giudizio che l’Unione europea darà del nostro Paese. E senza considerare che il presidente della Repubblica Napolitano farà di tutto per evitare le elezioni anticipate. Almeno per il 2014. Nella galassia del centrodestra, poi, quando si arriverà al momento della verità, non tutti potrebbero obbedire ai diktat di Via del Plebiscito. Risuonano ancora nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama i “non ci sto” dei deputati e senatori pidiellini eletti in Sicilia. Forse allora anche Berlusconi dovrebbe ascoltare quel che diceva Albert Camus: «Il vero democratico crede che la ragione possa illuminare un gran numero di problemi e forse regolarne quasi altrettanti». La ragione, non la disperazione.

La Repubblica 26.09.13

“La ballata dei poteri morti”, di Massimo Giannini

Nella grandiosa svendita di fine stagione che si sta consumando su Telecom non si salva nessuno. Al dolo di un capitalismo indecente, che scappa col malloppo e lucra i suoi ultimi affarucci sulla pelle di utenti, risparmiatori e lavoratori, si somma la colpa di una politica impotente, che piange le solite lacrime di coccodrillo sul latte già versato. All’inconcludenza dei controllori, che assistono silenti alle nefandezze di un «mercato» sospeso tra Far West e parco buoi, si somma l’impudenza dei manager, che bruciano risorse umane e finanziarie senza mai pagare dazio ma facendosi pagare bunus milionari. È agghiacciante scoprire che una delle ultime grandi aziende del Paese, per quanto fiaccata dalla concorrenza e schiantata dai debiti, possa passare di mano dall’oggi al domani senza che nessuno abbia saputo o abbia visto alcunchè. Non sapeva niente il presidente del Consiglio Letta, che adesso promette la sua tardiva «vigilanza». Non sapeva niente il presidente di Telecom Bernabè, che dichiara addirittura di aver appreso la notizia del blitz spagnolo dai comunicati stampa.
Non sapeva niente la Consob, che annuncia di aver acceso il solito «faro», dopo quelli già inutilmente puntati su Fonsai o Mps, utili solo a far lievitare la bolletta energetica pagata all’Enel. Non sapeva niente il Parlamento, che adesso leva alti e vacui lai, danzando mestamente intorno al polveroso totem dell’«italianità» e invocando platealmente la difesa della «sicurezza nazionale».
Tutti bugiardi. Perché tutti sapevano tutto, da mesi se non addirittura da anni. Non c’è fine più annunciata di quella che sta per portare Telecom nelle braccia di Telefonica. Sui quotidiani e sui settimanali, negli ambienti politici e in quelli borsistici, il dramma dell’ex colosso tricolore è all’ordine del giorno da tempo. E l’opzione spagnola era già quasi scontata dal 2007, quando Telefonica fu imbarcata dentro la holding di controllo Telco, spacciata come «operazione di sistema» dagli improbabili architetti di Mediobanca, Generali e Banca Intesa.
Per scongiurarla, i soci «eccellenti» dell’ex Salotto Buono avrebbero dovuto avere in tasca i miliardi necessari ad una robusta iniezione di capitali freschi. I manager avrebbero dovuto avere in testa un piano di sviluppo del business telefonico e delle alleanze globali. I politici avrebbero dovuto avere in mano un progetto di politica industriale degna della quinta potenza del pianeta.
E invece, dopo la spoliazione della Stet successiva alla «madre di tutte le privatizzazioni», la truffa dei nocciolini duri perpetrata dalle nobili casate sabaude pronte a controllare le aziende con una fiche di pochi spiccioli, il saccheggio realizzato dalla squadra tronchettiana, non c’è stato quasi più nulla. Solo la prosecuzione della razzia con altri mezzi: dal 2007 ad oggi, nella cinica accidia della comunità finanziaria e politica, Telecom ha subito un ulteriore drenaggio di risorse per circa 24 miliardi. A chi millantano la loro meraviglia e la loro indignazione, oggi, i controllanti e i controllati?
A giugno Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, a chi gli chiedeva lumi sul destino di Telecom annunciava già che a settembre ci sarebbe stato lo «show down». Solo due settimane fa Bernabè, a chi andava a trovarlo nel quartier generale di Corso d’Italia, spiegava che «la situazione patrimoniale di Telecom, tra debiti e goodwill, è tremenda» e che «gli azionisti erano informati». E da mesi i queruli esponenti di partito discettano a vanvera sullo scorporo della rete, sognando un’altra Iri custodita nei forzieri della Cassa depositi e prestiti. Ripescando e riabilitando post mortem il dossier del povero Angelo Rovati, crocifisso senza pietà ai tempi del governo Prodi per aver prospettato un «disegno criminale», oggi considerato geniale.
Dunque su Telecom (come su Alitalia, su Parmalat, su Ligresti e presto chissà forse anche su Enel o su Finmeccanica) non si celebra la saga dei Poteri Forti, ma la ballata dei Poteri Morti. Questo è ciò che resta del famoso «capitalismo di relazione» (e in qualche caso «di corruzione»). Capace di regalare la telefonia italiana a un indebitatissimo Cesar Alierta per un piatto di lenticchie. Di consentire agli spagnoli di portarsi via l’intera posta senza fare l’Opa, senza far arrivare neanche un euro nelle casse svuotate di Telecom e nei portafogli delusi di una Borsa trattata come una bisca. E questo è ciò che resta dell’establishment economico e dell’élite finanziaria. Mosche del capitale, che succhiano i loro ultimi dividendi sulle spoglie delle aziende e di chi ci lavora.
Ma questo declino, per quanto terribile, non è un destino. Questa operazione può ancora essere fermata, se c’è ancora in giro un po’ di buon senso e buon gusto. E non perché si deve rispettare l’italianità: un mantra demagogico, auto-assolutorio e di per sé anti-moderno, da non cavalcare a priori perché i buoni affari non hanno passaporto. Almeno per questo, si può immaginare l’imbarazzo del premier, che dovrebbe gridare «non passi lo straniero» nelle stesse ore in cui è a New York per promuovere il Made in Italy e per convincere le multinazionali a investire in Italia. Questa operazione va fermata perché è rovinosa per il sistema industriale e dannosa per il mercato finanziario.
Telefonica prenderà il controllo di Telecom senza consolidare il suo debito. Lascerà che siano gli altri, nel frattempo, a fare il “lavoro sporco”. Cioè smembrando l’azienda e avviando uno spezzatino selvaggio, attraverso il sacrificio della attività più redditizie in Brasile e in Argentina, mercati dove il gruppo italiano dava fastidio a Telefonica perché competeva alla pari sul mobile. Alla fine delle tre tappe fissate dall’operazione, Alierta ingoierà Telco, finalmente alleggerita dai debiti. Il tutto avverrà a un prezzo di 1,09 euro ad azione, di cui beneficeranno solo i «compagnucci della parrocchietta» milanese, messa in piedi dalla Galassia del Nord sei anni fa. Il 78% degli altri azionisti, comuni mortali che hanno comprato in Borsa, non vedranno un centesimo.
Questo è il doppio scempio che va impedito. Può farlo il governo, accelerando il varo del decreto attuativo che estende anche alle telecomunicazioni la nuova «golden power», lo strumento che sostituisce la vecchia golden share e che conferisce al Tesoro il diritto di vincolare con una quota minoritaria, ma dotata di poteri speciali, la governance di aziende «strategiche». C’è tempo per farlo, prima che Telefonica perfezioni il delitto perfetto. E per mettere almeno al sicuro la rete, garantendone la crescita in una prospettiva coerente con l’investimento sulla banda larga e sull’Agenda digitale. Può farlo la Consob, se nel frattempo il Parlamento avrà la forza e il coraggio di correggere la legge sull’Opa riducendo, o congegnando in modo diverso, la soglia di controllo del 30% sopra la quale scatta l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica d’acquisto.
Ci vorrebbe un soprassalto di dignità. Un sussulto di responsabilità. In una formula trita, ma ancora efficace: ci vorrebbe un Sistema Paese. È difficile crederci. Ma non tutto è perduto, in questa Italia a saldo e alla mercé dei Poteri Morti. Tranne l’onore.

La Repubblica 26.09.13

“Quelle 51 donne salvate da una legge in pericolo”, di Michela Marzana

Doina di Tortona si è salvata in tempo. Così Marta che vive in Romagna e Tosca di Ventimiglia. L’ha scampata anche Carla, nel mirino di uno stalker nella sua San Martino Sannita. Sono 51 le donne salvate dal decreto legge sul femminicidio. E sono altrettanti i potenziali carnefici spediti in carcere, o ai domiciliari, che potrebbero essere liberi e pronti a finire quello che avevano iniziato contro le loro vittime. Infatti, il decreto varato dal Consiglio dei ministri l’8 agosto, che prevede per i reati di stalking l’arresto obbligatorio in flagranza, l’allontanamento d’urgenza e l’irrevocabilità della querela, potrebbe non diventare mai legge. Il testo è in discussione alla Camera nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia, ma zavorrato da 414 proposte di modifica, piovute da destra e da sinistra.
Tuttavia, il problema delle violenze contro le donne in Italia non si può sperare di risolverlo solo attraverso misure preventive e repressive. Il fenomeno è la conseguenza della profonda crisi identitaria che riguarda non solo gli uomini e le donne, ma più in generale le relazioni intersoggettive.
Si può veramente pensare di combattere la piaga delle violenze contro le donne senza prenderne in considerazione il carattere strutturale e limitandosi ad adottare una serie di misure repressive? C’è un’urgenza evidente di risposte immediate: è in gioco, nell’immediato, la vita di centinaia di persone. Ma il problema delle violenze contro le donne, in Italia, non è solo un’urgenza. Anzi. È soprattutto un problema strutturale che non si può sperare di risolvere introducendo l’irrevocabilità della querela nei confronti degli uomini violenti, l’arresto obbligatorio per maltrattamento e stalking di chi è colto in flagrante delitto, e con le molteplici aggravanti nei confronti dei coniugi e dei compagni previste nel decreto legge approvato l’8 agosto dal Consiglio dei ministri. C’è da rallegrarsi se davvero le forze dell’ordine cominciano in molti casi a intervenire in modo efficace per proteggere le vittime. Attenzione però a non sottovalutare il vero problema legato alle violenze di genere.
Ovvero le sue radici, le sue diramazioni, le sue conseguenze e la sua prevenzione. Continuare a normare solo gli interventi repressivi — che peraltro, in molti casi, sono già normati — significa infatti non capire che la violenza contemporanea contro le donne è la conseguenza immediata della profonda crisi identitaria che, al giorno d’oggi, riguarda non solo gli uomini e le donne, ma anche più in generale le relazioni intersoggettive.
Quando si capirà che, senza la promozione di una cultura della tolleranza e dell’accettazione reciproca, la violenza non sarà mai arginata? Quando si comincerà a proteggere davvero le vittime finanziando in maniera adeguata i centri anti-violenza che da anni chiedono risorse per le proprie fondamentali attività? Quando si affronterà il problema della presa in carico psicologica degli uomini che maltrattano le donne? Quando si deciderà di introdurre nelle scuole un’educazione mirata a disinnescare comportamenti violenti e alla gestione dei conflitti?
Problemi che il decreto legge non affronta. Tutte questioni che, finché non saranno trattate, non permetteranno di trovare soluzioni reali ed efficaci al carattere strutturale della violenza contro le donne.
In parte destabilizzati dalle recenti trasformazioni delle relazioni umane, molti uomini non riescono ad accettare l’autonomia femminile: insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, accusano le donne di mettere in discussione il proprio ruolo; narcisisticamente fratturati,
pensano che le donne debbano aiutarli a riparare le proprie ferite, trasformandosi in persecutori di fronte ad ogni manifestazione di indipendenza, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità.
Ecco perché il problema delle violenze — ancora prima dei passaggi all’atto che questo decreto cerca di combattere — è un problema culturale e formativo: in assenza di punti di riferimento e di fronte alla frantumazione dei rapporti umani, ci si illude che, con la violenza, ci si possa riappropriare di un’identità e di un ruolo che non esistono più da molto tempo. Mentre l’educazione e la cultura permetterebbero di riscrivere la grammatica delle relazioni umane, aiuterebbero i ragazzi e le ragazze a prendere coscienza della propria dignità e del proprio valore, insegnerebbero ai più piccoli il rispetto delle differenze e dell’alterità.
Il dramma della violenza contro le donne comincia nelle famiglie e nelle scuole e viene rafforzato con le pratiche di discriminazione. Fino a quando non si affronterà il problema dell’educazione per insegnare l’uguaglianza e la pari dignit à di tutti, del potenziamento dei centri anti-violenza per l’aiuto delle vittime, della diffusione di messaggi di odio e di intolleranza che violano la dignità delle persone, delle condizioni materiali di accesso al lavoro, e della presa in carico degli uomini maltrattanti per evitare che la violenza si trasmetta da una generazione all’altra, le misure legislative saranno sempre e solo dei palliativi. Certo necessari, ma mai sufficienti

La Repubblica 26.09.13

******

“Donne salvate”, di Fabio Tonacci

Ci sono 51 donne salvate, almeno per ora, dal decreto legge sul femminicidio. E ci sono 51 potenziali carnefici, in carcere o ai domiciliari, che rischiano di uscire per finire quello che avevano iniziato. Perché quel decreto varato dal Consiglio dei ministri l’8 agosto, che prevede per i reati di stalking l’arresto obbligatorio in flagranza (prima era facoltativo), l’allontanamento d’urgenza e l’irrevocabilità della querela, potrebbe non diventare mai legge.
Il testo è in discussione alla Camera nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia, zavorrato da 414 proposte di modifica, piovute da destra e da sinistra. «Punta troppo sui provvedimenti punitivi e poco sul sostegno alle vittime », dicono i critici. «E non poter revocare la querela scoraggerà le denunce». Arriverà in aula la settimana prossima, poi il passaggio al Senato per l’approvazione definitiva entro il 15 ottobre. Tempi strettissimi, forse troppo. Eperò quel decreto, sicuramente perfettibile, un risultato l’ha prodotto. Da quando è entrato in vigore, il 17 agosto scorso, sono stati arrestati in flagranza 51 uomini. Sorpresi e ammanettati mentre erano aggrappati al balcone della casa della ex, nascosti sotto il letto con un coltello da sub in mano (è successo ad agosto a Marina di Ravenna), davanti a una stazione dei carabinieri mentre cercavano di impedire alla loro vittima di sporgere denuncia.
DOINA, LA PRIMA
Doina non era nemmeno a casa quando il suo ex marito, 43 anni, disoccupato, albanese come lei ma di 7 anni più grande, si era di nuovo avvicinato troppo. Fino a un anno fa vivevano insieme, a Tortona. «Poi ci siamo lasciati — racconta — lui troppo possessivo. Ma non riusciva ad accettarlo. Prima ha cominciato a minacciarmi, poi le percosse, le vessazioni psicologiche, la macchina rigata e danneggiata con lo zucchero nel serbatoio. Alla fine l’ho querelato, anche perché volevo difendere i nostri due figli piccoli». Ecco, i figli. Erano nella casa di un parente di Doina, accuditi da due amici, la sera del 19 agosto quando di nuovo lui è apparso, infischiandosene del divieto di avvicinamento. Ai suoi occhi, i due erano estranei che non avevano il diritto di stare dove stavano. La rabbia sale, comincia a urlare, aspetta il rientro di Doina. «Ma per fortuna i miei amici hanno chiamato i carabinieri, che lo hanno trovato ed arrestato».
Ora è in carcere, ad Alessandria, in attesa del processo. Uno dei pochi casi in cui la detenzione in prigione non è durata solo pochi giorni, l’arco di una speranza. Ma che succederà se il decreto non venisse convertito in legge? «Beh — ragiona Maria Carla Bocchino, primo dirigente del Servizio Centrale Operativo della Polizia — è chiaro che ogni avvocato proverà a chiedere la scarcerazione. Ma non è detto che il gip la conceda».
MARTA E TOSCA, CORAGGIO E DISILLUSIONE
Marta amava un uomo che non esisteva. Non era un padre single, non aveva avuto una figlia con una modella straniera che lo aveva lasciato, nemmeno viveva a Bologna, come invece recitava la storiella che le aveva servito per due lunghi anni. Figuriamoci se le aveva detto di quel cellulare segreto che teneva sopra la credenza. «Ho scoperto i suoi tradimenti per caso, ritrovando il telefonino e decine di messaggi di donne sconosciute — dice Marta, 51 anni, un lavoro e una casa sulla riviera romagnola — l’ho lasciato, ma lui non l’accettava. Un anno fa sono partite le molestie, le telefonate ossessive, le minacce. Io non ci potevo credere, avevo dormito con lui per due anni e non aveva mai alzato un dito». E invece Marta una mattina si ritrova con la faccia sull’asfalto, perché il “suo” Marco, 45 anni, l’aveva spinta dalla macchina in corsa. Epilogo dell’ennesimo vano tentativo di convincerla a rimettersi con lui. «Sono andata dai vigili urbani e nemmeno mi hanno dato ascolto — racconta — mi dicevano di aspettare a fare la denuncia, di pensare alla ditta che aveva, che lo potevo rovinare. Cose così».
Fino all’ultimo sfregio, ai primi di settembre. Un topo sgozzato lasciato sullo zerbino di casa. Un messaggio che non aveva bisogno di didascalie. «Il coraggio di denunciarlo l’ho avuto solo dopo aver letto cosa prevedeva il nuovo decreto. Mi ha fatto sentire tutelata».
Qualcuna lo è davvero. Ma non tutte. «Non voglio raccontare proprio niente», urla al telefono Tosca, da Ventimiglia. La sua disgrazia non è ancora finita, ha solo trovato una tregua momentanea il 9 settembre, quando l’ex compagno, manovale di 60 anni, è stato trascinato via di peso dai carabinieri mentre ubriaco distruggeva a calci l’auto di lei. Arrestato in flagranza, dopo una sfilza di denunce che non avevano portato a niente. «Ma che tutelata? Quello tra un mese esce e io faccio la fine delle altre…», dice, prima che il suono metallico della linea che cade segnala che la conversazione è finita. È vero?
PUNTI DEBOLI E PUNTI DI FORZA
«Con il decreto svuota-carceri — spiega ancora Maria Carla Bocchino — la custodia in cella in effetti si traduce spesso nei domiciliari. E anche l’allontanamento d’urgenza del presunto stalker da casa sconta il fatto che nessuno poi riesce a controllare che sia rispettato». Dunque? «Il decreto rimane uno strumento validissimo. L’irrevocabilità della querela, ad esempio, impedisce che poi la vittima, sotto minaccia, ci ripensi. Si sono anche accelerati i tempi della giustizia. Perché ora l’atto persecutorio viene trattato dai magistrati con la priorità dei reati di mafia, terrorismo e omicidio».
Carla, di San Martino Sannita, 31 anni, queste cose non le sa. Nemmeno le interessa. Troppo impegnata ad arrabattarsi con la vita, tra un lavoro precario e un ex marito che le ha torturato la mente negli ultimi tre anni, dal giorno in cui si sono separati. «Nemmeno la mia famiglia mi credeva quando raccontavo loro di cosa era capace quell’uomo », ha detto ai poliziotti a cui alla fine, quest’estate, si è rivolta. «Mi ha picchiato pure durante una festa di paese e nessuno dei presenti fece qualcosa per fermarlo». Lui alcolizzato, disoccupato, violento. Carla ignora che è anche grazie a quel decreto legge che il 13 settembre la polizia lo ha arrestato. Con un coltello a molletta nascosto nei calzini, si era fiondato sotto casa. L’ha bloccata in strada e l’ha minacciata di morte, con lo stesso coltello con cui le aveva rigato la macchina. Poi si era calmato, grazie all’intervento della sorella di Carla. Senza l’arresto obbligatorio previsto dal decreto, forse i poliziotti non sarebbero andati fino a casa sua per arrestarlo. È salva, per ora. All’Onu il premier Enrico Letta dice che «il rispetto dei diritti umani è fondamentale, la nostra attenzione va ai più deboli, alle donne, ai bambini». Ma il persecutore di Carla in carcere c’è stato appena tre giorni. Ora è ai domiciliari. E nessuno vigilerà.

La Repubblica 26.09.13

“Classi-pollaio dove insegnare è pura follia”, di Mila Spicola

Sono Antonio, ho 15 anni, frequento la I superiore dell’istituto professionale XX, Catania. Sono stato bocciato una volta, in prima media. Già lavoro, aiuto un meccanico nel mio quartiere. Non mi piace studiare perché già in terza elementare non capivo molto e mi annoiavo. Sì è vero, i professori li faccio impazzire, così mi sospendono e me ne sto in officina. Mi sono iscritto al superiore per l’obbligo e per far contenta mia madre. In classe siamo in 38,almeno una 20ina li conosco, son tutti come me. Non ci chiamano per nome, e manco per cognome. Avanti ca finisciunu l’appello è finita la prima ora. E le altre volano: tra grida e urla passa a matinata. Chissa è a scola. Mi faccio solo quest’anno e ciao. Mia madre mi dice “dai, magari ci pigli gusto e ti prendi il diploma” “Mamma, siamo in 38 e in 20 uncicapemu na beata mazza di chiddu chi dicinu, anche se sti mischini si sforzano, seconnu tia ncapu a 38 u spiegano a mmia? Non vedono l’ora che ci leviamo dalle palle. A noi è meglio perderci che tenerci. Così gli alziamo la media nelle prove Invalsi».
«Sono Chiara, sono commercialista, insegno discipline giuridiche economiche in un istituto professionale, primo incarico in assoluto perché ho vinto il concorsone. Sono contentissima di averlo vinto. C’è che son finita in questa scuola di Catania, professionale, primo anno classe di 38 alunni. Allucinante, saltano sulle sedie, entro in classe e nemmeno se ne accorgono, ma siamo impazziti? Per fortuna ho preso il part time, così almeno non chiudo lo studio. C’è che anche solo un’ora in quella classe mi fa perdere il senno, ma che ragazzi sono? Come si fa ad insegnare così?».
«Sono Fulvio, ho 13 anni, sono un anno avanti e sono in IV ginnasio, liceo Mamiani di Roma, in classe siamo in 32. Mio padre è medico, mamma avvocato. Da grande voglio fare il magistrato. I compagni son tutti nuovi e mi sembrano fighi. I prof ancora non so. Al primo giorno quella di italiano ci ha lasciato un tema con delle domande di grammatica, storia e geografia. Dopo due giorni ce li ha riportati e il voto più alto era sei, il più basso zero. Mamma è andata a scuola e ha fatto l’inferno. Anche se ho preso sei: è il voto più basso che ho mai avuto. La prof l’ha tranquillizzata, non ha valore è un test d’ingresso per capire a che livello siamo e non deve preoccuparsi se siamo in tanti: è “fisiologico”, almeno in otto o dieci non passeranno l’anno e così l’anno dopo e quello dopo ancora. Ma lo sa fin da subito? “È fisiologico».
«Sono Anita, ero architetto una volta, oggi insegno in una scuola media a rischio, da 7 anni ormai, a Palermo. Dura è stata dura, i primi tre anni piangevo tutti i giorni quando tornavo a casa in motorino dallo Zen. Però ho vinto io e ci son rimasta. Secondo giorno di scuola. Quelli di terza son cresciutissimi ed è tutto un baci e abbracci poessorè. Certo Salvo è sempre un rompicoglioni epocale e inizia già a provocare. Ma lo so che è per questa Anna, una bocciata che viene dalla sezione F caruccia, come dargli torto se vuol farsi bello. E in questo ha sempre seguito. Non è che gli altri siano più sereni o interessati alla scuola. Anna non parla ma so che è tosta tosta. E con parecchi problemi a casa. Salvo bello non è e usa le armi che ha: far casino in classe. Lo guardo dritto negli occhi e lui si blocca. I miei alunni, quelli che faticosamente si guadagnano la promozione, si iscrivono tutti al superiore. Quelli come Salvo e Anna e come circa il 30% di questa classe, alle superiori durano una settimana, poi iniziano a fare assenze, sempre più lunghe, fino a Natale: a gennaio alcuni se li son già persi per strada. Il 30% di questa terza, la mia terza, ha già scritto in fronte “potenziale disperso”, sono quelli che le prove Invalsi le scarabocchiano tutte, alle superiori (e il nostro miracolo è farceli andare) andranno in scuole professionali, composte da classi di 30-36-40 alunni, giusto il tempo di mandarsi a quel Paese . Come può una collega seguirli uno ad uno, in classi di 30/38 ragazzi, tutti difficili?»
NON È CRONACA DEL 1960

Le storie di cui sopra sono tutte vere. Accade adesso, non nel 1960. Il Decreto Scuola ha stanziato 15 milioni di euro per combattere la dispersione scolastica, prevedo, al di là delle apprezzabilissime intenzioni, l’inefficacia sostanziale di un provvedimento saltuario a fronte di uno strutturale come impedire il formarsi di classi pollaio. È follia insegnare
in classi di 30-38 alunni. Specie in scuole e in zone ad alto rischio di dispersione scolastica. Accade però il contrario: le classi pollaio, cioè le classi con un numero di alunni illegale perché composte da più di 24 alunni, nelle prime classi delle scuole superiori italiane, specialmente nelle zone a rischio, sono la norma, non l’eccezione. Sono la risposta al refrain che «gli insegnanti in Italia sono troppi». In realtà sono pochi in rapporto a un numero crescente di alunni nelle scuole superiori, grazie a Dio. Un dirigente mi ha risposto «ma tanto son di 30 solo alle prime classi, poi arrivano a 20/24», è «fisiologico». È fisiologico? Non è fisiologico: è quello che si ottiene.
È più facile perdere/bocciare e non riuscire a recuperare un ragazzo fragile in una classe composta da 38 allievi, ma anche di 32, che in una classe composta da 24 allievi. Va da sé che i «capaci e i meritevoli» di oggi sono ancora i Fulvio che partono con vantaggi eccezionali già dalla prima elementare. A questo modello di scuola corrisponde pari pari un modello di Paese quale lo vediamo e di cui individuiamo tutti i limiti: il modello di Paese dei divari economici. Dei primi premiati per inerzia e degli ultimi lasciati a casa. Sarebbe il caso di riflettere bene: perché gli ultimi di questo Paese bloccato son grossomodo gli stessi ulti- mi delle classi, o i loro figli. I miei ragazzi incollocabili, per cui troviamo un banco temporaneo perchè tra due anni alcuni non ci saranno più. Qualcosa non mi torna in questo sistema incancrenito.
Torniamo al tema delle classi pollaio, sono tra l’altro classi, ripeto, illegali ai sensi della normativa per la Sicurezza e per la Tutela della Salute nei luoghi di lavoro. Non basterebbe già questo ad eli- minarle, se la causale formativa non basta? Nelle zone depresse del Paese abbiamo le mamme di Antonio, non quelle di Fulvio, quelle che si arrendono di fronte all’incapacità di sostenere i figli fragili negli studi. Le storie di sopra, tutte vere raffigurano alcuni dei motivi per cui la scuola italiana è lungi dall’essere l’ ascensore sociale, la scuola inclusiva che recupera gli ultimi e li porta in cima. La scuola che ci serve adesso per torna- re a essere un Paese competitivo e a benessere diffuso deve essere la scuola che punta agli ultimi.
Le classi pollaio agiscono contro gli ultimi e la scuola di oggi conferma, ahimé ancora adesso, il modello selettivo avallante di fatto i divari sociali messo in piedi ai tempi di Gentile. Possiamo chie- dere e ottenere almeno una cosa? Eliminare le classi oltre i 25 alunni.

l’Unità 24.09.13