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“Il paese dove vince chi strilla di più”, di Marco Cattaneo

Ieri pomeriggio avrei dovuto partecipare alla manifestazione dei ricercatori a Montecitorio, perché sia ripristinato il testo della legge sulla sperimentazione animale secondo le indicazioni delle normative europee. Purtroppo, per impegni di lavoro, sono mancato all’appuntamento.Non ero il solo, evidentemente. Nel senso che la civilissima presenza di centinaia di ricercatori è passata sotto silenzio quasi ovunque.

Ricevo, infatti, un messaggio da una giovane ricercatrice, che ben descrive la frustrazione di chi, non alzando la voce, difficilmente trova spazio sui giornali e nelle tv. E quando lo trova finisce per pensare che sarebbe stato meglio non trovarlo.

Ecco la lettera, inviata a me e a una trentina di colleghi:

“Gentili Direttori, Giornalisti,
mi scuso per disturbarvi ma ieri abbiamo avuto l’ennesimo esempio che se noi ricercatori non abbiamo voi dalla nostra parte non potremo mai avere un ruolo in questo paese.
Sono Micol Ravà una giovane ricercatrice che ieri 19 settembre è andata davanti a Palazzo Montecitorio, insieme a un mezzo migliaio di colleghi, per sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica.

In particolare per chiedere al governo di abbracciare, senza modifiche, la direttiva europea 2010/63/EU in materia di sperimentazione animale, nella sua formulazione originaria. Un testo ottenuto dal confronto tra scienziati e animalisti che rappresenta il giusto compromesso tra le necessità della ricerca e il benessere degli animali.

Nessuno, ad eccezione di La Stampa, si è preoccupato di informarsi e informare la popolazione su ciò che sta succedendo anzi.

Abbiamo apprezzato la presenza del tg1 fino a quando ieri notte tornati a Milano stremati abbiamo visto cosa è andato in onda, un servizio di 30 secondi che parlava di “vivisezione” e di manifestazione contro la chiusura degli allevamenti di cani, gatti, scimmie per la ricerca.

Ci son stati molti interventi. Nessuno di noi ha parlato di vivisezione.

Vi chiedo per favore di dare voce a una categoria che è obbligata a espatriare per fare il proprio lavoro e che si deve giustificare tutti i giorni per cercare di dare una speranza a chi ormai l’ha persa.
Sono a vostra disposizione per chiarimenti
Grazie

Micol Ravà”

Evidentemente, in questo paese, vince sempre chi strilla. Non importa che abbia torto o ragione. E non abbiamo anticorpi per mettere un freno a questa deriva.

http://cattaneo-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/

Femminicidio, Grasso: “Emergenza sociale”. Boldrini: “Anche parole media hanno peso” da repubblica.it

La violenza di genere “non è una collezione di fatti privati, ma una tragedia che parla a tutti, che parla di tutti”. L’allarme arriva dal presidente del Senato,Piero Grasso, che, in occasione del convegno nella Sala Zuccari di Palazzo Madama, sulla “Convenzione di Istanbul e media”, ha messo in guardia su quella che è diventata una vera e propria emergenza sociale. “Sono pienamente consapevole e preoccupato della portata di un fenomeno che va combattuto in tutte le sue forme: dalle offese, alle minacce, agli atti di violenza fisica e psicologica”, ha aggiunto la seconda carica dello Stato, che, pur riconoscendo “l’impegno e la costanza con cui i diversi media stanno affrontando da mesi il tema”, ha anche lanciato un appello ai mezzi di informazione perché pongano maggiore attenzione a “quei riflessi automatici che a volte rischiano di vanificare la profondità e l’analisi delle stesse testate”.

Solidarietà a Boldrini. Il presidente del Senato ha insistito sulla necessità di prevenire comportamenti violenti e di utilizzare “tutti i mezzi a nostra disposizione per garantire la sicurezza delle donne nelle strade, nei luoghi pubblici, all’interno delle pareti domestiche. Queste ultime – ha aggiunto – sono il luogo dove è certamente più difficile intervenire perché è necessaria la collaborazione della vittima, che in molti casi non denuncia per sfiducia nelle istituzioni, per paura, per mancanza di mezzi. Non dobbiamo dimenticare che vi sono anche casi, invece, in cui le donne, pur avendo denunciato, continuano a subire violenza fino a trovare la morte. E questo è intollerabile”. E poi ha parlato della collega di Montecitorio Laura Boldrini, manifestandole solidarità come aveva già fatto – nei giorni scorsi – Giorgio Napolitano: “Voglio innanzitutto manifestare solidarietà alla presidente Boldrini che sta affrontando un’ondata di accuse e offese senza precedenti”.

Il peso delle parole. La presidente della Camera, Laura Boldrini, non concorda con Grasso nel definire il femminicidio un’emergenza. “Ma è davvero emergenza la violenza contro le donne? I numeri testimoniano purtroppo che non si tratta di un’emergenza intesa nel senso di inaspettato, imprevedibile”, ha detto Boldrini ricordando che le statistiche dicono che “oltre il 70% delle donne uccise aveva già fatto denuncia nei confronti dell’uomo che poi le avrebbe assassinate”. Per la presidente della Camera, anche le parole usate dai media hanno un peso e il termine abusato “nega il carattere drammaticamente strutturale, ordinario, familiare della violenza”. Purtroppo, aggiunge la Presidente, “non uno scoppio occasionale di pazzia, ma una storia di normale, brutale normalità” .

Tarantola: “Via a stereotipi, anche a scapito dello share”. La responsabilità dei media nella costruzione dell’immagine della donna oggetto è stata ribadita dalla presidente della Rai, Anna Maria Tarantola: “I media sono stati a lungo responsabili di un’immagine delle donne che non ne ha aiutato il cambiamento”, a cominciare dal fatto che “si è affermato un canone estetico, imposto per anni dalla pubblicità, dalla moda e dalla stessa televisione, che celebra la bellezza quale valore assoluto, annullando tutto il resto”. Ma presto, ha fatto capire Tarantola, le cose cammineranno: “La tv pubblica sta ampliando la presenza delle donne all’interno della dirigenza” e sta “cambiando i palinsesti verso un’offerta qualificata della presenza delle donne. E lo faremo se sarà necessario anche a scapito delle share”. Intanto, proprio in Rai, è in lavorazione una serie tv che tratta il tema della vilenza sulle donne. Un lavoro che, dice il presidente, “ci sta molto a cuore”.

da repubblica.it

“Il Barone”, di Corrado Zunino

Il barone, oggi, non è austero né lontano. Non dà del lei. Non ha un linguaggio letterario. Il barone d’ateneo italiano oggi va al bar con lo studente, quello privilegiato s’intende. Ride con lui, usa le sue parole, il caffè poi lo paga lo studente. Il barone d’ateneo, salda maggioranza accademica visto che novemila docenti nelle nostre università sono oltre i sessant’anni, allarga la sua corte facendo finta di reclutare giovani intellettuali, dar loro una possibilità in un paese che disprezza cultura e conoscenza. E così, in cambio di un voto generoso all’esame di biochimica, un’illegittima spallata per entrare alla scuola di specializzazione di Cardiologia, il barone d’ateneo ottiene in prestito, in alcuni casi in ostaggio, la vita dei suoi discenti. Devono lavorare per lui a tutte le ore, fare le guardie di notte anche se non sono ancora medici e viaggiare a spese proprie per i congressi italiani a cui il prof non potrà partecipare. Produrre ricerche ponderose, ancora, che poi il docente, solo, firmerà. E si rivenderà per la media Anvur (arrivano così i finanziamenti pubblici). Se lo studente volenteroso si piegherà alcune stagioni e per il resto della vita porterà questa idea di gerarchia dentro, arriverà il giusto insegnamento. Un po’ di carriera, qualche occasione per farsi notare. Se, neoabilitato o specializzando, alzerà la testa, chiederà un rimborso o magari spiegazioni, se alla festa di compleanno del figlio del barone non sorriderà abbastanza, a casa. Avanti un altro.
L’esercito degli universitari disperati è davvero largo, il barone li sostituisce con uno schiocco di dita. Con l’ultimo concorso di Cardiologia alla Sapienza, l’accesso alla scuola di specializzazione, si è scoperto che per passare una prova pubblica che porta a cinque anni d’inizio professione e a uno stipendio da 1.800 euro il mese, serviva accompagnare il direttore di scuola e primario — professor Francesco Fedele, sei pagine di curriculum — in auto. All’università, all’aeroporto, ai convegni, in salumeria. Ora un amico di corso dello studente-autista rivela che lo specializzando premiato non era un furbo lecchino, piuttosto un neoliberto senza via d’uscita. Racconta il “compagno vicino”: «Il cosiddetto autista del professor Fedele è lo studente con la media più alta del mio corso, una persona davvero in gamba che, emigrata da Lamezia Terme a Roma, indisponibile a una nuova fuga, è stato costretto a lavorare come uno schiavo in reparto e, quindi, ad abbassarsi al ruolo di autista. Conosco a memoria i problemi dei concorsi di medicina, accadono da sempre e non so se esiste una cura: i figli dei professori continueranno a entrare saltando la fila. Chi rimane in questo paese non è uno stupido, è qualcuno che crede che si possa migliorare, che questa decadenza sociale possa finire. Finora,
purtroppo, è stato impossibile denunciare un professore e avere una possibilità di entrare con le proprie gambe in una scuola di specializzazione».
I figli, i famigli. Uno studente di Tor Vergata, sulla scia del concorso scandalo della Sapienza, rivela adesso come è stato preparato il prossimo dottorato in diritto pubblico nella seconda università romana (dieci posti disponibili). Lo scritto è andato via il 9 settembre e l’universitario consapevole è pronto a sottoscrivere i nomi dei vincitori in anticipo. Un’anomalia è già chiara: uno dei partecipanti al concorso è il figlio di un cattedratico di diritto penale. Junior, si è scoperto, corre per lo stesso settore di diritto penale e procedura penale di senior, e questo denuncia lo scarso coraggio del “figlio di” nel cercare strade nuove. Il problema serio, però, è che nella commissione giudicante dell’erede del cattedratico c’è la docente con cui il ragazzo è cultore della materia.
Il familismo universitario, ecco, in Italia tocca i migliori. Il professor Attilio Mastino è un rettore, a Sassari, di riconosciuta serietà e sta lottando con i denti e con le unghie per tenere in piedi un ateneo che in una terra di dispersione scolastica e poco lavoro è un avamposto. Da anni, ormai, i concorsi per ricercatori a Sassari sono contestati, una contestazione a bando. E la canea si è alzata anche per l’ultimo: un posto da assegnare a Demoetnoantropologia.
Ha vinto Rossella Castellaccio, che, si è poi saputo, era figlia del professore ordinario Angelo Castellaccio, fino al 30 giugno 2012 vicepreside di Lettere, facoltà affine al mini-dipartimento. Il ricorso non l’aveva certo firmato il figlio di un minatore del Sulcis, era stata Chantal Arena, a sua volta discendente di un ex docente di Medicina. Il maxi-dipartimento di Lettere ha rimandato tre volte gli orali di “demoetno”: tra due “figlie di” non sapeva chi scegliere. E il rettore Mastino è stato in difficoltà personale: tra i sei candidati ammessi agli orali c’era pure la figlia di sua sorella, Susanna Paulis, e del professor Giulio Paulis, ordinario di glottologia ed ex preside di Lettere del vicino ateneo di Cagliari. Il rettore Mastino cita l’articolo 97 della Costituzione: «I concorsi sono pubblici e tutti possono partecipare». Ma puntualizza: «I parenti del rettore hanno zero possibilità di prendere servizio, lo dice la legge 240 del 2010».
I “Pro concorso nazionale (di Medicina) hanno appena raccolto un dossier di storie e di esami con il dubbio. Tra queste, si legge il racconto di un esterno. «Il mio professore ha rivelato che è usanza dell’ateneo capofila passare le domande della prova scritta agli studenti della facoltà interna qualche giorno prima, rendendoci così impossibile competere lealmente con loro». I ragazzi della Link, sparsi in tutta Italia, spiegano che il tentativo della legge Gelmini di allontanare i parenti dalle facoltà è fallito: «Si iscrivono a un altro corso di laurea, ed è fatta». Raccontano poi, soprattutto quelli iscritti al Centro-Sud e in atenei metropolitani — Luca, Alberto, Diana, Lorenzo — come si vive oggi da studente prigioniero in facoltà. «A Medicina, ma anche a Lettere, Ingegneria e Giurisprudenza, ti devi mettere dietro un professore a partire dal terzo anno». Diventerà il tuo tutor. «Devi essere disponibile a lavorare per lui, incontrarlo a casa sua la domenica e fare ricerche, ricerche. Se sono buone, le firmerà il tutor, acquisendo nuovi punteggi per sé e per il suo dipartimento. Le firmerà anche se sono scritte in inglese, quasi nessun barone sa l’inglese. Spesso le ricerche sono solo una scusa per ribadire un’autorità… “Dai un’occhiata a questo paper”, ti dicono, e tu ci passi una settimana. Fuori dall’università lavori per loro e in dipartimento invece di studiare per te fai fotocopie, se ti va bene consigli libri alle matricole».
Ci sono docenti di Architettura che hanno fatto mappare il centro storico di Roma per tre mesi di fila agli studenti assegnati. Il risultato, poi, è stato presentato alla stampa solo dal professore ordinario. Ad Architettura della Sapienza, d’altro canto, un docente si vendeva a duemila euro a esame le risposte per gli scritti dei “fondamentali”: «Mi raccomando, solo contanti». L’universitario italiano sempre più spesso si prepara sui libri di testo del suo tutor: l’ultimo bestseller obbligato per gli ingegneri civili è “Tecnica ed economia dei trasporti” del professor Stefano Ricci, associato alla Sapienza di Roma, centoventi pubblicazioni all’attivo.
In questo clima di contiguità senza uguaglianza accade che esaminandi e preparatori entrino in confidenza: «Inizi a partecipare ai convegni dei professori, presto alle feste di famiglia. Poi, puntualmente, porti la loro biancheria in lavanderia perché i prof non hanno tempo, accompagni la madre a farsi operare di cataratta perché non hanno tempo. Una nostra compagna si è trovata a spolverare lo studio del professore, a casa, perché lui non aveva tempo». Per ottenere l’ingresso a una specializzazione ti scopri a dire sempre sì, «a volte anche alle proposte più sconce».
L’università, dicono loro, i nuovi servitori del sapere, ha baroni
di destra e di sinistra. Credono tutti, senza distinzione, nella fidelizzazione del candidato, a prescindere dall’attitudine. Si è tornati agli anni Cinquanta. Arianna Fioravanti nel 2011 venne cacciata dal dipartimento — e dal dottorato — di Italianistica alla Sapienza. La tutor Biancamaria Frabotta, poetessa del catalogo Donzelli, si offese perché non aveva appuntato al petto l’icona femminista di “Se non ora quando” nei giorni delle proteste anti-Berlusconi. L’assegno di ricerca sarebbe andato alla figlia dell’editore Donzelli, ma il Tar del Lazio, in questi giorni, ha reinsediato al dipartimento la studentessa che aveva alzato la testa. Una delle poche.

La Repubblica 24.09.13

“Un decreto per congelare l’Iva”, di Roberto Giovannini

Si avvicina un decreto legge per risolvere il pasticcio dell’Iva. Potrebbe essere varato già venerdì in una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri, ed avere molto probabilmente come coperture finanziarie degli interventi per complessivi 3 miliardi di euro dei brutali «tagli lineari» alla spesa alla Giulio Tremonti.

Premono i partiti della «strana maggioranza», premono sindacati e imprenditori. E il governo ha davvero pochi margini di manovra per cercare di evitare che sull’Iva o sullo sforamento del deficit crolli tutto il castello dell’Esecutivo guidato da Enrico Letta. Ieri, al coro di dichiarazioni e di richieste dei politici si sono uniti i leader delle parti sociali. E si fa strada la possibilità che in una riunione ad hoc del Consiglio dei ministri il governo decida di ricorrere allo strumento del decreto legge per risolvere alla bell’e meglio il garbuglio che si è creato in questi giorni.

Il decreto legge di cui parlano i bene informati dovrebbe contenere sostanzialmente una manovra straordinaria per 3 miliardi di euro. La metà di questi soldi, ovvero 1,6 miliardi, servirà per tappare il buco nei conti pubblici già individuato nei giorni scorsi, e permettere di centrare l’obiettivo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Circa 1 miliardo verrà usato per congelare fino alla fine dell’anno l’aumento dell’aliquota Iva dal 21 al 22 per cento. Con altri 4-500 milioni, invece, si potrà adempiere agli impegni presi dall’Italia in materia di missioni militari internazionali. Per trovare queste risorse – anche se i tecnici del ministero del Tesoro sono ancora al lavoro – si punta su un mix di tagli lineari su diverse voci della spesa pubblica (una pratica considerata «rozza», ma certo l’unica veloce ed efficace). Altra ipotesi, una operazione di maquillage dei conti pubblici: si «venderebbero» in cambio di un miliardo alla Cassa Depositi e Prestiti (che è formalmente fuori dal circuito della pubblica amministrazione, pur essendo una longa manus dello Stato) un pacchetto di immobili di proprietà pubblica. Intanto però le parti sociali fanno la voce grossa. Bisogna redistribuire il reddito e ridurre le tasse sul lavoro e sulle pensioni, dice il leader Cgil Susanna Camusso: se la legge di Stabilità non darà risposte in questo senso, «non si potrà che procedere con la mobilitazione unitaria».

Sono le richieste concordate a Genova da sindacati e Confindustria: alleggerire il carico fiscale su lavoro e imprese, riducendo il prelievo (con detrazioni) sui redditi di lavoratori e pensionati da un lato ed eliminando la componente lavoro dalla base imponibile Irap dall’altro. Da tempo le confederazioni hanno chiesto un tavolo di confronto che per il momento non è mai stato avviato. Per Camusso, nessun meccanismo che ragioni di Iva e Imu raggiunge l’obiettivo» di ridistribuire il reddito e ridurre la tassazione su lavoratori dipendenti e pensionati, considerato invece «il punto dirimente». Raffaele Bonanni, Cisl, ribadisce che la sua confederazione è pronta al dialogo con Palazzo Chigi, ma ammonisce: «Il sindacato si mobiliterà per favorire la stabilità politica e per far ripartire l’economia attraverso un taglio drastico delle tasse per lavoratori, pensionati e imprese che investono». «Non resteremo a guardare», avverte Luigi Angeletti, Uil. E per il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, il taglio del cuneo fiscale insieme al pagamento dei debiti della pubblica amministrazione è «il banco di prova delle buone intenzioni» di questo governo per favorire una ripresa dell’economia. Mentre lo stop dell’aumento dell’Iva da ottobre «non è la cosa prioritaria».

La Stampa 24.09.13

Bartali “Giusto tra le nazioni” l’ultima impresa del campione eroe, di Leonardo Coen

Ginettaccio aveva la lingua lunga, quando voleva, ed era uno che non le mandava a dire, anche col pubblico se la pigliava, se pensava d’aver ragione. Ma su quei dieci mesi passati sul filo del rasoio, ad evitare i posti di blocco dei nazifascisti, tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, è sempre stato una sfinge. Il campione del riserbo. Lo disse pure Indro Montanelli, toscanaccio come Bartali: «Il segreto della popolarità di Gino sta tutto nella sua reticenza».
Ma aveva le sue buone ragioni, Bartali, da ieri “giusto tra le nazioni” come annunciato dal memoriale dello Yad Vashem. C’era un aspetto segreto della sua vita. Preferiva tenerlo per sé e per il suo confessore. Che poi, altri non era che l’arcivescovo di Firenze, Elia Angelo Dalla Chiesa, gran tifoso di ciclismo. L’aveva battezzato, e aveva celebrato il matrimonio con Adriana. Anzi, non c’era poi bisogno di confessare cosa aveva fatto in quei dieci misteriosi mesi: il cardinale sapeva già tutto. Perché era stato lui a coinvolgere Bartali: un giorno gli chiese di portare, nascosti sotto il sellino, pochi fogli arrotolati con molta cura: documenti e fotografie. È una missione rischiosa: ma ne va della vita di tantissimi innocenti. Colpevoli solo di essere ebrei. O antifascisti. Il cardinale detestava il regime, e non l’aveva mai nascosto. Era un uomo coraggioso ed intraprendente. Come Bartali. Che non disse mai nulla alla moglie. E nemmeno agli amici più cari. Ci sto, rispose al cardinale amico.
D’altra parte, la guerra prima o poi sarebbe finita. E le corse sarebbero ricominciate. Poteva uno come lui, che aveva già vinto due Giri e un Tour, smettere di pedalare? No. Ecco, gli disse il cardinale, tu continua ad allenarti. Dillo a tutti. Sei famoso, sei il campione più amato, nessuno sospetterà che dentro il telaio della bici stai portando documenti falsi. E fu così che Bartali divenne la primula rossa a pedali della rete di soccorso Delasem. Ogni colpo di pedale significava la salvezza di tanta gente disperata. Salvò Levi, salvò Coen, salvò Goldman. Salvò centinaia di ebrei, dicono addirittura 800. Lui non li conobbe mai, e questo salvò Bartali. Quando incappava nei posti di blocco, lui non scappava, li affrontava. Finiva quasi sempre che gli chiedevano l’autografo. Una volta, i nazisti stavano per sparargli, ma un fascista gridò che era Bartali, il campione. Un paio d’ore dopo era ad Assisi, con le sue carte false, pedale di una ruota assai più grande, quella della libertà. E della vita.
Un giorno, un regista polacco di origini ebree che voleva girare un film sulla rete di soccorso clandestina, gli chiese di raccontargli come era riuscito ad aggirare sospetti e delatori. Lui tagliò corto:
“Certe cose si fanno, non si dicono ». Gino fece anche di più. Ospitò nella cantina di un suo appartamento a Firenze una famiglia di profughi ebrei. Dopo la morte di Gino, nel 2000, qualcosa è cominciato a trapelare. Qualche anno fa, Sara Funaro e Adam Smulevich del mensile
Pagine Ebraiche, voce dell’Unione delle Comunità Ebraiche, lanciarono un appello per rintracciare i testimoni dell’attività clandestina di Bartali. Nel 2010 Smulevich rintracciò Giorgio Goldenberg: «Se sono sopravvissuto, lo debbo a Bartali». Nel 2011 la commissione dello Yad Vashem di Gerusalemme, il museo sacrario dell’Olocausto, guidata dalla Suprema Corte israeliana, avviò la procedura di riconoscimento del titolo di “Giusto tra le Nazioni”, di persona che ha messo a repentaglio la propria vita per salvare anche un solo ebreo dalla Shoah. Dopo accurate indagini, la commissione il 7 luglio ha deciso di conferire il titolo di Giusto al campione. L’annuncio era previsto per la vigilia del Mondiale su strada di domenica 29 settembre, a Firenze. Il sito di Yad Vashem ha diffuso la notizia ieri. Con Bartali sono 563 i Giusti italiani (nel mondo, 24.811). Un albero verrà piantato
in sua memoria e il nome di Gino resterà per sempre nel Giardino dei Giusti che fa da corona allo Yad Vashem. Sul portoncino d’ingresso di casa Bartali, a Ponte a Ema, c ’è ancora una targhetta. L’ha donata la comunità ebraica. C’è scritto solo Shalom.

La Repubblica 24.09.13

Intervento del Presidente Napolitano alla cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico 2013-2014

L’aver accettato, nell’interesse del paese, la rielezione a Presidente della Repubblica mi permette – e mi fa molto piacere – di essere ancora qui con voi oggi e di parlare al mondo della scuola italiana. L’inizio dell’anno scolastico è, infatti, il momento e l’occasione migliore per rivolgere un augurio di buon lavoro agli insegnanti, al personale tecnico, a tutti coloro che sono impegnati nell’istruzione e per l’istruzione nella pubblica amministrazione e nella società civile. Do il benvenuto a tutte le autorità presenti. E rivolgo un saluto affettuoso a voi studenti di ogni età, ai vostri genitori e, lasciatemi aggiungere, ai vostri nonni. Non ho mai trascurato in questi anni di considerare l’istruzione a tutti i livelli uno dei pilastri e degli assi portanti della nostra società.

E in questo momento dobbiamo rinnovare e rafforzare le potenzialità di sviluppo della società italiana. Non siamo ancora usciti dalla crisi finanziaria, economica, sociale che ha colpito così duramente negli ultimi anni il nostro paese, e gran parte del mondo, dagli Stati Uniti d’America all’Europa. Sono ancora tante le famiglie che soffrono di difficoltà e di privazioni, che non ce la fanno, o ce la fanno a fatica, ad andare avanti ogni mese, che mancano di sostegni essenziali, innanzitutto il lavoro per i figli se non anche per genitori : come in Sardegna, dove è risuonata ieri la parola solidale e ispirata del Pontefice. Molti sacrifici si sono imposti ovunque nel nostro paese. L’economia e l’occupazione tardano a riprendersi : ma i primi segni di ripresa si vedono, e si riaffaccia la speranza di un nuovo, più solido sviluppo – su basi più giuste – dell’economia e della società.

Ebbene, dobbiamo fare tutti la nostra parte per far crescere i semi che appaiono e possono maturare di un miglioramento e cambiamento positivo della nostra situazione. La politica non sprechi questo momento più favorevole e faccia, attraverso il governo e il Parlamento, la sua parte, procedendo, senza incertezze e tantomeno rotture, nel compiere le azioni necessarie. Si mobilitino tutte le forze valide del paese. Anche quelle della scuola. E vengo al punto.

Pure la scuola negli ultimi anni ha sofferto delle ristrettezze provocate dalla crisi generale e ha sofferto – diciamo la verità – di incomprensioni e miopie, di rifiuti e tagli alla cieca – più che di una necessaria lotta contro innegabili sprechi – da parte dei responsabili della cosa pubblica. Ebbene, si sta ora comprendendo che bisogna cambiare strada : è questo il segno della giornata di oggi qui al Quirinale, è questo il segno nel quale inizia il nuovo anno scolastico. Ce lo dicono senza dubbio i provvedimenti adottati dal governo, specialmente il decreto approvato dieci giorni fa dal Consiglio dei ministri in materia di istruzione, università e ricerca: e vi ha fatto puntuale riferimento il ministro Carrozza che ne è stata promotrice con una passione e determinazione di cui desidero darle atto.

E in effetti – questo bisogna ben capire – rafforzare l’istruzione a tutti i livelli, sviluppare la ricerca scientifica, rendere più elevata e moderna la formazione dei giovani attraverso tutti i canali, ciò è decisivo per superare la crisi, per combattere la disoccupazione, per competere nel mondo d’oggi, per costruirci il futuro che l’Italia può riuscire a darsi.

Le conoscenze, le capacità possedute dai cittadini di un paese favoriscono uno sviluppo economico costante. Questo insieme di conoscenze si definisce capitale umano proprio per sottolineare il fatto che si tratta di una vera e propria ricchezza, di un patrimonio su cui un paese può contare. Se vogliamo capire quanto vale questo patrimonio dobbiamo guardare sia alla quantità dei diplomati e dei laureati, sia alla qualità, cioè a quanto si è imparato davvero a tutti i livelli dell’istruzione. L’Italia purtroppo resta ancora indietro rispetto ad altri paesi avanzati – agli ultimi posti nell’Unione Europea – per il numero di quanti procedono fino in fondo negli studi : sono addirittura calate negli ultimi anni le iscrizioni all’università, in concomitanza con l’aggravarsi della crisi economica. E’ a rischio il progresso realizzatosi nel lungo periodo precedente. L’Italia resta indietro anche per quanto riguarda le competenze che si acquisiscono con l’istruzione, come vengono misurate internazionalmente. Il ritardo è particolarmente grave al Sud, dove il divario rispetto al resto del paese aumenta man mano che si passa ai gradi più alti dell’istruzione, ma è presente anche nelle periferie delle grandi città su tutto il territorio nazionale. L’aspetto più positivo è dato dalla sensibilità e dall’impegno delle ragazze e delle giovani, la cui percentuale di partecipazione ai livelli più alti dell’istruzione supera nettamente quella maschile.

Il potenziamento del sistema scolastico là dove si presenta più debole è uno degli elementi del rinnovato impegno che l’attuale Governo sta dedicando all’istruzione. Potenziamento, a cominciare dalle strutture materiali, dagli edifici scolastici divenuti antiquati e insicuri.

Imparare è importante per l’intero sistema paese. Ma cosa serve perché a scuola si impari al meglio? I risultati di varie ricerche ci dicono che più di altri fattori conta l’apporto degli insegnanti. E quindi ci si deve impegnare a investire – in risorse e iniziative – come il Governo ha iniziato a fare, perché la già notevole professionalità dei nostri docenti si rafforzi.
È giusto premiare il merito, incentivare chi lavora nella scuola a fare sempre meglio. Ma occorre anche che gli insegnanti più ricchi di talento siano generosi nel condividerlo.

Infatti, si ottengono buoni insegnanti non solo con un’accurata formazione e con opportuni aggiornamenti, ma anche e molto promuovendo la trasmissione e lo scambio nella capacità di insegnare. Non bisogna mai smettere di imparare gli uni dagli altri, anche dai giovani, e scambiare quel che si è imparato. Sappiamo quante buone pratiche vanno spesso disperse.

Quello che vale per gli insegnanti vale anche per gli studenti. La pratica dell’aiuto negli studi dato dai più bravi a chi resta indietro o dagli studenti più adulti ai più piccoli è un altro bell’esempio di redistribuzione dei talenti. Invito perciò gli studenti migliori a essere generosi e attivi nel condividere quanto hanno imparato.
A voi giovani, a voi ragazze e ragazzi, dico nel modo più semplice e convinto : la sola risposta certa che si può dare alle vostre preoccupazioni per il futuro – “avremo lavoro e quale, qualificato e soddisfacente oppure no, potremo avere un posto riconosciuto nella società?” – la risposta certa a queste vostre domande è una sola : formatevi e preparatevi nel miglior modo possibile. Ve ne deve essere data, certo, la possibilità, dal sistema d’istruzione, dalle strutture scolastiche, dalle politiche pubbliche. Ma almeno in parte, in buona parte, queste possibilità oggi esistono in Italia.

Non così in tutto il mondo, non dimentichiamolo. Ci sono paesi nei quali lo stesso poter andare a scuola è una fortunata condizione della cui importanza noi qui non siamo più consapevoli. All’inizio di un anno scolastico capita di affrontare la scuola con riluttanza, perfino come un pesante dovere, ma la scuola, il poter studiare è soprattutto un grande privilegio. È bene non scordarsi che perfino in Italia ci sono minorenni indotti a lavorare prematuramente. Altrove questo fenomeno è ben più esteso e drammatico : addirittura bambini che invece di andare a scuola sono reclutati come soldati, mentre in altri casi tanti bambini si trovano in territori colpiti da disastri naturali o da sanguinosi conflitti.

Si pensi ora alla Siria : tra quanti hanno dovuto abbandonarla, tra i profughi affluiti in più paesi, i minori sono circa un milione, 740 mila hanno meno di 11 anni. Ai piccoli raccolti nei campi profughi mancano i parenti lontani, ma anche e molto, da quanto dicono a chi li intervista, manca loro la scuola.

E quante bambine in particolare – in varie parti del mondo – non possono andare a scuola? Se lo fanno, sono perseguitate, aggredite per il solo fatto di non essere nate maschi e di voler studiare. Alcune di loro si battono coraggiosamente per questo diritto. È il caso di Malala Yousafzai la giovane pakistana vittima di un attentato talebano che così si è espressa in occasione del suo recente discorso all’ONU : “Il terrorismo, la guerra e i conflitti impediscono ai bambini di andare a scuola. Dobbiamo condurre una gloriosa lotta contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo, dobbiamo imbracciare i libri e le penne, sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo.”
Torno a quel che dobbiamo fare in Italia. Voglio dedicare una parola all’attività di ricerca, che è condizione perché il talento possa dare frutti che gioveranno a tanti. C’è qui con noi il Professor Naldini con il Professor Aiuti e altri suoi collaboratori, e pochi giorni fa ho incontrato una più ampia delegazione di Telethon. I risultati della ricerca, in particolare di quella biomedica ma non solo di quella, costituiscono preziosi benefici rivolti al mondo, specialmente ai bambini e non solo italiani.
Investire nella ricerca, investire nel nuovo, è l’esempio che ci viene dal grande e illuminato imprenditore italiano che qui ricordiamo insieme con la RAI : Adriano Olivetti. Promuovere la ricerca e fare ricerca, e in generale studiare e lavorare sul serio è anche una forma di generosità. Lo è ugualmente impegnarsi con disciplina nello sport i cui risultati contribuiscono a ravvivare l’orgoglio nazionale. Ringrazio per questo i nostri atleti qui presenti.
La scuola, in quanto contribuisce a far crescere una cultura diffusa, fa bene alla democrazia : grazie all’istruzione e alla cultura si diviene persone più tolleranti, più aperte, più sensibili a quei valori di solidarietà cui ci richiama con tanta forza di convinzione e semplicità Papa Francesco.

Anche questa cerimonia ci ha ricordato che la scuola concorre a renderci cittadini migliori. Abbiamo potuto costatare ancora una volta quanto la scuola italiana faccia al di là dell’insegnare le materie obbligatorie : sensibilizza ai temi della legalità, ai valori costituzionali, a valori come quelli del rispetto dell’ambiente e del territorio.

La scuola invita alla correttezza, alla non violenza, al dialogo, all’apertura nei confronti di chi vive in condizioni lontane dalla nostra, nei confronti di chi è diverso. Per questo motivo abbiamo scelto come titolo di questa cerimonia La scuola nel mondo. Il mondo nella scuola, che è lo slogan stampato sulle vostre magliette. È testimonianza dell’entu-siastico impegno dei nostri insegnanti la grandissima partecipazione al concorso del Ministero che porta lo stesso titolo. La scuola insegna a vivere in società, a vivere in democrazia, a crescere e ad aprirsi al mondo.

Un’occasione importante per questa apertura al mondo è data dalla presenza di studenti di origine immigrata nelle nostre scuole, perché può sollecitare curiosità per altre vicende storiche e altre realtà, maggiore comprensione per culture e costumi diversi. La scuola deve lasciare che il mondo entri nelle sue aule.

Voi studenti imparate fin da giovani a essere generosi e aperti, e innanzitutto consapevoli di quel che fa dell’Italia un paese straordinario e di quel che ciascuno di noi deve dare oggi a un’Italia in difficoltà. A tutti : buona scuola, buon anno nuovo negli studi e nel vostro cammino verso il futuro.

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“Le università non sono aziende”, di Nadia Urbinati

Andando alla ricerca di un’aula di seminario agibile e sicura, il collega francese mi fece fare il giro dell’isolato spiegandomi che la Sorbona, gloriosa madre degli studi, si trova in uno stato pietoso poiché il governo ha da anni adottato una politica di “razionalizzazione” ovvero di tagli funzionali delle risorse agli atenei. Il risultato è che un’ala del palazzo storico della Sorbona è inagibile. La destinazione funzionale dei finanziamenti segue questa direzione: dall’Università alle “Grandes Ecoles”, le quali si consolidano nel patrimonio e nelle dotazioni alla ricerca con l’obiettivo di riconfermarsi il fiore all’occhiello della Francia, quell’immagine di eccellenza che il Paese porta nel mondo come carta d’identità.
Tutto si fa per le istituzioni di eccellenza, mentre le università, quel reticolo di ricerca e di educazione che ha il compito di selezionare e formare, tra l’altro, anche i cervelli che dovrebbero poi concorrere all’accesso nelle grandi scuole. Questa storia non è per nulla eccezionale. È uno spaccato di quel che sta succedendo un poco dovunque in Europa (con le dovute proporzioni dettate dai budget nazionali che non sono come sappiamo gli stessi in tutti i Paesi). Gli effetti sono deprimenti anche perché nel nostro continente vige generalmente un sistema universitario statale che però viene gradualmente gestito secondo criteri privati. Le università sono trattate come aziende che producono scarpe o abbigliamento e devono poter immettere sul mercato prodotti competitivi a prezzi concorrenziali. I prodotti che circolano sui banchi dei supermercati portano etichette con descrizioni standardizzate di quel che contengono, in modo che da Pechino a Varsavia gli acquirenti possano comprendere quel che scelgono e quindi scegliere senza sforzo. E se il mercato stabilisce che un genere o una marca non incontra più i favori del pubblico, l’azienda chiude o si ricicla per produrre altro. Il criterio della competizione di mercato è diventato un metodo universale di giudizio e di semplificazione delle decisioni, esteso anche al campo della ricerca e dell’educazione. Se si tratta di un sistema statale di formazione, il Paese come un’azienda cerca di piazzare i suoi prodotti sul mercato e lo fa mettendo in mostra i suoi gioielli, quelle eccellenze che diventano quindi il bene principale a cui dedicarsi, e per il quale si devono spendere risorse, tralasciando il grosso del sistema, quella moltitudine di atenei che pare diventino una ragione di spreco. Le eccellenze sono investimento mentre le università che coprono il
territorio nazionale sono una palla al piede.
Scriveva opportunamente Marino Regini sul
Corriere della Sera
di qualche settimana fa che non esiste un campionato internazionale di università, non solo perché i criteri di valutazione sono così diversi e complessi da rendere impossibile trovarne uno che sia semplice abbastanza da valere per tutte le discipline e in tutto il mondo, ma prima ancora perché il compito degli atenei non è quello di vincere gare ma di formare “capitale umano” e trasmettere un patrimonio di conoscenze che si consolida sul territorio e per mezzo della comunicazione internazionale.
Ma non sembra che questa sia la linea vincente, se non altro a partire dalla riforma Gelmini che ha recepito l’idea di trasformare la direzione degli atenei in consigli di amministrazione composti solo in parte da personale docente e operanti secondo criteri di valutazione e decisione cosiddetti “all’americana” (ma che non esistono nelle università americane, dove la reputazione degli atenei si forma secondo criteri non burocratici e centralizzati, primo fra tutti il piazzamento dei diplomati sul mercato del lavoro). Comunque sia, la mentalità del
prodotto d’eccellenza che deve risplendere su tutti per dare lustro al Paese (come la Ferrari o le firme dell’alta moda) è diventata moneta corrente, conquistando le nuove leve di politici che a questa opinione si adattano senza ombra di dubbio.
Molto significativa la riflessione proposta pochi giorni fa dall’aspirante primo ministro Matteo Renzi in un’intervista a “8 e mezzo”. Raccogliendo in poche battute ad effetto il senso dell’opinione generale corrente, ha sostenuto che gli atenei eccellenti italiani dovrebbero essere cinque al massimo, il resto non merita. «Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine, dove c’è quello, il professore, poi ha la sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va l’amico a insegnare, cinque grandi centri universitari su cui investiamo… le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali».
Certo, ci sono i casi delle sedi distaccate generate per creare posti di lavoro (i governi della prima Repubblica hanno abusato delle risorse pubbliche per create posti di lavoro assistiti, alle poste come all’università). Ma le “université” che come un reticolo coprono il territorio nazionale (e formano bravi studenti apprezzati in tutti i Paesi dove vanno, numerosi, a cercare lavoro) non sono uno spezzatino che fa velo all’eccellenza; sono al contrario un laboratorio di energie da dove, inoltre, prendono linfa i centri d’eccellenza. Ma il problema è un altro ancora: i centri d’eccellenza sono finanziati con denaro pubblico e dovrebbero quindi essere finalizzati a raccogliere il meglio anche di quel che il sistema pubblico forma. Gli “hub della ricerca” non si contrappongono alle università dunque, ma sono o dovrebbero essere un loro traguardo naturale. La competizione dovrebbe servire a far emergere verso l’alto il più gran numero non a deprimerlo per procacciare la vittoria di pochi eletti in un campionato che, in effetti, non esiste. È auspicabile che avvenga quanto richiesto dalle organizzazioni universitarie e promesso dal ministro Carrozza, ovvero che non si ascoltino soltanto quelle voci che propongono di smantellare l’Università statale e adottano una definizione dura (ma povera) di alta formazione come mercato delle poche eccellenze in un deserto di risorse e ricerca.

La Repubblica 24.09.13