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“La doppiezza di Angela Merkel”, di Barbara Spinelli

Non è semplice definire la fisionomia di Angela Merkel divenuta cancelliera per la terza volta. In patria ha trionfato grazie alla sua sembianza tranquilla, rassicurante, digiuna d’ogni ideologia: i tedeschi la chiamano Mutti, Mamma.
Senza remore assorbe idee socialdemocratiche, come Blair assorbì Margaret Thatcher. In Europa la fisionomia è tutt’altra: perentoria, rigida, matrigna più che materna. È come se avesse accanto a sé un sosia, un signor Hyde che di notte s’aggira nelle città europee e non strangola certo fanciulle ma piega le economie dei paesi troppo indebitati, che la sua morale castigatrice non tollera. Li piega fino a spezzarli: è successo in Grecia, peccatrice per eccellenza.
È una doppiezza con cui continueremo a fare i conti, anche perché i tedeschi desiderano proprio questo: l’isola immunizzata in un felice recinto, e fuori un disordine caotico che solo l’inflessibile mano di Berlino può disciplinare, per salvare l’euro o distruggerlo purché la Germania non finanzi eccessive solidarietà.
Ulrich Beck ha dato un nome a questa strategia che esalta l’insularità nazionale, che è del tutto priva di visione europea, e ha tramutato l’Unione in disunione: l’ha chiamata modello Merkiavelli.
Il Principe deve scegliere: o farsi amare o farsi temere. La vincitrice delle elezioni si sdoppia: è amata in casa, e fuori incute paura. Se in questi anni ha eretto l’esitazione a norma, se un giorno apre all’unione federale e il giorno dopo s’avventa contro il rafforzamento del bilancio europeo, la mutualizzazione dei debiti, l’unione bancaria, è per meglio acquietare i propri elettori. «L’esitazione si fa strumento machiavellico di coercizione», anche se ogni volta lo sfascio dell’Europa è evitato in extremis, e ad alto prezzo.
Beck è convinto che alla lunga la strategia non reggerà. Verrà il momento di decisioni più ardite, e la Merkel oserà l’integrazione europea che non ha davvero tentato. Non più allarmata dal voto, aspirerà a una grandezza meno provinciale: vorrà entrare nei libri di storia come vi sono entrati Brandt, Schmidt, Kohl. Non sarà disturbata oltremisura dal nuovo partito anti-europeo ( Alternativa per la Germania), che farà sentire il suo peso ma non è ancora in Parlamento. Desidererà esser ricordata per la sua qualità di guida che accomuna gli europei, invece di spaventarli, soggiogarli, separarli.
Questo carisma non l’ha mai posseduto. Non c’è una sua sola frase sull’Europa che sia memorabile, se escludiamo l’interiezione (
Un passo dopo l’altro – Schritt für Schritt) che costella i discorsi. Lo stesso machiavellismo dovrebbe indurla a cambiar strada, a realizzare l’Europa politica che ogni tanto invoca. La Germania è diventata troppo potente – conclude Beck – per permettersi il lusso dell’indecisione, dell’inattività. Né lei né i socialdemocratici possono continuare a sonnecchiare sull’orlo del vulcano, come la bella addormentata descritta da Jürgen Habermas.
Per svegliarsi dal sonno non basta tuttavia liberarsi del machiavellismo: che è solo un metodo, utile a simulare l’assenza di ideologie. L’ideologia c’è, invece: la logica del recinto immunizzante presuppone la certezza di possedere una scienza infusa, un’ortodossia economica non confutabile, e di quest’ortodossia si nutre il neo-nazionalismo tedesco. Non è più l’aspirazione a un impero territoriale, ed è vero che Berlino non desidera restare sola al comando, come alcuni sostengono. È il nazionalismo di ricette economiche presentate come toccasana infallibili, e che può essere riassunto così: che ognuno «faccia i suoi compiti a casa» – dietro le rispettive palizzate, costi quel che costi – e solo dopo saranno possibili la cooperazione, la solidarietà, l’Europa politica di cui ci sarebbe subito bisogno. I risultati del nazional-liberalismo tedesco (il nome scientifico è
ordoliberalismo) sono stati disastrosi. In Grecia, i salvataggi accoppiati a terapie recessive hanno aumentato il peso del debito pubblico sul prodotto nazionale (130% nel 2009; 175 oggi), con effetti tragici su crescita e disoccupazione (27% sul piano nazionale, 57% fra i giovani).
La cancelliera non vuole comandare, ma soverchiatore è il dogma secondo cui l’ordine mondiale regnerà a condizione che ogni Stato faccia
prima ordine economico in casa. È predominio il rifiuto opposto agli eurobond, gli ostacoli frapposti all’unione bancaria perché Berlino mantenga il controllo politico sulle proprie banche, l’ostilità a un aumento delle risorse comunitarie che consenta quei piani europei di investimento che Jacques Delors propose invano fin dal ‘93-’94. È predominio quando la Banca centrale tedesca chiede di contare di più negli organi della Bce, e attacca Draghi perché s’è permesso contro il parere berlinese di soccorrere i paesi in difficoltà acquistando i loro titoli. Non meno prepotente è la Corte costituzionale di Karlsruhe, che paralizza l’Unione ogni volta che verifica la conformità dei piani europei di solidarietà alla Costituzione tedesca, senza mai inglobare gli imperativi dei trattati costituzionali della Comunità. Siamo abituati ad associare nazionalismo e autoritarismo. Ma il nazionalismo può anche indossare le vesti di una democrazia nazionale osservata con puntiglio: ma nell’isolamento, indifferente a quel che pensano e vivono le altre democrazie dell’Unione.
Se la Merkel ha vinto con questa ricetta è perché il neo-nazionalismo è diffuso nel paese. Una Grande Coalizione fra democristiani e socialdemocratici non cambierebbe nella sostanza le cose: la socialdemocrazia appoggia da anni le politiche europee del governo, pur denunciandone a parole i pericoli. Ha addirittura accusato la Merkel di spendere troppo. Proporsi un’Europa diversa è compito affidato alla cancelliera come ai suoi eventuali alleati di sinistra.
Il Modello Germania fa ritorno, ma non è più l’alternativa al mercato senza briglie che Schmidt concepì nel ‘76. I tedeschi cercano rifugio nell’ortodossia nazional-liberista non perché felici, ma perché impauriti. Vogliono a ogni costo stabilità. E «nessun esperimento», come Adenauer promise dopo il ‘45. Non tutti i tedeschi in verità, perché c’è povertà anche in Germania e ben 7 milioni di precari lavorano per salari oscillanti fra 8 e 5 euro l’ora (meno dal salario minimo in Spagna). Ma i più si sentono confortati da un leader che non sembra chiedere granché ai concittadini, anche quando in realtà chiede. Bisogna che la crisi tocchi la pelle del paese, perché ci sia risveglio. La Merkel ne è stata capace, a seguito della catastrofe di Fukushima: meno di tre mesi dopo, il 6 giugno 2011, ha rinunciato all’energia atomica.
Molto potranno fare gli Stati dell’Unione, se smetteranno la subalternità che li distingue. Tra i subalterni ricordiamo l’Italia di Letta-Napolitano, che s’aspettava chissà quali miracoli dal voto tedesco; e che dopo il voto si autoincensa paragonando l’imparagonabile: Larghe Intese e Grosse Koalition, Berlusconi e Merkel, indecentemente assimilati.
Molto dipenderà infine dalle sinistre tedesche. Sulla carta esiste una maggioranza parlamentare, composta di socialdemocratici, verdi e sinistra radicale (Linke).
Governare con la Linke è giudicato irresponsabile dalla Spd, ed è tabù comprensibile: il partito ingloba gli ex comunisti della Germania Est. Ma questi anni potevano essere usati per costruire un dialogo civilizzatore della Linke, e prefigurare un’alternativa alla Merkel. Per tanti tedeschi il dialogo è destabilizzante. Ma la democrazia non si esaurisce tutta nella stabilità, nella continuità. Priva come la Merkel di forti visioni, la socialdemocrazia è rimasta intrappolata nello spirito dei tempi: «Non c’è alternativa alle cose come stanno». È un altro recinto da smantellare, se con la Germania crediamo non alle cose come stanno, ma alla possibilità di un’Europa diversa.

La Repubblica 25.09.13

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