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“La strada stretta, tra vincoli europei e venti di crisi”, di Massimo D’Antoni

Difficile immaginare un modo peggiore, dal punto di vista politico, per affrontare i prossimi appuntamenti di finanza pubblica. Il centrodestra sembra aver assunto ormai un assetto da campagna elettorale, puntando su quello che da sempre è il proprio punto di forza: la propaganda. Del resto, sostenere posizioni sfacciatamente irrealistiche in tema fiscale, così da sottrarsi di fronte agli elettori alla responsabilità che comporta la permanenza nel governo, è una posizione che ha pagato anche nel passato recente. Lo schema è stato giocato con successo non più di un anno fa nei confronti del governo Monti, quando il Pd fu lasciato per così dire con il cerino in mano mentre Berlusconi affrontava la campagna elettorale promettendo l’abolizione dell’Imu e cavalcando il sentimento antieuropeo. Anche senza arrivare ad esiti estremi per le sorti del governo, che non convengono nemmeno al Cavaliere, è evidente il vantaggio di tenere l’esecutivo sulla graticola, osteggiando questo o quel provvedimento fiscale senza porsi, e anzi evitando abilmente, il problema della coerenza complessiva in termini di finanza pubblica.

È dunque comprensibile quanto sia forte, per una parte almeno dell’elettorato del Pd e anche forse di qualche dirigente, la tentazione di sottrarsi a questo gioco, guardando con favore ad una crisi di governo e ad elezioni anticipati in tempi brevi. Comprensibile ma sfortunatamente estremamente rischiosa.

Innanzitutto ci sono, come dicevamo, gli appuntamenti di politica economica. Il passaggio dei prossimi due tre mesi non va sottovalutato, così come non va sottovalutata, pensando che il fondo della recessione è passato, la gravità della situazione economica complessiva.

Il Pd ha la responsabilità di contrastare non solo la linea avventurista del Pdl, ma anche un’altra opposta pericolosa tendenza, anch’essa ben radicata. Quella di considerare i vincoli europei come qualcosa di automatico e meccanico, per cui la scelta sarebbe tra aderire passivamente, nella logica dei compiti a casa, e far saltare il banco. Vale la pena di insistere su un punto che abbiamo spesso sottolineato su queste pagine: l’Europa è uno spazio politico. Al di là degli enfatici proclami sulla rigidità o meno dei parametri, esiste un margine di negoziazione, che è implicito nel meccanismo stesso del fiscal compact e nelle eccezioni e condizioni poste nella normativa comunitaria. È per sfruttare tale spazio che è necessario un governo quanto possibile forte sul piano politico.

Come uscirne dunque? Nel concreto delle scelte delle prossime settimane, si tratta di abbandonare un approccio frammentario ai problemi, chiarendo le alternative e chiamando la maggioranza alla responsabilità di scegliere; servirebbe a stanare il Pdl, ma anche a definire priorità e direzione.

Cosa c’è sul piatto? Accanto alla seconda rata Imu (2,3 miliardi ancora da trovare), ci sono il rinvio a gennaio dell’aumento dell’Iva (1 miliardo) e il finanziamento degli ammortizzatori sociali (in primis la cassa integrazione) e delle missioni all’estero (complessivamente almeno un altro miliardo). Qualora le previsioni sul deficit fossero confermate dal governo, si aggiungerebbero 1,7 miliardi di correzione per evitare di entrare nuovamente nella procedura di infrazione e perdere margini di flessibilità per il 2014. Sono 6 miliardi in tutto, che molto difficilmente possono essere coperti con tagli nelle spese correnti 2013 (siamo già a ottobre!), e dunque rischiano di determinare aumenti di imposta, riduzioni nella spesa per investimenti o il ricorso a qualche una tantum (che però determinerebbe un peggioramento del deficit strutturale). Il Pdl dunque si rassegni, in un contesto del genere nemmeno la partita della tassazione degli immobili nel 2013 può essere considerata chiusa.

Il governo affronti dunque con decisione il passaggio della legge di stabilità, definisca un corso di azione da spiegare agli italiani e a Bruxelles (da quest’anno le regole europee prevedono che la legge di stabilità sia vistata preventivamente anche dalla Commissione), facendo valere le ragioni del nostro paese nei confronti della Commissione europea. Di fronte ad un’azione decisa il Pdl dovrà decidere cosa vuole fare veramente. Può darsi che alla fine la conclusione sia che non è possibile continuare, ma avremo quanto meno evitato di sopravvivere in una condizione di guerriglia permanente, che sancirebbe l’impotenza della politica e renderebbe ancora più difficile risalire la china.

L’Unità 20.09.13

Pisa – Festa Nazionale Democratica Scuola e Università

Circolo Arci Pisanova (via Frascani)

Ore 18.30

Quanto costa studiare in Italia e quanto è precario il sistema dei saperi?

Andrea FIORINI (Presidente Cnsu)

Manuela GHIZZONI (Vice Presidente VII Commissione Camera dei Deputati)

Federica LAUDISA (Osservatorio per il Diritto allo Studio Universitario del Piemonte)

Luciano MODICA (Docente universitario)

Marco MORETTI (Presidente ADISU)

Pierpaolo TOGNOCCHI (Consigliere Regionale PD Toscana)

Coordina: Paola FABI (Europa quotidiano)

“Il copione sgualcito”, di Piero Ignazi

L’ennesima replica di un copione ormai sgualcito lascia indifferente la grande platea dei moderati. Tra i tanti che per atteggiamento mentale o scelta politica respingono tutto quanto sappia di sinistra circola delusione e smarrimento. Il loro campione è all’angolo. Lancia invettive stridule e ripete slogan dal sapore amaro. Ma non basta il velo consolatorio della nostalgia a riscaldare gli animi.
Il messaggio televisivo di Berlusconi è algido, livido, lontano. Riflette plasticamente la fine di una epoca. La cacciata da Palazzo Chigi con tanto di lancio di monetine due anni fa non aveva travolto il Cavaliere perché, nonostante tutte le sue responsabilità, non ci “aveva messo la faccia”. Questa volta l’epilogo si consuma sulla sua figura e sulla sua storia. La cacciata dal Senato poteva essere minimizzata adottando un profilo alto, e cioè accettando le sentenze pur proclamando, e argomentando, la propria innocenza. Invece nulla di tutto questo. Come nell’autunno del 1994, grida ancora al complotto, ai nemici potenti e oscuri che ce l’hanno con lui e lo vogliono far fuori in tutte le maniere. E per questo chiama a raccolta gli italiani: per evitare la “catastrofe” . Che, a rigor di logica, sarebbe causata da chi mal governa il paese. Ma proprio qui si incaglia il messaggio. Qualche residuo di senso rimane nel chiamare a raccolta il proprio popolo affinché esso difenda il leader: in fondo colpendo lui si vuole abbattere tutta una componente politica. Ma ogni ratio si perde quando si cerca il nemico contro cui scagliarsi.
Se questo è rappresentato dalla sinistra, come ripetuto più volte nel messaggio, allora come si può continuare a governare assieme ai carnefici? Il cortocircuito è completo: la sinistra mi vuole in galera eppure rimaniamo loro alleati. Anzi, semmai sono loro che non ci vogliono più, mentre noi rimaniamo tranquilli e sereni al loro fianco. Nella politica italiana anche questo è possibile, ma non lamentiamoci se poi gli europei ci guardano come degli esseri strani. In Germania i due grandi partiti hanno collaborato insieme, e forse torneranno a farlo dopo le elezioni di domenica, e nessuno di loro si sognerebbe di dipingere in quei termini l’avversario. La carriera del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder terminò proprio per le sue espressioni irriguardose verso la sfidante Angela Merkel durante i festeggiamenti per la splendida rimonta dell’-Spd alle elezioni del 2005. I codici di comportamento della politica tedesca non permettevano queste cadute di stile nei confronti di un avversario, tanto meno se diventava un potenziale partner di governo. Qui da noi l’insulto è la regola. Berlusconi e il centro- destra (si pensi all’epopea di Umberto Bossi) non si sono mai fatti mancare nulla su questo terreno. E anche ora il Cavaliere ha sparato ad alzo zero contro gli alleati di governo, oltre che verso i magistrati. Il Pd ha reagito con una certa durezza attraverso il suo segretario e lo stesso presidente del Consiglio si è dimostrato infastidito. Ma sono punture di spillo rispetto alla gravità del messaggio berlusconiano. Il Pd deve pretendere un chiarimento politico agli alleati sul rispetto delle istituzioni e dello stato di diritto. Limitarsi alle deplorazioni non basta più. Il Pdl, o quello che verrà, deve essere portato di fronte alla scelta se seguire fino in fondo la deriva plebiscitaria del suo leader o adottare un comportamento più istituzionale. Più che sull’Imu o sull’Iva, il confronto finale e decisivo va fatto sulle regole del gioco. Può darsi che la grandissima parte della classe dirigente del Pdl segua fideisticamente il proprio leader. Trascura però, così facendo, il distacco già in atto con l’opinione pubblica moderata, molto più attenta ai problemi concreti e quotidiani del nostro sistema. Una opinione pubblica esasperata anch’essa dai problemi giudiziari del Cavaliere e in cerca di nuove alternative. Il Pd ha l’occasione per inserirsi in questa divaricazione.

La Repubblica 20.09.13

“La badante di Bruxelles”, di Alberto Bisin

Il tema dei conti pubblici italiani e di conseguenza il nostro rapporto con l’Unione Europea si sta facendo sempre più delicato.
L’Europa sembra sempre meno disposta ad accettare uno sforamento del nostro deficit pubblico e minaccia l’introduzione della procedura di deficit eccessivo. Il governo in realtà è sostanzialmente immobile, sia per ovvie ragioni politiche (l’affaire Berlusconi), ma anche perché non sembra sapere come trovare risorse per finanziare la cancellazione dell’Imu e la rinuncia all’aumento dell’Iva. Dovrebbe essere chiaro a tutti ormai che risorse, nel contenitore in cui il governo le sta cercando, non ve ne sono. A meno di un altro di quei giochi di prestigio in cui la politica italiana eccelle e di cui è meglio fare a meno: un aumento di una qualche altra tasse più o meno nascosta, un trasferimento fuori bilancio di una qualche spesa o una vendita fasulla di proprietà statali (alla Cassa Depositi e Prestiti di solito).
È il contenitore ad essere sbagliato: risorse disponibili attraverso inasprimenti fiscali o tagli lineari alla spesa pubblica non ve ne sono più. Addirittura la lotta all’evasione sembra aver toccato rendimenti decrescenti. Occorre agire seriamente sulla spesa identificando e strozzando le inefficienze. Sono ormai anni e anni che andiamo ripetendo queste cose. Sta diventando rapidamente troppo tardi. Non è un caso che buona parte dei tentativi di spending review degli ultimi anni si siano arenati. Per quanto le inefficienze siano tante e ben distribuite nell’amministrazione pubblica, dietro ad ogni inefficienza vi sono famiglie e imprese. Il proverbiale forestale calabrese non ha fatto nulla di male, ha cercato il miglior lavoro disponibile. Allo stesso tempo l’economia italiana non può permettersi dipendenti pubblici sotto-utilizzati. Restiamo all’esempio del forestale. Tagliare le inefficienze si può fare bene solo in un mercato del lavoro vivace, cui l’exforestale abbia accesso. Ma un mercato del lavoro vivace richiede un mercato del credito che finanzi imprese private che lo possano assumere, possibilmente in Calabria. E richiede naturalmente un controllo del territorio che assicuri il rispetto dei diritti di proprietà, che è un problema serissimo in larga parte del paese. E poi naturalmente minori tasse su lavoratori e imprese (il “cuneo”), che possono oggi essere solo conseguenza di tagli di spesa. Per non parlare di istruzione e ricerca nel lungo periodo. Insomma, tutto si tiene in economia. E quando finisce per essere troppo tardi diventa necessario agire su tutto simultaneamente, purtroppo con costi sociali maggiori.
La situazione che ho dipinto è assolutamente drammatica. Lo è anche perché le vie d’uscita che ci piace pensare esistano, la svalutazione del cambio, una improvvisa generosità della Germania, non sono affatto realistiche. E comunque sarebbero nella migliore delle ipotesi dei semplici palliativi. La situazione in cui ci troviamo (da vent’anni
ormai) si riproporrebbe in modo forse anche peggiore di qui a pochi anni. La tendenza a incolpare l’Europa o l’Euro per questa situazione è una reazione abbastanza naturale, ma non per questo meno grave. I proclami alla sovranità nazionale (della moneta, della politica fiscale, e così via) in pericolo di fronte all’Europa o ai malefici mercati sono, lasciatemelo dire, sonore idiozie. Nessuno attenta alla nostra sovranità: si tratta di creditori che cercano di riottenere ciò che ci hanno prestato. Come mai solo la nostra sovranità è in pericolo e non quella della Svezia, paese che ha iniziato negli anni 90 una riforma profonda del proprio sistema economico riducendo tasse e spesa pubblica in maniera incisiva, pur mantenendo un sistema di protezione sociale da far invidia a chiunque in Europa.
Potevamo farlo anche noi. I nostri problemi erano già ben chiari a chiunque avesse gli occhi aperti. Molti di questi pensavano che l’entrata nell’Euro, proprio in quanto limitazione della sovranità monetaria del paese, potesse aiutare nell’attuazione delle necessarie riforme. Ex-post è chiaro che non ha funzionato. Ma solo chi non abbia alcun rudimento di logica (non parlo di logica economica, ma di logica tout court, capacità di ragionare in modo corretto) conclude da questo che sia meglio uscire dall’Euro. Le riforme economiche che erano necessarie 10 anni fa lo sono ancora di più oggi. Piuttosto utilizziamo al meglio i vincoli alla sovranità che Bruxelles ci offre e che abbiamo sprecato negli ultimi 10 anni.
Questo esclusivamente nell’interesse del nostro paese, non dell’Europa o della Germania. Si badi bene, non è in questione la sovranità popolare, su cui non si discute in democrazia. Se la maggioranza del paese vuole fare default, che così sia. Ma è il sistema politico-istituzionale che traduce la volontà popolare in politiche pubbliche ad essere profondamente malato: il paese è chiaramente in maggioranza contrario a questa legge elettorale, ma non si riesce a cambiare; il paese è largamente per una riduzione dei costi della politica, ma nulla accade; il paese è soffocato dalle tasse, vota in buona parte per chi promette di abbassarle, ma non si fa altro che alzarle; il paese è (almeno per il momento) ancora a favore dell’Euro e dell’Europa, ma stiamo facendo di tutto per uscirvi o per starne ai margini, da osservati speciali. E se i tagli di spesa e le riforme sono bloccati da lobby potenti e vocali (non parlo solo dei dipendenti pubblici, ma delle banche, dei professionisti, dei taxisti, dei pensionati…) questo non significa che il paese non starebbe dietro ad un processo di riforma alla svedese, se ben strutturato e ben delineato. Se per arrivarci dobbiamo sopportare un commissariamento da Bruxelles, non sarà piacevole, ma meglio di quello che stiamo osservando.

La Repubblica 20.09.13

“Brunetta: se il Governo tocca Imu e Iva, pronti a tagliare risorse all’istruzione”, da La Tecnica della Scuola

L’avvertimento del capogruppo Pdl alla Camera: se si fa il gioco delle tre carta, faremo ostruzione in occasione della conversione dei decreti cari al Pd su scuola, fondi allo spettacolo e stabilizzazione dei precari della PA. Ma la formazione dei giovani non era un terreno “franco”? Comincia ad essere messo in dubbio l’impegno preso in estate dal Governo sull’intoccabilità dei fondi destinati alla scuola. A far vacillare il patto preso tra i responsabili dell’Esecutivo Letta, sono le pressioni esercitate da alcuni parlamentari. Uno su tutti: il capogruppo Pdl alla Camera, Renato Brunetta. Che tira in ballo i risparmi assicurati alla scuola per il timore crescente di assistere all’aumento dell’Iva e al pagamento dell’Imu su tutte le proprietà edilizie.
“Non si faccia il gioco delle tre carte: l’Imu sulle prime case e sui terreni e fabbricati funzionali alle attività agricole non si deve più pagare e l’Iva non aumenta”, ha detto Brunetta. Per poi aggiungere: “se questo è il gioco di rimettere in discussione decisioni già prese, allora il Pdl denuncerà, in occasione della conversione, anche i decreti cari al Pd su scuola, fondi allo spettacolo e stabilizzazione dei precari della PA, che portano via risorse per quasi 2 miliardi”.
Insomma, rischia di saltare in Parlamento l’impegno formale preso dal Governo sul decreto scuola, con circa 400 milioni di euro investiti su più fronti e che inciderà già sull’anno scolastico in corso. Rimane solo un dubbio: ma la scuola non doveva essere un settore “franco”, al di sopra delle diatribe della politica, perché a tutela del futuro delle nuove generazioni?

La Tecnica della Scuola 20.09.13

“Il Grande Minimizzatore e il massacro delle donne”, di Adriano Sofri

Ieri le cronache erano un camposanto di donne uccise. Di mattina, la rassegna di Radio 3 e la discussione di “Tutta la città ne parla” rimettevano a confronto l’allarme per le violenze contro le donne e il femminicidio con la minimizzazione. La minimizzazione è brutta, presume a torto di avere i fatti dalla sua, e non ha capito.
A Ferragosto il ministero dell’Interno ha comunicato i dati sulla criminalità. Circa il 30 per cento degli omicidi commessi in Italia, ha detto il ministro, ha come vittime le donne. I giornali hanno scelto questa frase per intitolare (Il totale era di 505 omicidi). Poi ho letto commenti come questo: “Ma allora il 70 per cento degli ammazzati sono uomini! E parlano di femminicidio”. Naturalmente, le cifre rilevanti riguardano il confronto fra il numero di uomini uccisi da donne, e il numero di donne uccise da uomini. Un uomo ucciso da un uomo è senz’altro un maschicidio, anzi doppio, perché è maschio l’autore e la vittima. E nessuno si sognerebbe di chiamare femminicidio l’uccisione di una donna da parte di un’altra donna. Chi è insofferente all’invenzione di un nome speciale per l’uccisione di donne perché donne, e resta attaccato a un nome “neutrale” (come se “omicidio” fosse neutrale, e come se “uxoricidio”, che vuol dire ammazzare la moglie, non venisse usato anche per i rari mariti ammazzati) dovrebbe mirare alla parità: che si può ottenere o facendo sì che gli uomini riducano l’uccisione di donne al numero delle donne uccise da uomini, o che le donne uccidano molti più uomini, preferibilmente mariti ed ex mariti
e fidanzati e clienti ecc., fino a raggiungere il record dei maschi. Questa buffissima applicazione teorica delle quote rosa non è buffa come sembra. È un ennesimo segnale di uno scandalo che in troppi hanno voglia di normalizzare. Dunque: quei dati grossolani del ministero dell’Interno dicono che dal 1° agosto 2012 al 31 luglio 2013 le donne uccise sono state circa 150. Degli omicidi commessi dal partner, l’83,3 per cento è stato commesso da uomini. Degli omicidi commessi dall’ex partner, il 100 per cento – tutti – sono stati commessi da uomini. Abbiate ancora pazienza: nei dati Eures (citati dai minimizzatori) le donne uccise nei primi sei mesi dell’anno sono “già 81”; fra il 2000 e il 2012 sono state “2200, una media di 171 all’anno, una ogni due giorni”. Erano 173 nel 2009, 158 nel 2010, 170 nel 2011, 159 nel 2012 (qui il calcolo è sull’anno da gennaio a dicembre). Nella presentazione, il rapporto scrive: “Femminicidi. Troppo spesso ignorati i segnali di rischio”. Come ormai si dovrebbe sapere, il totale degli omicidi ha avuto un brusco calo, mentre quelli che hanno per vittime le donne sono stabili, dunque coprono una quota crescente del totale – il 30 per cento. Questi i numeri: che sono eloquenti.
Vediamo ora i pensieri, e i pregiudizi. Si dice: la continuità nel numero dei femminicidi mostra che si tratta di un dato endemico, fondato in fenomeni così “strutturali” che non c’entrano con l’emergenza. È un argomento troppo vero per essere intelligente. Dato che la discriminazione uomo-donna è il fondamento diretto o indiretto di ogni razzismo, farlo finalmente emergere è, appunto, un’emergenza. Ma sfugge ai minimizzatori un punto decisivo: molte altre cose sono endemiche nei nostri costumi, e si modificano solo lentamente – benché questa, del maschilismo, sia la più lenta e renitente. Esempio: il nostro modo di pensare agli animali. Non offenderà le donne, che sanno come gli uomini le abbiano domate e tenute alla catena non molto diversamente da quelli. Dunque anche nel rapporto fra uomini e donne le cose cambiano. Chi insiste sul femminicidio “endemico” – o sugli stupri e le botte, tutti endemici – immagina solo la protrazione di un patriarcalismo arcaico, dal passo infinitamente più lento di altri progressi. Non è così. Quel patriarcalismo non vuole cedere, ma perde terreno, e libera via via le sue vittime, le donne ma anche i disgraziati uomini, che perdendo la proprietà delle donne hanno un mondo da conquistare. Invece c’è nel femminicidio contemporaneo e nelle violenze contro le donne – basta seguirne gli episodi, e basta anche, diciamolo, fare bene i conti con se stessi – qualcosa di interamente nuovo, perché nuova è la libertà che le donne rivendicano, e a cui gli uomini devono abituarsi, e rallegrarsene se ne sono capaci, o rassegnarsi se non altro – e troppo spesso non si abituano né si rassegnano, e se ne vendicano. Non sono uomini all’antica: sono modernissimi uomini antichi, mortificati dalla libertà delle donne, che sentono come il furto della loro libertà. Anche alle persone che finalmente si impegnano ad avere conti e statistiche serie su questi temi, direi di non gingillarsi troppo con l’ovvietà che l’enorme incremento di denunce contro i maltrattamenti maschili sono il
frutto di una sensibilità e soprattutto di una solidarietà che fino a poco fa non si poteva sperare. Certo che è così. Le botte domestiche “sommerse” saranno ancora la schiacciante maggioranza. Ma questo, appunto, è ovvio. Meno ovvio è riconoscere, e far riconoscere, le botte nuove e inaspettate di uomini che non stanno al passo con l’immagine femminile pubblica e pubblicitaria, e se ne rifanno a casa, fra il porno online e la moglie.
Ammoniscono: è diventato di moda gridare all’allarme per i femminicidi. Può darsi, ma non era meglio quando – negli ultimi ventimila anni, diciamo – era di moda non parlarne, tranne qualche tragico greco. Deplorano: si grida all’emergenza per mettersi in mostra. Argomento scivoloso, basta rovesciarlo: mi si noterà di più se sconfesso l’emergenza?
Infine: le comparazioni statistiche fra noi e la Finlandia, o la Lettonia. Mostrano un paio di cose. Intanto, che là curano meglio le statistiche. Poi quello che ho appena detto, che il progresso nei costumi è zoppo, da questa gamba. Poi, che le notti sono lunghe e senza luce, e gli uomini bevono, e picchiano la moglie. Si suicidano anche, di più. Ma anche là, dove l’emancipazione è più spinta, le mogli probabilmente bevono di più, ma non picchiano il marito in proporzione. I romanzi di Larsson andavano presi sul serio, soprattutto nelle didascalie informative premesse a ogni capitolo. Mostravano le magagne, di genere e politiche, della bella Svezia, anche lei tentata di prendersela con l’immigrazione. Dopo di che, senza dimenticare per un momento le percentuali dei panni sporchi dentro le “nostre” famiglie, l’immigrazione ci e si pone un problema. Per lei, spesso, lo scontro con la libertà femminile è ancora più brusco e frontale. Che a volte reagiamo in modo orrendamente simile, noi e uno zio pakistano espiantato, è solo un ulteriore avvertimento sulla scorza sottile.

La Repubblica 20.09.13

“Scuola, i nodi irrisolti del sistema di valutazione”, Benedetto Vertecchi

Che i problemi della valutazione coinvolgano profondamente chiunque, in un modo o nell’altro, sia interessato all’attività educativa è del tutto comprensibile. E non è qualcosa che avvenga solo in Italia. Anche se spesso le polemiche si rinfocolano in concomitanza con interventi, o annunci d’interventi, che confliggono con le interpretazioni e gli atteggiamenti individuali o di gruppi, la reattività ha origine dall’interiorizzazione di esperienze educative che, proprio in relazione al modo in cui sono state valutate, hanno assunto determinate caratteristiche ed hanno finito col segnare la rappresentazione dei fenomeni educativi. Quello della valutazione è dunque un problema nei confronti del quale ovunque si manifesta interesse. Il fatto è, tuttavia, che quando in Italia ci si confronta sulla valutazione si rivelano limiti culturali che sono propri delle condizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo del nostro sistema scolastico. Sono limiti che hanno come conseguenza la riduzione del significato della valutazione all’apprezzamento delle conoscenze acquisite dagli allievi, o comunque a tratti del loro comportamento strettamente riferiti all’esperienza scolastica. In breve, siamo di fronte a una sineddoche: un concetto in sé molto esteso perché suppone sia preso in considerazione un gran numero di dimensioni è impoverito dei significati necessari per conferirgli una valenza interpretativa che superi l’autobiografismo e le argomentazioni di senso comune che ne derivano. Alla base di una simile nozione diminuita della valutazione c’è una logica interpretativa che si limita ad associare la qualità dell’apprezzamento che si esprime nei confronti delle conoscenze acquisite a scuola da un lato alle caratteristiche personali degli allievi, dall’altro alle proposte di educazione formale che a essi sono state rivolte in luoghi e tempi determinati. Non c’è bisogno di richiamare le indicazioni della ricerca che nel corso del Novecento hanno progressivamente disgregato il recinto angusto entro il quale si pretendeva di relegare l’istruzione scolastica. Ormai nel dibattito internazionale non si può più parlare di valutazione senza riferire gli oggetti dell’attenzione a un complesso reticolo di interazioni. Si guarda all’educazione come a un sistema, a una rete la cui geometria può essere modificata agendo su uno qualunque dei nodi che collegano tra loro i diversi elementi. Di conseguenza, se consideriamo un aspetto specifico (per esempio, il livello degli apprendimenti in matematica) non possiamo limitarci a prendere atto del risultato che gli allievi hanno conseguito, dopo che per un certo tempo hanno partecipato ad attività rivolte a conseguire un determinato intento. L’interpretazione valutativa consisterebbe, infatti, nello stabilire una relazione lineare tra proposta e risultato di apprendimento, e la variabilità degli effetti sarebbe completamente spiegata da poche variabili, come l’attitudine e la motivazione di chi apprende e la qualità dell’istruzione di cui ha fruito. Basterebbe riflettere sulle trasformazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della scuola italiana nel corso del Novecento per rendersi conto che le interpretazioni fondate su relazioni lineari possono essere facilmente smentite. Il principale fattore dinamico dello sviluppo scolastico è stato a lungo rappresentato dall’attesa del beneficio che si sarebbe tratto dall’istruzione. Tale attesa era accreditata da atteggiamenti sociali favorevoli, che facevano considerare importante l’impegno nello studio. In altre parole, gli esiti dell’educazione scolastica erano spiegabili solo con riferimento a fattori esterni ad essa. La nostra scuola, in particolare a partire dagli anni sessanta, ha avuto una crescita rapidissima, alla quale tuttavia non ha corrisposto la revisione dei modelli interpretativi. Si sono continuati a utilizzare i modelli preesistenti senza considerare la necessità che qualunque innovazione avrebbe richiesto di rivedere proprio quei modelli. E ciò non poteva essere fatto se non promuovendo la ricerca, per individuale e spiegare i cambiamenti in atto nel sistema educativo. Non è una soluzione quella di assumere, sic et simpliciter, modelli elaborati in contesti diversi per compensare l’imbarazzante assenza di una conoscenza originale, derivante dalla continuità dell’impegno per l’analisi della realtà educativa. Oggi sappiamo che la motivazione ad apprendere degli allievi non è esaltante, che gli insegnanti sono spesso frustrati, che le scuole mancano del necessario per organizzare la loro attività, che i mezzi di comunicazione diffondono una cultura alternativa (e spesso conflittuale) rispetto a quella scolastica e via elencando. Ma non sappiamo in che modo questi fattori interagiscono fra loro, e quanta parte del risultato scolastico possa essere riferita ad essi. Eppure, è proprio ciò che sarebbe necessario sapere per dare un nuovo indirizzo all’educazione scolastica. È questa la valutazione che serve, e della quale in Italia non c’è traccia.

L’Unità 19.09.13