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“Lettera aperta alla Ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza”, da Se non ora quando – Factory

Gentile Ministra Carrozza, siamo un gruppo di donne che insieme ad altre hanno organizzato la giornata del 13 febbraio 2011, giornata che è rimasta nel cuore di tutte. Le confessiamo che il grande successo di quella manifestazione ci ha riempito di gioia, ma anche ci ha lasciate sgomente dal senso di profonda e drammatica necessità che tante donne portavano nelle piazze, necessità e urgenza di cambiamento, di ossigeno. Ricorderà che in quel periodo le nostre istituzioni, il Parlamento, si trovavano impantanati in storie ridicole trasformate in affari di Stato, si votava sulla nipote di Mubarak.
Questa nostra presentazione non serve per farci grandi, ma per poter meglio far comprendere che da quel giorno la necessità e l’urgenza di cambiamento non ci hanno più abbandonate e sono diventate per noi interrogazione quotidiana.

Una lettera alle istituzioni di questi tempi è inusuale, troppo divaricata è infatti la forbice tra governanti e governati, troppa sfiducia, troppo sospetto, troppa estraneità. Ma questo non vale per Lei, signora Ministra. A parte la stima grande per la sua storia di scienziata, ci è molto piaciuto il suo discorso a Cernobbio. Anche noi pensiamo, come lei, che la politica ha fatto male alla scuola e che con questa classe dirigente omologata con poche donne non riusciremo ad uscire dalla crisi. Ci piace quando parla di investimenti per la scuola e non di spese. Ci piace quando va a inaugurare l’anno scolastico a Casal di Principe, significando così che nessuno deve essere lasciato indietro.

Nessuno deve essere lasciato indietro. Per questo le scriviamo.

Come tutti di questi tempi avrà sentito parlare di femminicidio, di violenza contro le donne ne avrà letto, ne avrà sofferto, come ogni donna, di quel dolore speciale, dolore che un uomo, anche il più buono e pietoso, non può provare. C’è chi dice che è un fenomeno antico, che c’è sempre stato, che i numeri non sono aumentati. Fatto sta che oggi di donne ne muoiono troppe e troppe sono ancora maltrattate. E che bisogna mettere le mani urgentemente per arginare questo fenomeno antico o moderno che sia. Per lo più le donne che vivono questa disgraziata condizione, o che ne muoiono, sono stanche di essere male amate, stanche di obbedire, stanche di servire. La loro sofferenza, la loro morte svela un mondo terribilmente impreparato alla libertà delle donne.

A questo punto Lei si chiederà perché le stiamo parlando di tutto questo. La risposta è semplice. Perché, come lei pensiamo che sia la scuola la strada più importante per uscire da questa crisi. In questo caso non parliamo di crisi economica e politica, ma della crisi profonda dell’anima di questo paese. E’ questa una grande urgenza.

Vede, noi non crediamo che si possa vincere la violenza contro le donne, con l’inasprimento delle pene. Poco, solo un poco, crediamo ai provvedimenti di allontanamento dei violenti, alla loro rieducazione. Noi pensiamo che l’unica cosa che salverà noi donne da tutto ciò sia la stima di sé, il rispetto di sé, la coscienza del proprio valore, il senso della propria dignità. E’ anche noi stesse che dobbiamo rieducare, quindi, per poter riconoscere la violenza prima che accada. Niente altro ci salverà.

Siamo state molto deluse dal Decreto legge recentemente proposto, decreto per altro senza un euro di finanziamento, che affrontava la piaga della violenza contro le donne come problema di ordine pubblico, accomunandola alla violenza negli stadi, a chi ruba i fili di rame, ai no Tav. Questo significa non capire nulla o meglio far finta di non capire che il problema della violenza contro le donne non è il problema dei violenti ma di un’intera società.

Non crediamo neanche alle “lezioni di buona educazione” che ogni tanto , insegnanti di buona volontà impartiscono nelle scuole a ragazze e ragazzi. E tanto meno crediamo sia giusto e buona la pubblicità reiterata della violenza, anzi pensiamo che faccia male, male alle ragazze per la spontanea identificazione con la vittima, con la parte debole, e male ai ragazzi per i possibili sensi di colpa e l’identificazione con la parte comunque forte. Lottare, poi, contro gli stereotipi nei libri di testo è ottima cosa ma pensiamo non basti. Per quanto ci riguarda ci auguriamo un mondo dove nessuno sia servo di qualcun altro e dove ognuno pulisca ciò che ha sporcato.

Che fare, allora. Abbiamo parlato di autostima, unica soluzione possibile. Ma la stima di sé comincia sempre prima di noi. La stima di sé per essere ha bisogno di due cose, l’ammirazione per coloro che sono venuti prima di noi e le aspettative di chi ci sta intorno. Questi sono i due nutrimenti necessari. La nostra società di aspettative nei confronti delle donne ne ha ben poche, lo sanno tutte le donne che hanno voluto e vogliono mettere al servizio della società i loro talenti, le loro ambizioni. Tutte possono, infatti, raccontare strade faticosissime. E l’ammirazione per chi è venuta prima di noi è semplicemente impedita. Le donne della storia, le filosofe, le scrittrici, le artiste, le scienziate sono dimenticate. La scuola non le racconta.

Noi crediamo profondamente nella differenza tra uomini e donne. L’uguaglianza non è per noi un valore, se non nella dignità e nel diritto. Crediamo nella differenza come ispiratrice di una giustizia migliore, una società più accogliente, più equilibrata. Uomini e donne hanno corpi differenti, differente storia, differente cultura. Noi donne veniamo da una storia pesante e dolorosa, ma che ci ha insegnato molto, questo è il nostro tesoro. Pensiamo che sia il tempo di mettere al lavoro questa differenza per una nuova concezione del mondo, per una nuova visione della società. Uomini e donne insieme nel governo della cosa pubblica, nel pensare, nel fare delle scelte che riguardano la vita di tutti, nella scienza, a questo bisogna preparare ragazze e ragazzi.

Noi pensiamo, l’abbiamo detto, che per dare forza, stima di sé , rispetto di sé alle ragazze come ai ragazzi siano necessarie delle figure da ammirare. Le ragazze hanno bisogno di figure di riferimento forti, donne forti, che hanno dato il meglio di sé, esempi da seguire. Questo è un nutrimento simbolico necessario. Ma la nostra scuola insegna solo ad ammirare gli uomini e le loro opere.
Le poche donne che restano nei programmi finiscono per rappresentare delle eccezioni, il loro potenziale simbolico è nullo, la loro forza resta intransitiva. Ai ragazzi si mostra un mondo di uomini, alle ragazze è riservato uno specchio vuoto. Questo è male per entrambi

Questo non era grave in un mondo dove le donne vivevano sotto tutela, quando non potevano accedere alle professioni, non potevano amministrare i loro beni, non votavano. Ma oggi no, oggi una ragazza sceglie cosa vuole studiare, può viaggiare, vota, può scegliere con chi dividere la propria vita, può avere figli o no, se non li desidera, può vivere dove vuole. Ma la scuola di oggi per lei è ancora quella Ottocentesca, nelle sue linee fondamentali. Le donne non ci sono, non si ricordano, non si studiano, non esistono.

Dove sono le Maria Montessori, le donne che hanno covato l’Illuminismo nei loro salotti, Madame Curie, Santa Teresa d’Avila, le donne che hanno fatto la loro parte nel Risorgimento, le tantissime poete, le grandi scrittrici, le matematiche, Simone Weil, Hanna Arendt? Non ci sono, se non per la buona volontà di alcuni insegnanti disposti a “fuori programma”. Perché non si celebra l’8 Marzo come giorno della memoria del percorso delle donne, e degli uomini loro alleati, verso la loro libertà? Perché non si racconta ai ragazzi e alle ragazze le tappe di questo cammino luminoso?

Degli psicologi, reduci da un’ inchiesta in tre licei della Regione Umbria, ci raccontavano della grande difficoltà in cui si trovano oggi le ragazze, per il semplice fatto che l’assenza di figure forti di riferimento entra in contraddizione forte con la libertà che godono, creando spaesamento, confusione, senso di solitudine, debolezza.

Lei non era ancora Ministra, quando si è indetto l’ultimo concorso per i nuovi docenti. Nel programma di Letteratura Italiana, su cui dovevano rispondere i candidati, su 30 autori c’era una sola donna: Elsa Morante. Anche questo è femminicidio. Si dice che le donne debbano andare avanti solo con il merito, ma alla povera Grazia Deledda, evidentemente non è valso nemmeno il premio Nobel.

Gentile Ministra, ci rivolgiamo a lei, perché lei in questo momento è quella che può fare moltissimo contro la violenza alle donne, ma non solo, è quella che può rendere questo paese pi ù civile, più equilibrato. La rivoluzione, non abbiamo altro termine, deve cominciare dalla scuola, può essere solo nella formazione. Cambiare urgentemente i programmi, per dare forza alle ragazze, non farle sentire aggiunte in questa società, ma necessarie. Questo prima di tutto. Non c’è vero discorso sulla modernizzazione della scuola se non si parte da qui.

Ma non solo. Ridare dignità alla figura del docente, non farlo vivere sulla soglia della miseria, non farne un vinto. E rendere difficilissimo diventare insegnanti, che non sia una professione di rimedio ma di vera vocazione. Questo però è un altro discorso.

Se condivide quello che abbiamo detto, ci piacerebbe incontrarla per raccontarle il nostro lavoro.

Confidiamo molto in Lei. Grazie per la sua attenzione.

Se non ora quando factory

“La battaglia dell’Iva allo scontro finale, ma è solo una questione di tempo”, di Raffaella Cascioli

La sterilizzazione dell’aumento dell’Iva sembra ormai giunta al termine in uno psicodramma collettivo. Tra il grido dall’allarme dei commercianti e degli agricoltori che temono un ulteriore crollo dei consumi e gli inviti, più o meno ultimativi, dei due principali partiti di maggioranza, il governo entro la settimana deve sciogliere un nodo che con il passare dei giorni diventa sempre più stretto.

Tanto più che la battaglia sull’Iva, intrecciata a filo doppio in questo inizio d’autunno con la partita dell’Imu 2013, ha problemi di copertura vista l’impossibilità per il governo e, in particolare, per il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni di reperire le risorse necessarie da qui a fine anno per cancellare il saldo Imu (2,3 miliardi), congelare per l’ultimo trimestre l’aumento Iva (1 miliardo), rifinanziare la Cig in deroga (5-600 milioni) e le missioni di pace.

E così a legislazione vigente a partire dal prossimo primo ottobre l’aliquota ordinaria Iva aumenterà dal 21 al 22% portando l’Italia a detenere il triste primato della percentuale più alta d’Europa. Tuttavia, sarebbe sbagliato non ricordare che l’aumento dell’Iva, la cui origine si perde nella notte dei tempi e porta la firma (seppure postuma) di Giulio Tremonti tanto da far riflettere sull’innocua pericolosità delle clausole di salvaguardia, riguarda come specificato dal sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta soldi già spesi tanto che «non si può bloccare l’aumento dell’Iva all’infinito».

Già oggi il consiglio dei ministri dedicato al provvedimento Destinazione Italia potrebbe fuori sacco occuparsi dell’Iva in vista della riunione di domani sulla nota di aggiornamento al Def. L’idea sarebbe quella di iniziare a uniformare l’imposta su quei prodotti, come il pane, che subiscono diversi tipi di imposta a seconda dei tipi di commercializzazione o sulle diverse categorie merceologiche.

Come peserà sulla battaglia dell’Iva il videomessaggio di Silvio Berlusconi di ieri è al momento un mistero. Tanto più che il Cavaliere in doppiopetto davanti alle telecamere ha anticipato che «i nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese». Parole, quelle di Berlusconi, piuttosto generiche tanto quanto l’osservazione che «il peso dello stato, delle tasse, della spesa pubblica sia eccessivo». In realtà, oltre a una coperta troppo corta, a scontrarsi è una diversa visione di stimoli alla ripresa.

Essendo arrivato il momento delle scelte con la legge di stabilità alle porte quel che ormai è non più rinviabile è il braccio di ferro in atto tra Iva-Imu quest’anno e Iva-taglio del cuneo fiscale per il 2014. Letta e Saccomanni puntano a una mini-riforma delle aliquote Iva a partire dal 2014 che di per sè comporta anche l’aumento dell’aliquota ordinaria al 22% ma che è compensato con un taglio “pesante” del costo del lavoro sia in busta paga sia per le aziende.

L’idea è quella di partorire stimoli alla ripresa dalla parte dei redditi, ma questo fa insorgere in modo trasversale sia il Pd che il Pdl, oltre a Rete imprese Italia e agli agricoltori. Sono in molti a chiedere tagli di spesa per restituire risorse e fiducia ai cittadini e alle imprese. Cambiano i toni ma gli appelli a scongiurare l’aumento si moltiplicano: da Gasparri del Pdl a Speranza del Pd, compreso il consueto battibecco Fassina-Brunetta.

da Europa QUotidiano 19.09.13

“Riforme, diario di un saggio”, di Marco Olivetti

Dopo la conclusione dei lavori della Commissione per le riforme istituzionali, il mio bilancio personale è nel complesso positivo, sia dal punto di vista del metodo di lavoro, sia per quanto riguarda alcune delle proposte riassunte nel documento finale. Il metodo anzitutto: la Commissione ha costruito degli itinerari di riflessione attorno alle grandi questioni costituzionali aperte: la riforma del bicameralismo, la correzione del titolo V, la forma di governo e il sistema elettorale. Lo ha fatto con il metodo della democrazia deliberativa, rinunciando a votare e cercando di far coagulare il consenso attorno ad alcune proposte, registrando le alternative e i dissensi.

Abbiamo iniziato i nostri lavori quasi come se fossimo stati program- mati per dividerci sulla forma di governo, un po’ come quei laptop cinesi che hanno un chip che li porta a rompersi dopo qualche anno. Per questo la forma di governo e la legge elettorale sono state messe alla fine dei nostri lavori, anche per consentire uno spirito meno conflittuale su temi come il bicameralismo e il regionalismo, che si ritenevano meno divisivi. Personalmente, invece, ho sempre pensato che queste fossero le questioni principali e che il bicameralismo perfetto sia la grande anomalia costituzionale italiana, il cui superamento dovrebbe saldarsi a una correzione ma non a un ridimensionamento drastico del sistema delle autonomie. Mi ha sorpreso piacevolmente la quasi unanimità sul superamento del bicameralismo paritario su fiducia e procedimento legislativo (che ancora la bozza Violante-Quagliariello della fine della scorsa legislatura aveva lasciato intatta), anche se tutti ci guardavamo pensan- do alla resistenza che una simile riforma incontrerà poi in Senato. Per me però qui stava il cuore della questione, premessa essenziale anche per la riforma della legge elettorale: solo adeguando il sistema di governo italiano agli standard europei su questo punto era possibile pensare a una legge elettorale almeno in parte maggioritaria.

Mi ha invece sorpreso meno piacevolmente quanto sia cresciuta fra i costituzionalisti (e ancor più fra i non costituzionalisti) presenti in Commissione l’ostilità verso le autonomie, che molti considerano come un impaccio, al punto che nell’ultima seduta ho ritenuto mio dovere richiamare – senza molto successo – il nesso fra autonomie territoriali e democrazia, che è ben chiaro nell’articolo 5 della Costituzione e che era sentire comune della generazione dei costituzionalisti dei primi decenni post-bellici (si potrebbero citare al riguardo alcuni passaggi molto incisivi di Carlo Esposito).
Quando abbiamo iniziato a trattare il tema della forma di governo si percepiva nell’aria un clima di sfida e di «conteggio» delle diverse opinioni, pur dietro allo stile di cortesia forma- le che ha accompagnato tutti i nostri lavori. Ho affrontato il derby fra semi- presidenzialismo e premierato avendo in mente il titolo di un articolo di Leopoldo Elia: «Tutto tranne il francese». Tuttavia ho poi molto apprezzato la disponibilità di una buona parte della Commissione a convergere, sia pure con riserve e in forma sussidiaria, su un sistema di «governo parlamentare del Primo Ministro», proposto dal presidente Violante.

UN PUNTO DI CONVERGENZA

Questa proposta non risulta dalla relazione della Commissione come una scelta netta da essa compiuta, ma piuttosto come un punto possibile di convergenza: l’indicazione popolare del premier, realizzata (come in Germania e Spagna, anche se con regole elettorali più costrittive) attraverso la legge elettorale, mantenendo contrappesi forti come la sfiducia costruttiva e un ruolo di garante ultimo del Capo dello Stato, secondo una logica che anima di fatto i regimi parlamentari europei.

Servirà a qualcosa questo lavoro o il rapporto Violante-Quagliariello andrà a sommarsi agli atti delle varie Bicamerali, potendo essere utilizzato solo per fare le montagne dei presepi natalizi? Non spetta a me dirlo ed è più che mai difficile dirlo ora. Ma almeno una cosa deve essere chiara: ciò che abbiamo tentato di fare non è stato decidere, che spetta ad altri, né preconfezionare la decisione. Abbiamo preparato un percorso per ragionare sui temi che ci sono sembrati più rilevanti, indicando le alternative che sono sul tavolo: non abbiamo raddrizzato la Concordia, ma solo discusso su come si potrebbe farlo. Nessuno di noi si è mai sentito La Pira, Dossetti, Mortati o altri: quelli sono i nostri maestri ultimi, i Padri della Patria.

Il mio auspicio è che il nostro documento possa offrire ai rappresentanti del popolo sovrano alcuni materiali per far sì che la nostra Costituzione non sopravviva mummificata e superata dagli eventi, ma sia viva e vitale nel XXI secolo: il che oggi è possibile solo modificandone incisivamente la seconda parte. Il patto che ci lega, però, resta quello contratto fra il 1946 ed il 1947: e mi ha fatto molto piacere che questo sia stato riconosciuto ormai da tutti, anche dai colleghi vicini al centrodestra.

Resto tuttora stupito dall’ostilità preconcetta suscitata da questo tentativo (e più in generale il percorso complessivo di riforma, con le deroghe limitate e controllate all’art. 138 delineate nel disegno di legge costituzionale in discussione in Parlamento), al punto che si è parlato di «riforma costituzionale della P2» e che alcune personalità che non ho mai ritenuto giuridicamente sprovvedute hanno firmato un appello con tale titolo. A sinistra del Pd (se di sinistra si può considerare il Movimento 5 Stelle) è l’ora del fondamentalismo costituzionale: qualcosa che non sarebbe piaciuto ai Padri Costituenti. Non certo a Dossetti e La Pira, ma credo neppure a Togliatti, se non altro perché tradisce quell’incertezza sulla bontà delle proprie ragioni che spesso si cela dietro agli arroccamenti.

L’Unità 19.09.13

“Sedici minuti sei bugie”, di Massimo Giannini

Il video-messaggio di Berlusconi non è solo un concentrato di dolori personali e di rancori collettivi. Come sempre, i suoi sedici minuti di «discorso alla nazione» racchiudono anche una micidiale sequenza di falsità. Dalla ricostruzione delle sue vicende politiche alla «narrazione» delle sue vicissitudini giudiziarie, la menzogna domina la scena e scandisce il plot della fiction berlusconiana. La menzogna, ancora una volta, è «instrumentum regni » del Cavaliere, utile a sovvertire il senso e a generare il consenso.
Nel triste, solitario e finale comizio televisivo, registrato come nel 1994 nella location di Villa San Martino, si possono contare almeno sei bugie, che vanno dal bilancio della crisi economica al rilancio della «moderata» Forza Italia. Omissioni della realtà, manomissioni della verità: vale la pena di ripercorrerle una per una, con una esegesi testuale e contro-fattuale, per capire ancora una volta i meccanismi che fanno funzionare la «macchina» del potere berlusconiano.
1) La crisi economica senza precedenti
Dice il Cavaliere agli italiani: «Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere… Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo… ».
Berlusconi parla come un passante, non come il presidente del Consiglio che solo dal 2001 ad oggi ha governato il Paese per ben otto anni. I risultati economici dei suoi due governi sono stati rovinosi. Lo dice Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, nelle Considerazioni finali del maggio 2012 (il governo Berlusconi è caduto nel novembre 2011): «Le condizioni economiche si deteriorano da un anno. La produuzione industriale, che aveva a stento recuperato nel secondo trimestre dello scorso anno,… è da allora caduta del 5%. Il Pil è diminuito dalla scorsa estate per tre trimestri consecutivi, con una perdita complessiva di 1,5 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione è salito, da luglio, da poco più dell’8 a quasi il 10%, fra i giovani con meno di 25 anni dal 28 al 36%». Quanto alle tasse, la pressione fiscale è sempre aumentata durante i governi del Cavaliere: dal 40,6 al 41,4% tra il 1994 e il 1996, dal 40,5 al 41,7% tra il 2001 e il 2006 e dal 42,7 al 44,8% tra il 2008 e il 2011.
2) La magistratura «contropotere irresponsabile»
L’attacco più veemente, come al solito, è contro le toghe: «Siamo diventati un Paese in cui non vi è pi ù la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercè di una magistratura politicizzata che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità… si è trasformata da Ordine dello Stato in un Contropotere in grado di condizionare il potere legislativo e il potere esecutivo e si è data come missione quella di realizzare la via giudiziaria al socialismo».
A quali «fonti» abbia attinto il Cavaliere è un vero mistero. La Costituzione prevede che «i giudici rispondono soltanto alla legge» (articolo 101), che spettano al Csm «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (articolo 105), ma che «il ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinamentre» e che il pm «gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (articolo 107). Com’è evidente, la magistratura è un «organo dello Stato», che gode di autonomia secondo il principio della separazione dei poteri, ma non della «totale irresponsabilità » lamentata dallo Statista di Arcore: risponde alle leggi, come avviene in tutti i «Paesi civili». Quanto al «Contropotere» che condiziona «il potere legislativo e il potere esecutivo», il Ventennio berlusconiano dimostra l’esatto contrario: con 18 leggi ad personam sulla giustizia su un totale di 37 fatte approvare a forza dal Parlamento, è stato Berlusconi a usare il potere esecutivo per imporre al legislativo un vincolo al giudiziario. Infine, la «missione di realizzare la via giudiziaria al socialismo » è un inedito assoluto del Cavaliere: qualche solerte azzeccagarbugli deve avergli spacciato come documento di Magistratura Democratica un vecchio dispaccio di Andrej Vishinsky, procuratore dell’Unione Sovietica degli anni ’30.
3) La caduta del primo governo del 1994
Per sostenere la tesi del «complotto politico » e della «Guerra dei Vent’anni» dichiarata contro di lui dai giudici rossi, Berlusconi risale ai tempi di Mani Pulite, alla sua discesa in campo e al suo primo trionfo elettorale del ’94: «Immediatamente, i Pm e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Md si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo».
È la famosa leggenda dell’avviso di garanzia recapitato all’allora premier dal Pool di Milano durante il vertice Onu sulla criminalità a Napoli. Fatto vero, che si verifica il 22 novembre 1994. in relazione all’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Ma il primo governo del Polo non cade affatto per questo: si sfarina a causa della lotta fratricida sulla riforma Dini, che porta la Lega di Bossi a decidere il ribaltone e Berlusconi ad aprire la crisi il 22 dicembre, con un durissimo discorso alla Camera in cui accusa l’ex alleato Senatur di «rapina elettorale». Quanto all’esito di quel processo sulle tangenti alla Guardia di Finanza, non è vero che il Cavaliere viene «assolto, con formula piena, sette anni dopo». Intanto in quel procesre
so, nel 2001, viene condannato Salvatore Sciascia, dirigente Fininvest, che le tangenti le ha pagate. Berlusconi viene assolto su tre capi d’imputazione, ma per un quarto se la cava grazie all’«insufficienza probatoria». Non solo: nella sentenza di condanna definitiva per David Mills la Cassazione accerta che l’avvocato inglese fu corrotto «per testimoniare il falso nel processo sulle tangenti alla Gdf», favorendo così l’assoluzione dell’ex premier.
4) Cinquanta processi, quarantuno assoluzioni
È un classico della vulgata berlusconiana: «Mi sono stati rovesciati addosso 50 processi che hanno infangato la mia immagine… ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di estromettermi dalla politica con una sentenza che è politica ed è mostruosa… sottraendomi da ultimo al mio giudice naturale, cioè a una delle sezioni ordinarie della Cassazione che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte…».
Il vero numero dei processi di Berlusconi non è 50, come dice ora, né meno che mai 106, come sparò nel novembre 2009. I suoi processi sono finora 18. Quelli conclusi sono 14 (di questi uno è una condanna definitiva per frode fiscale, quello sui diritti tv Mediaset, e solo un altro è un’assoluzione con formula piena; quanto al resto, 2 sono assoluzioni con «formula dubitativa», e 10 sono assoluzioni dovute all’effetto delle leggi ad personam, tra legge Cirielli sulla prescrizione e depenalizzazione del falso in bilancio). Quelli ancora in corso sono 4: due di questi si sono conclusi con una condanna in primo grado (nastri Unipol e Ruby 1)
per altri 2 il procedimento è solo agli inizi (Ruby 2 e compravendita dei senatori a Napoli). Quanto alla condanna definitiva sui diritti tv Mediaset, la sentenza non è politica, poiché si riferisce a fatti che precedono la discesa in campo, e non c’è stata alcuna sottrazione al «giudice naturale »: l’assegnazione alla «Sezione feriale » della Cassazione, invece che alle sezioni seconda e terza, rientra nella normale applicazione della legge e della prassi. La procedura d’urgenza nella discussione delle cause è prevista dall’articolo 169 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e dal «decreto organizzativo» varato dalla stessa Corte
nel 2012.
5) L’evasione inesistente sui diritti tv
Sulla condanna nel processo Mediaset il Cavaliere si difende così: «Sono riusciti a condannarmi per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola… Io non ho commesso alcun reato, io sono assolutamente innocente…».
L’evasione fiscale, con la quale il gruppo Mediaset ha creato fondi neri necessari al pagamento di tangenti, non è affatto «inesistente». Secondo i giudici, che l’hanno confermato in tre gradi di giudizio, la frode fiscale effettivamente sanzionata si riferisce al biennio 2002/2003, ed ammonta a 7 milioni di euro. Ma quella originariamente contestata era pari a 370 milioni di dollari, perché risaliva indietro fino agli anni ’80. Se questa imputazione è caduta è solo grazie, ancora una volta, alle leggi ad personam, che hanno fatto cadere le accuse di appropriazione indebita e di falso in bilancio. Ma la frode fiscale, ormai, è “res iudicata”. Se questo è un innocente.
6) Forza Italia partito della tolleranza
Il mesto finale da Caimano attinge all’antico repertorio azzurro: «Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita e della famiglia, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari…».
Sul «valore della famiglia» come caposaldo etico-morale dei valori forzisti, la sentenza di condanna in primo grado per prostituzione minorile patita dal Cavaliere per la vicenda di Ruby, la «nipote di Mubarak », sembra raccontare tutt’altra storia. E non si tratta di intrusione nella vita privata, ma del dovere di un uomo pubblico di rendere conto dei propri comportamenti, soprattutto quando questi rivelano l’abuso e la dismisura. Sulla «tolleranza verso gli avversari», a parte la sterminata letteratura sui «comunisti che coltivano l’odio e l’invidia sociale» e i numerosi «editti» emessi per cacciare dalla Rai i vari Biagi, Santoro e Luttazzi, fa fede una frase memorabile che proprio Berlusconi pronunciò il 6 aprile 2006, all’assemblea di Confcommercio: «Non credo che ci siano in giro così tanti coglioni che votano per la sinistra…». Questo perché, oggi come allora, Forza Italia è «il partito dei moderati ». L’eterno ritorno. O, forse, l’eterno riposo.

La Repubblica 19.09.13

“Il Cavaliere dimezzato”, di Claudio Tito

Nel videomessaggio di Silvio Berlusconi, infarcito di vecchi slogan e consumati atti d’accusa, ci sono due parole che sono state appena accennate. Solo sussurrate ma centrali: decadenza e governo. L’impianto roboante di quel discorso, infatti, sembra costruito per nascondere due circostanze concrete. Che la sua uscita dal Parlamento, ossia la sua decadenza, ormai non è più in dubbio. E che l’esecutivo guidato da Enrico Letta per ora può andare avanti ma la sua scadenza è segnata dalla sostanziale fine di questa strana alleanza, ossia le larghe intese. L’orizzonte in cui si muove la nuova Forza Italia, infatti, è quello delle elezioni anticipate nella prossima primavera.
Aver accettato la prospettiva di abbandonare il Senato è dunque il mattone che regge l’intero impianto di questo intervento. Un discorso in cui il tratto della disperazione detta tutte le conseguenze. Sull’attuale governo, sul Pd e anche sul Pdl. Palazzo Chigi e il partito cui appartiene Letta rischiano infatti di ritrovarsi ancor più schiacciati dal peso di una coalizione innaturale. Il Cavaliere non rompe sulle sue vicende giudiziarie, non provoca la crisi sulla giustizia, ma ordina ai suoi ministri di creare le condizioni per determinare una frattura sulla politica economica. Ordina così ai suoi ministri di mettere a punto provvedimenti contro il “bombardamento fiscale”. Come se fino ad ora tutte le misure non fossero state condivise e mettendo nell’oblio della propaganda la circostanza che il centrodestra ha governato il Paese per 12 anni degli ultimi 19. L’effetto? È molto semplice. Il premier dovrà fare i conti da oggi in poi con una sorta di opposizione interna al suo governo. Con gli uomini di Forza Italia pronti a contestare la linea di Palzzo Chigi e dell’Economia. A cominciare dall’aumento dell’Iva. E se la prossima legge di stabilità avesse bisogno di rimediare la scelta di cancellare l’Imu per arrivare anche quest’anno al 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, gli uomini del Cavaliere faranno di tutto per boicottare qualsiasi soluzione “europea” e per cavalcare la campagna demagogica anti-tasse e anti-Bruxelles. Il Partito democratico e lo stesso Letta si ritroveranno a doversi difendere dall’alleato e a evitare di rimanere schiacciati su una linea “seria” ma impossibile da spiegare. Ingabbiato nella necessità di fare l’elogio del fisco mentre il centrodestra prepara già la campagna elettorale al grido “basta tasse”. A difendere il ministro dell’Economia Saccomanni mentre l’alleato riluttante ne minerà alla base la sua credibilità a Bruxelles. Una situazione che potrebbe appunto già prendere corpo la prossima settimana, quando il presidente del Consiglio potrebbe annunciare l’impossibilità di non aumentare l’Iva e quando il Consiglio dei ministri varerà la legge di stabilità.
Per il Pd c’è una difficolt à in più: è anche costretto a interrogarsi sulla sua capacità di reggere il patto con un interlocutore che parla di democrazia dimezzata attaccando i magistrati, che mina il sistema utilizzando le sue condanne passate in giudicato. E che chiama alla rivolta i cittadini.
Il punto è che in questo modo Berlusconi continua a bloccare l’intero sistema politico. Decade ma resta al suo posto, non apre la crisi di governo ma lo logora dall’interno. E di fatto si ripresenterà alle prossime elezioni come “capo della coalizione”. Rendendo di nuovo non contendibile il centrodestra italiano che non riesce a evolversi in uno schieramento di stampo europeo. In questo modo blocca qualsiasi sviluppo embrionale di un gruppo moderato. È stata nuovamente distrutta anche solo l’ipotesi che le “colombe” del Pdl germinassero un partito realmente moderato e non populista. Ha schiacciato ogni possibilità di ricambio al vertice del centrodestra. Decaduto o meno, sarà lui a comandare. E ora proprio nel suo partito scatterà la gara a chi sarà più berlusconiano in una sorta di consapevole metamorfosi che muta tutti in falchi. A cominciare dai ministri che dovranno dimostrare di essere fedeli. Il nucleo della nuova politica berlusconiana sarà ancora più evidente quando a dicembre emergerà l’esigenza – se la Consulta dichiarer à incostituzionale il Porcellum – di cambiare la legge elettorale. Farà di tutto – ritrovandosi paradossalmente in asse con Grillo – per scansare ogni riforma che tocchi il cuore del sistema inventato da Calderoli. Il Cavaliere è dimezzato dalla decadenza ma tenta di congelare il Paese in una sorta di gigantesco freezer politico.

La Repubblica 19.09.13

“Puntiamo tutto sull’innovazione.L’appello lanciato al Cnr per uscire dalla crisi”, di Emanuele Perugini

C’è uno spred molto importante di cui non parla quasi nessuno: è quello della cultura e della scienza. Negli ultimi cinque anni lo spread culturale dell’Italia con la Corea del Sud è salito a 430 punti: la percentuale dei giovani laureati nel paese che produce smartphone, elettrodomestici e automobili apprezzatissime in tutto il mondo è infatti del 64 per cento. In Italia è solo del 21 per cento. Nello stesso tempo gli investimenti italiani in ricerca sono crollati del 14 per cento così come l’occupazione dei giovani nelle fabbriche della conoscenza -ovvero gli iscritti all’Università sono scesi del 17 per cento. Le conseguenze di questi risultati sul Prodotto interno lordo, e sulla bilancia dei pagamenti sono disastrose: il deficit commerciale nel settore dell’alta tecnologia ha raggiunto punte dell’ordine del punto di Pil. Sono questi gli aspetti cruciali intorno ai quali è ruotata la discussione che si è svolta ieri mattina presso l’Aula Marconi della sede centrale del Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’occasione giusta per sollevare questo tipo di dibattito è stata la presentazione del libro scritto da Pietro Greco e da Bruno Arpaia per l’editore Guanda La Cultura si Mangia. Il titolo del libro è in sé una risposta alla famosa frase dell’ex Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti «con la cultura non si mangia» che ha segnato, nella sua assurdità, la linea politica ed economica tenuta dai governi italiani negli ultimi dieci anni, con qualche rara eccezione. A discuterne insieme ad uno degli autori un parterre ricco di uomini di scienza, tra cui anche il presidente del Cnr, Luigi Nicolais, e altri protagonisti del dibattito scientifico e culturale, come Carlo Bernardini e Rino Falcone, ma anche del mondo dell’impresa. Nel libro e durante il convegno sono stati snocciolati diversi dati ed esempi che smentiscono sistematicamente le affermazioni del ministro «innominabile» come è stato definito da Sergio Ferrari nel corso del suo intervento. Il problema però è che «quando quella frase venne pronunciata- ha spiegato Ferrari nessuno, salvo pochi ricercatori, si scandalizzò ed ebbe una dura reazione polemica contro il ministro, perché il partito di chi ritiene che con la ricerca e con la cultura non si mangia è davvero molto grande in questo paese». Eppure i dati illustrati dai due autori parlano chiaro: se l’economia italiana è in crisi la colpa è essenzialmente legata alla profonda crisi del nostro sistema produttivo, legata principalmente alla incapacità di investire in innovazione e in ricerca innovativa. «Purtroppo il nostro sistema di imprese -ha spiegato il Presidente del Cnr è sempre stato caratterizzato da una scarsa propensione a investire in ricerca e questo per una serie di ragioni storiche, tra cui anche la possibilità di svalutare la moneta. Inoltre quando erano fatti investimenti in questa direzione erano rivolti essenzialmente a ridurre i costi di produzione, e non a creare prodotti più appetibili sul mercato. Ora che non abbiamo più la possibilità di ricorrere alla svalutazione dobbiamo invece puntare tutto sull’innovazione e sulla capacità di innovare non solo i processi, ma anche e soprattutto i nostri prodotti. Ma non riusciamo a farlo spie- ga in termini sconsolati Nicolais -perché il nostro paese manca soprattutto di una classe dirigente che sia in grado di avere una visione di lungo periodo e che sappia mettere al centro del dibattito politico, non i personalismi dei vari protagonisti, ma i temi che sono stati illustrati in questo libro». Al termine della discussione è stato lanciato un appello che sarà presto pubblicato sul sito www.roars.it che punta a costruire una piattaforma politica di discussione intorno a questi temi. «È arrivato il momento -spiega Rino Falcone di mobilitarsi in maniera coerente e di rivendicare in maniera sistematica quali sono i veri obiettivi da perseguire».

L’Unità 18.09.13

“Ghizzoni: sui ‘Quota96’ non ci arrendiamo”, di Alessandro Giuliani

C’è tanta amarezza. Il personale della scuola che attendeva una deroga per liberarsi dalle sabbie mobili della legge Fornero stavolta ci credeva davvero. Tanti rappresentanti del nuovo Governo, compreso il ministro Carrozza, avevano speso parole di interessamento. I pareri delle commissioni parlamentari erano stati tutti a favore. Come le dichiarazioni di tanti esponenti politici oggi presenti sui banchi del parlamento Invece, per il secondo anno consecutivo, per migliaia di ‘Quota96’ (docenti e Ata con almeno 35 anni di contributi e 61 anni di età anagrafica) è arrivata la doccia fredda: le porte della pensione sono rimaste chiuse. E quelle della scuola, dopo la pausa estiva, si sono riaperte.
A mettersi di traverso, è stata la Ragioneria Generale dello Stato. Che, oltre a rilevare il problema della mancanza di fondi, tra i 100 e i 200 milioni di euro, ha fatto rilevare quanto sarebbe stato pericoloso concedere quella deroga: per gli economisti dalla PA il via libera alla scuola avrebbe scatenato la stessa rivendicazione da parte di centinaia di migliaia di dipendenti di altre amministrazioni. Con questa premessa era quasi inevitabile che anche la Commissioni Bilancio ponesse resistenze all’approvazione del disegno di legge. Per una parte dei ‘Quota96’ la delusione è stata tale da avviare un presidio permanente sotto Montecitorio.
Per capire cosa potrà accadere ora, se la questione è chiusa, abbiamo incontrato la deputata carpigiana Manuela Ghizzoni, (Pd) vicepresidente della commissione Istruzione alla Camera, da diverso tempo in prima linea per caldeggiare la causa e prima firmataria della proposta di legge sfumata sul filo di lana.

Onorevole Ghizzoni, partiamo dalla fine: è vero che o giochi non sono fatti?
Certamente. L’11 settembre è ripresa la discussione in Commissione Lavoro alla Camera. Si è partiti esaminando i punti critici messi in risalto dalla Commissione Bilancio. La relatrice, Antonella Incerti, ha chiesto che, arrivati a questo punto, gli approfondimenti del caso vengano affidati a un comitato ristretto: sarà composto da rappresentanti di tutti i componenti dei partiti, numericamente scelti in proporzione alla consistenza di eletti del loro schieramento. Un punto a favore è che tutti i commissari si sono pronunciati a favore di questa decisione dichiarandosi disponibili.

Quali sono le novità rispetto all’iter che ha portato al naufragio del suo disegno di legge?
Prima di tutto la relatrice ha chiesto che si faccia finalmente chiarezza sui numeri dei dipendenti della scuola coinvolti. Anche perché fino ad oggi ci sono state voci e opinioni discordanti. In particolare, il Miur ha quantificato la platea dei potenziali danneggiati dalla riforma Fornero in circa 3.500 docenti e Ata. A luglio, però, un’elaborazione fornita dall’Inps ha fatto schizzare questo numero a 9mila dipendenti coinvolti.

Chi ha ragione?
La questione è complessa. Di sicuro, però, si tratta di stime dovute all’analisi della serie storica dei pensionamenti dalla scuola. E non di numeri reali. Il Ministero dell’Istruzione, poi, ha fornito la quota limitandosi a coloro che avrebbero raggiunto i requisiti anagrafici al 31 agosto 2012, sebbene la normativa vigente preveda che il requisito anagrafico sia conseguito entro l’anno solare. A fronte della complessità della questione, la relatrice ha chiesto l’attivazione di una procedura che consenta di arrivare a dati certi e non più ipotetici.

Perché non è stato fatto prima?
Perché sino ad oggi, la discussione della proposta di legge è avvenuta contro il tempo, dando la priorità all’intenzione di mandare in pensione tutti gli interessati al 1° settembre 2013. Ora, invece, tramontata questa possibilità, i tempi per approfondire la questione ci sono: stiamo parlando di un anno.

Ma la ripresa in Parlamento dell’esame del suo ddl però è un progetto lungo e impegnativo. Non ci sarebbe un’altra strada per risolvere il problema degli “esodati” della scuola?
Certamente. Si può presentare un emendamento ad uno dei decreti all’esame del Perlamento oppure il Governo può intervenire inserendo la soluzione nella imminente legge di stabilità. Rispetto alla prima ipotesi, c’è un impegno dell’onorevole Boccia, parlamentare del Partito Democratico e Presidente della Commissione Bilancio. L’esperienza ci ha insegnato che occorre lavorare su questo obiettivo con particolare determinazione. Ma ogni nuova iniziativa parlamentare deve essere intrapresa, a mio avviso, solo se si ha la certezza di conseguire finalmente il risultato: le persone coinvolte in questa vicenda non potrebbero sopportare un ulteriore fallimento
Lo sa che in tanti ‘Quota96’ prevale lo scoramento?
Lo so ed è questa consapevolezza che mi fa affermare che ogni nostra nuova iniziativa deve essere assunta a fronte della certezza di un esito positivo. La loro delusione è comprensibile. Anche perché queste persone sanno bene che il legislatore, introducendo la riforma delle pensioni del 2011, ha commesso un grave errore: non tenere conto della specificità della scuola. E non mi riferisco solo all’unica finestra che docenti e Ata hanno per andare in pensione.
Quali altri aspetti non sono stati considerati?
Uno è sicuramente la possibilità di far lasciare il servizio a personale frustrato e avanti negli anni (l’Italia ha il personale scolastico più vecchio d’Europa). E nel contempo bloccare l’assorbimento nella scuola di personale più motivato. Anche a vincere quella sfida educativa che negli ultimi tempi ha assunto connotati sempre più complessi.

Si riferisce ad alcune categorie della scuola in particolare?
Penso, ad esempio, alle maestre d’infanzia. A donne che a 62-63 anni, anziché portare il nipotino al parco, vengono lasciate forzatamente in sezioni composte da oltre 20 bambini e con alunni al loro interno anche disabili. Ogni commento sarebbe superfluo.

Si tratta di ragioni sacrosante. Che il Pd, assieme ad altri partiti, hanno sempre messo in evidenza. Perchè non sono bastate?
Sulla vicenda il mio partito ha assunto un preciso impegno, che però non è stato onorato. Sono prevalse altre priorità, evidentemente, in un contesto politico ed economico innegabilmente difficile.

È un concetto difficile da far capire. Non pensa?
Io, personalmente, non ho mai illuso nessuno. Di sicuro, però, ci ho messo la faccia. E questo l’ho fatto presente anche al mio partito. A cui ho mandato un serio rimprovero.

Avete già in mente delle proposte concrete per sbloccare la questione tra un anno?
Occorre dare delle risposte ai quesiti in atto. E per farlo si potrebbe cominciare attribuendo maggiore equità nella rimodulazione dell’Imu. Ciò comporterebbe, peraltro, maggiore serenità economica e sociale al Paese.

La Ragioneria generale dello Stato la pensa diversamente: la scuola non giustifica deroghe per i suoi dipendenti.
Invece io dico che è giunto il momento di riflettere sulle specificità della scuola. E che non è un mio personale pensiero. Dico solo che di recente un giudice del lavoro ha considerato illegittimo l’obbligo di far permanere in servizio il personale proprio a causa delle peculiarità del mondo della scuola. Il problema è che all’ambiente formativo italiano, quindi in primis ai suoi operatori e dipendenti, tutti siamo abituati a chiedere solo doveri. Dimenticando che anche la scuola ha i suoi diritti.

La Tecnica della Scuola 18.09.13