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“Senza «tetto» legge pericolosa”, di Paolo Borioni

I lavori parlamentari sulla riforma del finanziamento ai partiti proseguono in questi giorni senza la dovuta attenzione. È grave. Colpisce come tutto accada in un sostanziale silenzio su alcune questioni democratiche decisive. Colpisce questo dibattito inconsapevole dei danni che una legge sbagliata sul finanziamento alla politica può arrecare al Paese. I grandi giornali non fanno altro che indicare l’«Europa» come imperativo categorico ad ogni sussulto o incertezza, ma mai nulla dicono sul fatto che il finanziamento pubblico rimane l’asse fondamentale di ogni democrazia europea.

Così facendo si oscura un processo parlamentare che, nella disattenzione generale odierna (o nella distorsione degli argomenti fino a qualche settimana fa) non pare ancora avere assicurato almeno due pregiudiziali, non negoziabili criteri di riforma. Il primo ed essenziale è indicare tetti il più possibile bassi per ogni donazione, tanto più nel caso già di per sé molto negativo, che le donazioni private rimangano l’unico strumento di sostegno all’attività politica. Il secondo è un divieto assoluto di dona- zioni indirette, ovvero il divieto di aggirare i tetti (se, speriamo, ci saranno) finanziando non i partiti direttamente ma delle campagne «volontarie» in loro favore, oppure in favore di qualche leader. Ma nulla si ode a questo riguardo.

È inquietante. Pare di tornare a vent’anni orsono, quando la crisi del sistema politico fu utilizzata per alimentare un dibattito che guardava ai sistemi politico-elettorali di tipo maggioritario-anglosassone, celando, o quasi, che i migliori risultati in termini di stabilità e di alternanza sono stati ottenuti nel continente europeo con sistemi non necessariamente maggioritari. Ne vediamo oggi i risultati. Anche nel caso della riforma del finanziamento pubblico siamo a questo punto: ignorare l’Europa quando non fa comodo tenerne conto. Viene ignorato per esempio che, pubblico o privato che sia il finanziamento, la corruzione impera se i partiti diventano la propaggine di poteri economici onnipotenti, perché la corruzione in questo modo diviene persino ovvia, implicita, legalizzata. La degenerazione invece si previene creando i presupposti per scacciare (una volta tanto) la moneta cattiva con quella buona. Si dica subito, senza indugi che nessuna donazione sopra i 2000 euro sarà accettata o legale. E si istituisca il co-finanziamento (40 centesimi per ogni euro raccolto in piccole donazioni, incluse le quote delle tessere) per ogni cifra raccolta dai militanti. In modo che le risorse siano per forza dichiarate apertamente. In modo che venga rivalutato il radicamento dei militanti che agiscono per passione, e venga dato loro in mano uno strumento potente, opposto alle carriere politiche fabbricate negli studi televisivi o dai grandi poteri finanziari.

Insomma, si dichiari che se il sistema passato va cambiato per i suoi eccessi, tuttavia è possibile, anzi indispensabile, usare le risorse pubbliche per costruire la democrazia nella trasparenza. Ne uscirebbero partiti molto più radicati nella loro base sociale, e intenti a rappresentarla e a frequentarla. Si scoprirà che la democrazia se ne giova grandemente, e che in pochi anni la popolarità dei partiti (partiti veri, autonomi, presenti nella società, non creature mediatiche) tornerà a crescere. Ma forse è proprio questo che qualcuno vuole evitare.

L’Unità 18.09.13

“Al pettine i nodi politici di vent’anni”, di Giovanni Orsini

La Corte di Cassazione, al termine di un contenzioso giudiziario durato anni e passato attraverso innumerevoli meandri, ha confermato ieri la condanna a Fininvest a pagare una cifra di circa mezzo miliardo di euro alla Cir di Carlo De Benedetti, come risarcimento per la vicenda del Lodo Mondadori. La notizia è uscita proprio mentre si attendeva che Berlusconi diffondesse un messaggio che, stando alle voci, avrebbe avuto un robusto contenuto politico e forse condizionato in profondità il futuro dello schieramento di centro destra. E oggi, infine, la questione della decadenza di Berlusconi da senatore, a motivo di un’altra condanna ottenuta anch’essa non come politico ma come imprenditore, affronterà il passaggio decisivo in giunta al Senato.

La confluenza di questi tre avvenimenti rafforza sempre di più l’impressione, viva da almeno un mese e mezzo, che nell’attuale sfortunatissimo torno di tempo siano venuti al pettine tutti o quasi i nodi politici irrisolti degli ultimi vent’anni. Una sorta di «tempesta perfetta». Fra i nodi più ingarbugliati troviamo naturalmente il conflitto di interessi: l’anomalia macroscopica di un imprenditore – e imprenditore televisivo! – di grossissimo calibro che si trasforma dalla sera alla mattina in un leader politico di calibro altrettanto rilevante, e lo resta per vent’anni. Sebbene occupi una posizione senz’altro centrale nel groviglio italiano, tuttavia, il conflitto di interessi non rappresenta un nodo, per così dire, primario. Pur essendo del tutto anomalo, insomma, non crea lo stato di anormalità (pure se, certamente, lo aggrava), ma deriva a sua volta da un evento anomalo precedente.

Ossia da Tangentopoli. Dall’improvviso e fragoroso collassare, privo di precedenti storici o di alcuna corrispondenza altrove in Europa, dei partiti di governo sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Partiti per altro che – lo si rammenti – ancora nell’aprile del 1992, un mese e mezzo dopo l’arresto di Mario Chiesa, erano riusciti a raccogliere milioni e milioni di voti. È stata Mani Pulite l’anomalia primaria che, aprendo una voragine paurosa sul centro destra del sistema politico italiano, ha reso possibile � �� potrebbe quasi dirsi, come fosse un buco nero, «risucchiato� � – l’anomalia secondaria berlusconiana. Le risorse del Cavaliere hanno così preso a svolgere una funzione straordinaria di supplenza in un’area politica rimasta ormai pressoché deserta. E gli elettori di centro destra – o forse meglio: quelli che non erano disposti a votare a sinistra – hanno accettato volenti (molti) o nolenti (non pochi) questa supplenza anche perché non avevano alternative. Dal 1994 a oggi insomma il centro destra italiano, che ha rappresentato milioni e milioni di elettori, ha vinto tre elezioni e governato il paese per quasi dieci anni, è potuto esistere unicamente grazie al conflitto di interessi. Una frase quest’ultima dalla quale, al solo leggerla, è possibile misurare tutta l’assurdità della situazione italiana.

Ma la conclusione (provvisoria?) della vicenda giudiziaria del Lodo Mondadori è emblematica per almeno altre due ragioni. Innanzitutto perché, affondando le radici in un epoca precedente a Mani Pulite, ci spinge a portare il ragionamento su un tempo ancora più lungo. E a riconoscere come la stessa Tangentopoli sia scaturita da cause ancora più antiche: ossia da una profonda crisi di coerenza, visione, determinazione, capacità progettuale della politica, che affligge la nostra repubblica da ormai molti decenni. Una crisi che la pervasività della politica nella società e nell’economia italiane ha reso ancora più grave, che Tangentopoli ha a sua volta notevolmente aggravato, e soprattutto che nessuno negli ultimi vent’anni è riuscito minimamente ad affrontare. Col risultato che la politica oggi è terribilmente fragile, forse più che mai, nuda e indifesa di fronte ai venti che soffiano da luoghi non politici – i tribunali, i media, le aziende.

La conclusione della vicenda Mondadori è emblematica, in secondo luogo, perché in questo caso la sconfitta di Berlusconi si specchia direttamente nella vittoria di De Benedetti. Ossia del gruppo editoriale l’Espresso. Ossia del più importante esponente mediatico dell’antiberlusconismo politico, saldamente collocato nel campo del centro sinistra e convinto sostenitore dell’operato dei giudici. Il tramonto del Cavaliere, se lo si guarda da questa punto di vista, non rappresenta un problema soltanto per il futuro centro destra, ma anche per il futuro centro sinistra. Che, una volta privato dell’identità e del collante antiberlusconiani, dovrà decidere quale nuova identità darsi, quale nuovo collante trovare. E soprattutto dovrà decidere se e come dare risposta alla crisi della politica della quale si diceva prima. La crisi per cui la politica si trova subordinata alle aziende. Ma anche ai media. E ai tribunali.

La Stampa 18.09.13

Rehn all’Italia “Sbagliato abolire l’Imu così rischiate”, di Luisa Grion

Il commissario Ue in Parlamento L’Iva verso l’aumento a ottobre I dati sulla nostra economia sono «deludenti», l’incertezza politica frena la ripresa e le iniziative che abbiamo assunto sull’Imu hanno creato grandi perplessità in Europa. Tanto più che l’uscita dalla crisi è una speranza, non ancora una certezza: sarà meglio renderci conto che, questa volta, il talento non basterà a salvarci e che senza una profonda «revisione del motore» resteremo fermi al box.
Ecco le considerazioni sull’Italia che Olli Rehn, vicepresidente della Commissione Ue, ha snocciolato ieri durante una audizione alla Commissione Bilancio della Camera, utilizzando una metafora automobilistica che non è bastata a contenere l’effetto doccia fredda. L’analisi del Commissario agli Affari economici ha fatto capire che – usciti dalla procedura d’infrazione – l’Europa non è convita della nostra capacità di rispettare gli impegni presi. Nonostante le rassicurazioni fornite del governo, che anche ieri, con il ministro dell’Economia Saccomanni, ha di nuovo ribadito l’impegno a contenere il deficit nel limite del 3 per cento del Pil.
Alcuni dei segnali offerti, non sono andati giù a Bruxelles e Rehn, per dirlo, non si è nascosto dietro mezze parole. «I dati dell’Italia sulla crescita economica sono deludenti – ha esordito – e l’incertezza politica frena gli investimenti e la ripresa». Non è piaciuta l’abolizione della prima rata Imu: «suscita preoccupazioni rispetto allo spostamento degli oneri fiscali dai fattori produttivi verso altri cespiti – ha commentato – sarà nostro dovere valutare l’effetto della service tax». C’è invece bisogno di incanalare gli sforzi verso il lavoro, per «accelerare il ritmo delle riforme per una ripresa sostenibile e per creare posti»: nell’Italia meridionale, come in Spagna e Grecia, ha fatto notare il Commissario, «i livelli di disoccupazione sono troppo elevati ».
Critiche condensate e rese esplicite attraverso un richiamo alla «rossa» di Maranello. «La Ferrari come l’Italia – ha riconosciuto Rehn – incarna una grande tradizione di stile e capacità, anche tecnica. Ma per poter vincere bisogna avere un motore competitivo, bisogna essere pronti a cambiare, adeguarsi. L’Italia è la terza economia per grandezza in Europa e il suo motore di crescita non può andare a basso regime, ha bisogno di un’urgente revisione: non si può perdere tempo al pit stop». Spero che il Paese «guidi con due mani sul volante e rimanga fermamente in pista» ha quindi concluso.
Un paragone al quale il presidente della «rossa», Luca di Montezemolo, ha subito replicato: «L’Italia è come è più della Ferrari , è un Paese ricco di eccellenze, storie e talenti» ha detto. «Ma per avere successo devono esserci risorse da investire e una squadra che abbia le idee chiare». Un richiamo diretto al governo «che deve mostrare le sue capacità di produrre un piano», ma anche all’Europa che «non deve coltivare il mito del rigore quando è fine a se stesso», L’analisi del Commissario è piaciuta ancor meno al Pdl: dal vicepremier Alfano («basta con questa Europa che alza sempre il ditino») al vicepresidente del Senato Gasparri. «E’ ora di finirla con i caporali di giornata come questo Olli Rehn – ha detto – E’ una persona sgradita, prenda l’aereo, torni a casa e paghi tutte le tasse che vuole». Parole che hanno suscitato una ridda di polemiche e spaccature all’interno della maggioranza di governo e una telefonata di solidarietà da Monti allo stesso Rehn contro «l’inqualificabile » attacco.

La Repubblica 18.09.13

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“Iva verso l’aumento a ottobre altrimenti resta la tassa sulla casa”, di ROBERTO MANIA

A un passo dall’aumento dell’Iva. Dal primo ottobre l’aliquota al 21 per cento salirà al 22. È uno scenario che al ministero dell’Economia danno ormai pressoché per scontato. «O si finanzia l’abolizione dell’Imu — dicono fonti autorevoli di Via XX settembre — o si finanzia il blocco dell’aumento dell’Iva. Entrambe le cose non sono possibili».
E d’altra parte è stato il premier Enrico Letta a dichiarare solo un paio di giorni fa che la partita del-l’Iva «è complicata». Più o meno la diplomatica ammissione che si lascerà scattare l’incremento. Il titolare dell’Economia, Fabrizio Saccomanni la pensa allo stesso modo. Infatti negli ultimi giorni non ha speso una parola sull’Iva mentre si è prodigato nello spiegare la strategia, suggerita anche da Bruxelles e dagli organismi internazionali, dall’Ocse al Fondo monetario, di alleggerire il peso del fisco sul lavoro e le imprese per intercettare un po’ la ripresa ma anche per attrarre gli investimenti esteri. Tanto che proprio il taglio del cuneo è tra le 35 misure previste nel pacchetto “Destinazione Italia” che il Consiglio dei ministri dovrebbe varare venerdì con la costituzione di una società per azioni proprio per accompagnare gli investitori.
I tecnici del ministero stanno cercando le coperture (per l’Iva serve un miliardo fino alla fine dell’anno), simulano le possibili soluzioni, ma la conclusione è sempre la stessa: i soldi non bastano. L’abolizione della seconda rata dell’Imu (2,4 miliardi circa) è per ora soltanto un impegno del governo. Non è scritta da nessuna parte mentre l’aumento dell’Iva, che riguarderà tantissimi prodotti, dal vino agli elettrodomestici, è già legge.
E se tra tredici giorni l’aliquota dell’Iva passerà al 22 per cento, appare del tutto scontato che nella rimodulazione complessiva delle aliquote prevista per il 2014, il governo non tornerà indietro. Insomma i circa quattro miliardi che sarebbero stati necessari per mantenere strutturalmente l’Iva al 21 per cento verranno dirottati alla riduzione del cuneo fiscale e contributivo. Poi sarà tutto da vedere come verrà realizzato il taglio. Di certo, vista l’esperienza precedente del 2007 con il governo Prodi, 4-5 miliardi di taglio sarà difficilmente percepibile delle imprese e soprattutto dei lavoratori nelle loro buste paga. Più soldi, tuttavia, non ce ne sono. Per questo è possibile che si profili una soluzione molto light: riduzione del cuneo solo per i neo assunti a tempo indeterminato. Probabilmente a favore dei giovani come già gli incentivi, che diventeranno pienamente operativi con una prossima circolare dell’Inps, per le assunzioni dei lavoratori tra i 18 e i 29 anni, disoccupati da almeno sei mesi e con il solo titolo di scuola media inferiore. Vedremo.
Di certo sull’Iva e sul cuneo si fronteggiano i due partiti delle larghe intese, con qualche accenno di trasversalità, e con relative lobby a fianco (industriali per il taglio del cuneo, commercianti per quello dell’Iva). Il Pdl vuole innanzitutto l’Iva. Anche in campagna elettorale criticò la proposta della Confindustria di spostare il carico fiscale dalle persone e le imprese alle cose. Il Pd ha sposato la linea Letta-Saccomanni per quanto con qualche dissenso. Per esempio quello del vice ministro dell’Economia, Stefano Fassina, a favore del blocco dell’aumento dell’Iva per i possibili effetti recessivi che altrimenti si determinerebbero, e freddo sul cuneo data la carenza delle risorse. Anche il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, si è mostrato più sensibile di altri alle posizioni delle lobby dei commercianti. Un braccio di ferro tra il partito dei consumi e quello dei produttori. Anche se — dice Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi della Confcommercio — «l’Iva non è altro che il cuneo fiscale sui consumi ». «E comunque — aggiunge — se scatterà l’aumento dell’aliquota vorrà dire che “scomparirà” uno 0,1 per cento di consumi potenziali. Più che la ripresina vedremo una stagnazione».

La Repubblica 18.09.13

“Scuole italiane fatiscenti e pericolose. Palestre e bagni i luoghi più sporchi”, da repubblica.it

Nell’XI rapporto sullo status degli istituti scolastici di Cittadinanzattiva i numeri parlano chiaro. I problemi più grandi riguardano la manutenzione dei plessi, la presenza di barriere architettoniche e sovraffollamento delle aule. Intanto si aspetta l’Anagrafe dell’edilizia scolastica per sfruttare al meglio i fondi. Le scuole italiane cadono a pezzi. Tra problemi di manutenzione e strutture inadeguate, quello disegnato dall'”XI Rapporto su sicurezza, qualità e comfort degli edifici scolastici” da Cittadinanzattiva, che già in passato è stata protagonista di indagini sul tema, è un quadro in chiaro e scuro. Lo studio che ha interessato 165 scuole in 18 regioni (tutte tranne Liguria e Valle d’Aosta), ha evidenziato le anomalie dei plessi italiani che spesso, da luogo di formazione, si trasformano in potenziali pericoli. Sono infatti 29 le tragedie sfiorate quest’anno a causa di crolli di diversa entità.

Se da un lato sono aumentati gli istituti che possiedono le certificazioni richieste dalla legge (lo scorso anno solo un quarto delle scuole era in regola con tutte le certificazioni), dall’altro è andato via via peggiorando il loro stato. ll 39% delle scuole presenta una manutenzione del tutto inadeguata (lo scorso anno era il 21%). L’84% ha richiesto dei lavori di mantenimento, ma nel 21% dei casi l’ente interessato ha risposto con estremo ritardo. Mentre il 34% ha sollecitato degli interventi strutturali, che richiedono più soldi e tempo, ma solo in un caso su quattro dall’ente proprietario c’è stata una risposta tempestiva e nel 14% dei casi non è stato preso nessun provvedimento.

Non sempre andare a scuola “fa bene”, soprattutto se temperature e aerazione non sono adeguate. Nel 51% delle aule non ci sono tapparelle o persiane e il 28% ha le finestre rotte. Oltre il 10% delle sedie e dei banchi è rotto e in più di un terzo dei casi (39%) gli arredi non sono a norma, adeguati ad esempio all’altezza degli alunni.

Oltre alla manutenzione, anche il sovraffollamento e le barriere architettoniche sono problemi ancora irrisolti. Una classe su 5 ha più di 25 alunni, dunque non è adeguata alla normativa antincendio. E pur applicando l’ art.64 della legge 133/2008, che ha innalzato il limite di alunni per classe, sono state riscontrate 47 classi fuorilegge. I dati sono allarmanti anche per i 207.244 ragazzi disabili che quest’anno frequenteranno gli istituti italiani. Per dare l’idea del disagio basta sapere che il 44% delle aule non ha banchi adatti per una persona in carrozzina e nel 57% dei casi, non ci sono in aula attrezzature didattiche o tecnologiche per facilitare la partecipazione alle lezioni.

Sembra quasi un paradosso, ma nelle scuole il luogo più sporco è la toilette. Priva di sapone nel 41% dei casi, di asciugamano nel 53%, di carta igienica nel 50%. Ma anche la palestra non gode un buono stato di salute. Il 28% delle scuole non ne possiede una all’interno dell’edificio. Dove presenti, nel 19% dei casi presentano distacchi di intonaco, muffe ed infiltrazioni (24%), barriere architettoniche (18%), fonti di pericolo (23%), nell’8% dei casi non hanno alcun tipo di attrezzatura e quasi una su due (44%) è priva di cassetta di pronto soccorso.

Per migliorare lo stato delle scuole il Governo, con il decreto del Fare, ha annunciato che nel prossimo triennio saranno elargiti circa trecento milioni di euro. “Pur apprezzando il grande sforzo compiuto dall’attuale Governo – ha dichiarato Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale della scuola di Cittadinanzattiva – è poca cosa rispetto al reale fabbisogno. Basti pensare che il costo di un edificio scolastico di media dimensioni, antisismico, energetico, a norma costa 5 milioni di euro”. Bizzarri si scaglia poi sulla lentezza delle istituzioni nel creare un’anagrafe scolastica per gestire agilmente e in modo mirato i fondi da destinare alla ristrutturazione degli edifici.

Quest’anno le famiglie italiane hanno elargito circa 390 milioni di euro sotto forma di contributo volontario o donazione di materiali e beni per supportare la scuola italiana. ” L’anagrafe – ha concluso Bizzarri – è indispensabile alle famiglie per sapere in quali scuole si recano ogni giorno i nostri figli. Per questo siamo ricorsi alla procedura di accesso civico agli atti nei confronti del Ministero dell’Istruzione che, entro 30 giorni dovrà risponderci in merito all’anagrafe. A tutela soprattutto dei più piccoli e degli studenti con disabilità, penalizzati più degli altri dalle pessime condizioni degli edifici scolastici”.
da www.republica.it

Scuola. Ghizzoni (Pd), escludere spese per edilizia dal patto di stabilità interno

“Rendere finalmente operativa l’Anagrafe dell’edilizia scolastica quale strumento principale di conoscenza e programmazione ed escludere dal Patto di stabilità degli Enti locali le spese di intervento per edilizia scolastica”. Lo dice Manuela Ghizzoni, deputata del Pd e vice presidente della commissione Cultura della Camera intervenendo alla tavola rotonda organizzata da Cittadinanzattiva per la presentazione dell’11esimo rapporto su “Sicurezza, qualità, accessibilità a scuola”.

“Un primo passo è stato compiuto nel recente decreto sulla scuola – prosegue Ghizzoni -, nel quale sono messi a disposizione delle Regioni 40 milioni per la stipula di mutui trentennali per finanziare interventi in materia di edilizia scolastica con oneri di ammortamento a carico dello Stato. Si è quindi intrapreso un cammino che non può essere arrestato e che nella prossima legge di stabilità deve trovare una definitiva conferma. Come sempre il lavoro di Cittadinanzattiva è prezioso. In passato non è sempre stato utilizzato dalla politica ma oggi possiamo osservare con piacere che le cose stanno cambiando. Il Governo Letta invertendo la tendenza degli ultimi anni, ha deciso di stanziare fondi per l’edilizia scolastica”.

“Che il patrimonio edilizio scolastico italiano sia vetusto – prosegue Ghizzoni -, è cosa nota. Secondo i dati forniti dallo stesso Ministero dell’Istruzione, proprio nel corso di un’audizione tenutasi a luglio in Commissione su richiesta del Pd, il 44% delle scuole italiane è stato costruito tra il 1961 e il 1980, il 42% degli edifici è privo del certificato di agibilità e solo il 17,7% è in possesso di quello di prevenzione incendi. Bisogna intervenire e presto, e credo che il modello emiliano della ricostruzione post-sisma possa essere preso come esempio da seguire. Penso, quindi, che debbano fare scuola le modalità messe in atto in Emilia per fare bandi di gara europei con procedura accelerata, per costruire con attenzione ai materiali utilizzati, alla sicurezza, al superamento delle barriere architettoniche, all’efficientamento energetico, alle esigenze della moderna didattica e all’estetica”.

“Riva non paga i fornitori, la crisi sociale si aggrava”, di Massimo Franchi

Se lunedì era stata la giornata delle« pressioni del governo sulla Riva Acciaio, ieri è stato il giorno dei contatti fra azienda, garante e Procura di Taranto. Contatti che però non hanno portato ad uno sblocco della situazione, che rimane sempre intricata con tempi che si allungano. Con conseguenze che si allargano ora dopo ora. E che ieri hanno colpito i fornitori del gruppo.

TELEFONATE ED INCONTRI Dopo l’incontro Zanonato-Ferrante (a cui ha partecipato anche l’amministratore unico Cesare Riva, unico esponente della famiglia non sottoposto a provvedimenti cautelaci) di lunedì sera, ieri il ministro dello Sviluppo e il presidente del gruppo hanno contattato in momenti diversi il custode dei beni cautelari, Mario Tagarelli. La speranza che potesse dare risposte positive sull’uso dei conti correnti e sulla ripresa dell’attività aziendale (possibile sia per la Procura che per il governo) è presto svanita. È stato proprio il commercialista nominato dalla Procura ad informarli dei ritardi. Il verbale di immissione in possesso dei beni sequestrati non gli è ancora stato notificato. I militari della Guardia di Finanza sono ancora al lavoro e non potranno notificarglielo prima della prossima settimana. Si tratta di un documento necessario per tentare di sbloccare la situazione. La Guardia di Finanza sta stilando in dettaglio l’elenco dei beni (azioni, quote sociali, cespiti aziendali, partecipazioni in portafoglio e denaro in contanti) finiti sotto sigilli sulla base del decreto di sequestro preventivo per equivalente, finalizzato alla confisca, sino alla somma di 8,1miliardi di euro, firmato dal gip del tribunale di Taranto Patrizia Todisco il 22 maggio. L’ormai consueta nota giornaliera del gruppo Riva Acciaio ieri riguardava invece il pagamento dei fornitori. «Dal sequestro preventivo del Gip di Taranto discende l’impossibilità di proseguire nell’attività che è conseguentemente in via di cessazione e impedisce di provvedere al ciclo dei pagamenti nei confronti di tutti i fornitori della società (oltre che dei dipendenti)». Una situazione ormai insostenibile per tutto il comparto dell’acciaio tanto che ieri è arrivato il grido di dolore del presidente di Federacciai Antonio Gozzi. «La situazione del blocco delle imprese di Riva Acciaio, provocata dai provvedimenti di sequestro emanati dalla magistratura di Taranto e non da una decisione di serrata da parte del gruppo Riva – sottolinea polemicamente Federacciai – ha suscitato enorme preoccupazione nei produttori italiani di acciaio che vedono in questo episodio un grave attacco alla libertà delle imprese che si trovano in una situazione di grandissima difficoltà ». Federacciai ha quindi chiesto «un incontro urgente con il presidente del Consiglio, Enrico Letta, e con il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, per rappresentare loro la preoccupazione del comparto e per sollecitare una rapida soluzione del caso». La decisione di non pagare i fornitori viene fortemente criticata dalla Cna. Per la Confederazione nazionale degli artigiani «è un atto irresponsabile – commenta il segretario generale, Sergio Silvestrini – che mette sul lastrico migliaia di piccole imprese che forniscono ogni giorno i servizi agli stabilimenti del gruppo».

SINDACATI UNITI: STOP A SERRATA La risposta dei sindacati è unitaria, sebbene rimangano le differenze di posizione sul tema del commissariamento, con Fiom favorevole e Fim e Uilm più tiepide che la considerano (come il governo) un’extrema ratio. «La serrata effettuata deve essere ritirata. Il governo adotti tutti i provvedimenti necessari a copertura e tutela del reddito dei lavoratori e del loro lavoro per l’oggi e per il futuro», affermano Fim, Fiom e Uilm in una nota congiunta. La decisione assunta dal gruppo Riva, sottolineano i sindacati, «rischia di distruggere, attraverso danni incalcolabili, la meccanica e la componentistica, per questo va respinta con forza. Non possiamo accettare che il prezzo di questa contrapposizione sia a carico dei lavoratori». «Dell’ acciaio e della siderurgia il Paese ha e continuerà ad avere bisogno e questo richiede che il gruppo Riva e Ilva Spa, facciano quelle scelte industriali e quegli investimenti per dare prospettiva e futuro a tutti gli stabilimenti. Fermare gli stabilimenti così come ha fatto irresponsabilmente il gruppo Riva produce come effetto, oltre che il danno ai lavoratori, quello di portare acqua al mulino dei competitor. Qual è il gioco messo in atto dai Riva?», si chiedono infine i sindacati. Oggi intato sono previste altre nuove grandi manifestazione di protesta a Cuneo, Brescia, Verona a soli due giorni da quelle di lunedì. Intanto non è ancora stata convocata la già annunciata riunione al ministero del Lavoro per dar il via libera alla Cassa integrazione straordinaria per i 1.400 operai dei sette stabilimenti Riva Acciai.

L’Unità 18.09.13

“La corruzione come metodo”, di Massimo Giannini

I bardi della corte di Arcore, ancora una volta, la sparano grossa. Gridano al «golpe rosso », all’«attacco concentrico», all’«esproprio proletario». Molto più banalmente, depurate dal falso ideologico e politico al quale ci ha abituato la propaganda populista e vittimista del quasi Ventennio berlusconiano, le motivazioni della Cassazione sul Lodo Mondadori sono solo l’ovvia conseguenza civilistica di una verità giudiziale ormai acquisita. Una verità definitiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a questo punto diventa anche storica. Una verità che sveste il Sovrano di tutti i suoi finti orpelli e i suoi falsi scudi. E lo espone, nudo, di fronte alla legge e al Paese.
Cos’altro deve accadere, perché si debbano considerare vere e non più contestabili le accuse provate in ben sei gradi di giudizio, e infine sanzionate con una condanna dalla Corte d’appello di Milano il 9 luglio 2011? A cos’altro ci si può appigliare, per contestare quella sentenza esemplare in cui ora la Cassazione, trova come unico e paradossale «difetto» quello di essere «fin troppo analiticamente argomentata »? Eppure non basta, ai falchi e alle colombe del Pdl che insieme ai familiari difendono il Capo, in una rituale confusione di ruoli in cui come sempre il partito si fa azienda e l’azienda si fa partito.
I GIUDICI di allora, come quelli di oggi, hanno scritto e ampiamente dimostrato due dati di fatto oggettivi, e non più controvertibili. Il primo: nella contesa che nel 1991 portò il gruppo Mondadori nelle mani del Cavaliere si produsse un episodio gravissimo di corruzione di magistrati, di cui Berlusconi fu l’ideatore iniziale e Previti l’esecutore materiale. Il secondo: se quel reato corruttivo non si fosse verificato, la casa editrice di Segrate sarebbe rimasta a pieno diritto nella proprietà del gruppo De Benedetti (editore di questo giornale).
Basterebbe questo a dare la misura dell’enorme responsabilità penale che, nella vicenda specifica, grava sulle spalle della sedicente «vittima» del «complotto» e giustifica il risarcimento danni cui è adesso costretto. Ma qui c’è molto di più. Nelle carte del Lodo Mondadori come in quelle delle altre sentenze passate in giudicato (da All Iberian ai diritti tv Mediaset) c’è riassunto lo stigma dell’intera parabola berlusconiana, e insieme il paradigma della sua avventura imprenditoriale e politica. Un vero e proprio «metodo di governance » (e poi anche di governo), che risale a molti anni prima dell’epica «discesa in campo» del ’94 ed è in buona parte alla base delle fortune iniziali del tycoon della televisione commerciale, fin dai tempi dei primi decreti «ad aziendam » varati dall’amico Craxi negli anni ’80. Un «sistema di potere» collaudato, in cui gli affari privati si mescolano agli interessi pubblici. Gli strumenti della mala-finanza sono usati per assicurarsi i buoni uffici della mala-giustizia. Il Cavaliere evade il fisco, crea fondi neri, realizza falsi in bilancio. Tutto serve per alimentare una «provvista» segreta, con la quale si comprano magistrati compiacenti e finanzieri renitenti, e poi anche faccendieri senza scrupoli e parlamentari senza vergogna.
LA GUERRA DI SEGRATE E IL “DOMINUS” DELLA CORRUZIONE
Nella guerra di Segrate «l’apparato corruttivo » berlusconiano dispiega tutta la sua geometrica potenza. All’inizio degli anni ’90 la contesa tra due industriali per il possesso della Mondadori volge a favore di De Benedetti, dopo che un collegio di arbitri gli assegna la titolarità della maggioranza delle azioni della casa editrice. Berlusconi impugna il Lodo davanti alla Corte d’Appello di Roma. E qui, nel «porto delle nebbie» della Capitale, accade il misfatto. Il giudice relatore Vittorio Metta deposita una sentenza di 167 pagine (scritta non da lui ma da «ignoti», pare nello studio Previti) che
sovverte il Lodo e riassegna la Mondadori al Cavaliere. Si scoprirà poi, più di dieci anni dopo, che quella sentenza Berlusconi l’ha comprata, facendo depositare 400 milioni di lire sul conto di Metta, attraverso i buoni uffici di Previti. Anche questa è una verità giudiziale, scritta in una sentenza passata in giudicato, dopo le pronunce della Corte d’Appello di Milano del 23 febbraio 2007 e della Cassazione il 13 luglio dello stesso anno.
Quella condanna penale costa la galera a Previti e agli avvocati Acampora e Pacifico. Berlusconi si salva solo perché, nel frattempo, è già diventato presidente del Consiglio nel 2001, e ha fatto approvare dal Parlamento un paio di leggi che gli servono a salvare la faccia e la poltrona. A lui, premier, i magistrati di secondo grado applicano la pena della «corruzione semplice » (non quella «aggravata» che invece inchioda Previti) e gli riconoscono le «attenuanti generiche». Grazie a queste, e alla nuove norme che nel frattempo hanno accorciato i tempi della prescrizione, il Cavaliere è riconosciuto a tutti gli effetti colpevole, ma non viene condannato perché il reato è ormai prescritto. Lo schema è sempre il solito. Ed è lo stesso che, attraverso l’abuso autoritario del potere esecutivo e l’uso gregario del potere legislativo, lo salva dalle sanzioni del potere giudiziario. È andata quasi sempre così: dal processo Sme-Ariosto a Mills, dal processo Mediatrade a All Iberian 1.
Di fronte a tutto questo, solo i teoreti bugiardi della Grande Menzogna possono gridare al «tentativo di annientamento totale» del Cavaliere ad opera delle toghe politicizzate. Sulla base di quelle sentenze penali, la giustizia civile non fa altro che il suo corso. I giudici della Cassazione non possono che ribadire solennemente le due evidenze che già decretarono quelli della Corte d’Appello due anni fa. Prima evidenza: Berlusconi è «il corruttore », perché è stato «indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate
da altri sodali», e Previti è l’ufficiale pagatore, perché «doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale», al punto che tra le sue varie incombenze «rientravano anche l’attività di corruzione di alcuni magistrati». Seconda evidenza: la corruzione del giudice Metta ha privato De Benedetti non solo e «non tanto della chance di una sentenza favorevole, ma senz’altro della sentenza favorevole». La posta perduta dalla Cir, in altri termini. È stata molto più grande della «chance »: è stata la Mondadori stessa, perché secondo la Corte «con Metta non corrotto l’impugnazione del lodo sarebbe stata respinta».
Questo passaggio, ormai «res iudicata », rende risibile l’ira di Marina Berlusconi, che tuona contro l’«autentico esproprio politico» e l’accanimento di «una certa magistratura» che «assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, tentano di eliminare dalla scena politica» suo padre. La politica, in questa vicenda processuale
come nelle tante altre che lo riguardano, non c’entra nulla. Il Cavaliere paga in denaro per i reati comuni che ha commesso quando era solo un imprenditore e l’epifania di Forza Italia era ancora di là da venire. Paradossalmente, Marina avrebbe quasi ragione quando sostiene che Fininvest non «deve un euro» alla Cir. Perché gli dovrebbe molto di più: cioè la Mondadori stessa, quella di allora, con tutto il potenziale economico e finanziario che rappresentava e avrebbe potuto rappresentare nell’arco di questi vent’anni. Un’occasione persa per sempre. Per questo, riafferma la Cassazione, il danno subito dalla Cir è «ingiusto».
IL SISTEMA DI POTERE E L’ESSENZA DEL BERLUSCONISMO
Ma il Lodo Mondadori è solo un capitolo di una «narrazione» molto più vasta, e molto più inquietante. Come ha scritto Giuseppe D’Avanzo su “Repubblica” il 10 luglio 2011, questa vicenda giudiziaria, insieme a tutte le altre che lo hanno visto e lo vedono ancora coinvolto, riflette il rifiuto delle regole e il disprezzo della legge che il Cavaliere ha sempre dimostrato, da imprenditore illiberale e poi anche da leader di una destra anti-costituzionale. È lui il simbolo dell’Italia tangentara degli anni ’80 e ’90, e poi dell’Italia corrotta del nuovo millennio. Il meccanismo corruttivo è intrinseco alla gestione aziendale, ed è quasi consustanziale al raggiungimento dei risultati. Va al di là del solito principio secondo il quale il Cavaliere «non poteva non sapere». Scrive la Cassazione: «Un’analisi ricomposta dell’intera vicenda (costituzione della provvista all’estero ed utilizzo della stessa a fini corruttivi) consentiva di concludere in termini di consapevolezza necessaria di quanto andava accadendo in capo al dominus societario».
Qui, come sui diritti tv Mediaset, è sempre lui il «dominus», che architetta e sovrintende al sistema. E lo fa con una logica ferrea, che D’Avanzo ricostruiva ricordando la sentenza Mills, l’avvocato inglese che per conto e nell’interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento diretto e personale crea e gestisce «64 società estere offshore del “group B very discret” della Fininvest», dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per l’approvazione della legge Mammì. I 91 miliardi destinati a politici «ignoti» (che «costano molto perché è in discussione la legge Mammì»). E ancora il controllo illegale
dell’86% di Telecinco. L’acquisto fittizio di azioni per conto di Leo Kirch. Le risorse destinate appunto da Previti per la corruzione di Metta nel Lodo Mondadori. Gli acquisti di azioni che in violazione delle regole favorirono le scalate a Standa e Rinascente. All’elenco di allora si potrebbero aggiungere ora i miliardi spesi nel frattempo per comprare i silenzi dei Tarantini e i Lavitola, spacciatori di olgettine nelle «cene eleganti» di Palazzo Grazioli e Villa Certosa, o per comprare i voti dei De Gregorio e altri «responsabili», congiurati necessari per far cadere il governo Prodi nel 2008.
Eccola, al fondo, la vera essenza del berlusconismo. Un potere che sfrutta senza scrupoli la sua funzione pubblica, con l’unico scopo di proteggere i suoi affari privati. Aspettiamo l’alba di un nuovo video-messaggio, per capire se lo Statista di Arcore farà saltare il tavolo. Ma intanto assistiamo basiti al suo ultimo, disperato travestimento: il ladro che si urla perché l’hanno «rapinato».

La Repubblica 18.09.13