Latest Posts

Edilizia scolastica, Ghizzoni “Esportiamo il modello post-sisma”

Viene presentato domani a Roma il rapporto su “Sicurezza, qualità, accessibilità a scuola”. La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni sarà uno dei partecipanti alla tavola rotonda organizzata dall’onlus Cittadinanzattiva nell’ambito della presentazione dell’11esimo rapporto su “Sicurezza, qualità, accessibilità a scuola”, programmata per la mattinata di mercoledì 18 settembre a Roma, a Palazzo Marini. “Credo che si debba fare della ricostruzione post-sisma delle scuole emiliane un modello esportabile – spiega l’on. Ghizzoni – Non è un caso che siano stati invitati a parlare anche i nostri ingegneri, che saranno auditi, in un secondo momento, pure in Commissione alla Camera”.

Fare della ricostruzione post-sisma delle scuole emiliane un modello esportabile, non solo in situazioni di emergenza, ma anche nella normale programmazione per la manutenzione, ristrutturazione e il rinnovo del patrimonio edilizio scolastico italiano: è la proposta che la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Istruzione della Camera dei deputati, porterà, nella mattinata di mercoledì 18 settembre, alla discussione dei partecipanti della tavola rotonda organizzata dalla onlus Cittadinanzattiva, a Roma, nell’ambito della presentazione dell’11esimo rapporto su “Sicurezza, qualità, accessibilità a scuola”. “Come sempre il lavoro di Cittadinanzattiva è lodevolissimo e prezioso – spiega Manuela Ghizzoni – In passato non è sempre stato utilizzato dalla politica, ma vedo con piacere che le cose stanno cambiando. Noi per primi, come gruppo Pd in Commissione Cultura e Istruzione, abbiamo avviato un’apposita indagine conoscitiva su questi temi. Il Governo Letta, poi, invertendo la tendenza degli ultimi anni, ha deciso di stanziare fondi per l’edilizia scolastica”. Che il patrimonio edilizio scolastico italiano sia vetusto, è cosa nota. Secondo i dati forniti dallo stesso Ministero dell’Istruzione, proprio nel corso di un’audizione tenutasi a luglio in Commissione alla Camera su richiesta del gruppo Pd, il 44% delle scuole italiane è stato costruito tra il 1961 e il 1980, il 42% degli edifici è privo del certificato di agibilità e solo il 17,7% è in possesso di quello di prevenzione incendi. “Bisogna intervenire e presto – spiega Manuela Ghizzoni – e io credo che il modello emiliano della ricostruzione post-sisma debba e possa essere preso come esempio da seguire. Abbiamo costruito 58 scuole in meno di tre mesi. Abbiamo potuto contare su procedure più accelerate, è vero, ma non abbiamo derogato alle leggi di controllo e alle garanzie previste per la sicurezza. Semplificare le procedure ma non deregolare, insomma, poiché al modello Bertolaso abbiamo sacrificato già troppo tempo e denaro. Il nostro modo di fare i bandi, di costruire con attenzione ai materiali utilizzati e all’ambiente, penso, debbano fare scuola. Non è un caso che, alla stessa tavola rotonda, a cui prenderò parte domani sia stata invitata anche Manuela Manenti, responsabile unico del procedimento per gli interventi su edifici scolastici temporanei e prefabbricati modulari nella ricostruzione post-sisma in Emilia Romagna”. Per fare tutto questo però occorre una premessa: “Abbiamo la necessità – conclude Manuela Ghizzoni – di escludere dal Patto di stabilità degli Enti locali le spese di intervento di edilizia scolastica: in questo modo gli stessi Enti locali sarebbero spinti a tenere sempre pronti progetti di intervento”

«Faccio un figlio e mi metto in proprio» La spinta delle mamme imprenditrici, di Elvira Serra

Sono il fattore D della ripresa economica. Le donne imprenditrici stanno aumentando a un passo triplo rispetto agli uomini. E se non si riesce ancora a quantificarne l’incidenza sul Pil, tutti assicurano che la ripresa passa anche da lì. In Italia e all’estero. In Inghilterra è di due giorni fa la notizia, uscita sul Sunday Times, che le mumpreneurs, le mamme che si sono messe in proprio dopo la nascita dei figli, hanno dato una spinta al rilancio economico. Ed è significativo che siano donne il 63 per cento di chi frequenta i corsi di StartUp Britain, la campagna del governo per neoimprenditori. «Il segreto sta nella creatività abbinata alla flessibilità», aveva spiegato in un’intervista alla 27esimaOra l’autrice di The End of Men, Hanna Rosin.

Da noi questa creatività si è espressa con oltre diecimila imprese «rosa» in un anno. Unioncamere ha calcolato che in dodici mesi, da marzo 2012 al marzo successivo, le imprese femminili sono arrivate a un milione 424.798, pari al 23,5% del totale. Le 10.231 unità in più rappresentano quasi i tre quarti di tutto il saldo delle nuove imprese (+13.762). Questi, però, non sono numeri fissi: si portano dietro più posti di lavoro, più reddito, più consumi.

«Nella mia esperienza ho potuto notare che dopo la prima maternità una mamma su tre abbandona il lavoro; dopo la seconda, due su tre»,

racconta Patrizia Eremita, 48 anni, un figlio di sei, responsabile e fondatrice di mammaelavoro.it, società che offre servizi alle donne che cercano lavoro o che vorrebbero aprire un’attività in proprio. Fino al 2010 lei era manager in un istituto bancario inglese, si è ritirata un anno dopo essere rientrata al lavoro dopo la nascita del bambino. «Viaggiavo spesso, il mio ruolo chiedeva una importante disponibilità di tempo. Così mi sono lanciata sul progetto del sito, il primo anno in sordina, poi a tempo pieno. Il vantaggio è che ora riesco a conciliare la vita professionale con quella familiare».

Neppure Sabrina Tassari, 42 anni e tre figli, riusciva più a star dietro al suo incarico di assistente di direzione. «La mia disponibilità doveva essere 24/7 (ventiquattr’ore per sette giorni, ndr). È andata bene per la prima gravidanza, dopo è diventato troppo difficile». Così ha dedicato il 2009 al «quarto figlio», il progetto di una «grotta di sale» a Milano, Halosal, un posto dove igienizzare le vie respiratorie.

«E da un anno finalmente lavora con me un’altra persona e ci dividiamo tra mattina e pomeriggio. Oltretutto questa attività è perfetta con il calendario scolastico, e l’estate riesco a seguire i bambini come voglio».

Mettersi in proprio rappresenta spesso l’unica soluzione per inseguire le proprie ambizioni professionali e soddisfare il legittimo desiderio di maternità.

«Ormai è un fatto che le imprenditrici aumentino a tassi molto superiori rispetto a quelli maschili e che abbiano retto meglio la crisi. Molte di loro all’arrivo di un figlio preferiscono lasciare tutto piuttosto che essere mortificate nelle legittime aspirazioni. Perché l’organizzazione del lavoro è tipicamente maschile»,

interviene Lella Golfo, promotrice con Alessia Mosca della legge sulle quote di genere in Italia. E cita storie di mamme e imprenditrici, alcune delle quali premiate dalla Fondazione Marisa Bellisario, che lei ha fondato e di cui è presidente. Spiega: «Penso a Sara Roversi, bolognese, due figli, che ha fondato con il marito You Can Group Srl, incubatrice di progetti finora vincenti; oppure a Marzia Camarda, che nel 2005 ha creato con due socie Verba Volant, società di servizi per l’editoria tutta al femminile. Anche lei ha un figlio».

Paola Profeta, docente alla Bocconi ed esperta di economia di genere, spiega che non sappiano ancora quante delle nuove imprenditrici siano arrivate sul mercato dopo aver perso il lavoro, dopo essersi licenziate o dopo che il marito è rimasto disoccupato. «L’Italia deteneva il record europeo delle famiglie monoreddito. Adesso non se lo può più permettere. Il loro ingresso comunque fa bene all’economia e contribuisce a rilanciarla».

Questa centralità economica delle donne è certamente di buon auspicio. Tuttavia Simona Cuomo, coordinatrice dell’Osservatorio sul Diversity Management, invita a non perdere di vista un punto:

«Questa è una strada per uscire dalla crisi. Ma non dimentichiamoci che il vero tema è la giustizia organizzativa. Purtroppo la maternità resta un nodo critico nello sviluppo delle carriere: le barriere invisibili restano il maggiore ostacolo».

Il Corriere della Sera 17.09.13

“La guerriglia di Berlusconi”, di Carlo Galli

Berlusconi riflette se dare il colpo di grazia al Governo – che le sue reazioni alla condanna rendono inevitabilmente più debole – o se consentirgli di giungere fino al termine che si è prefissato, cioè il semestre di presidenza italiana della Ue. Questa riflessione solitaria – di cui avremo notizia, come d’uso, via video – sta diventando il baricentro della politica italiana, e l’epicentro del terremoto che potrebbe sconvolgerla. Già questo dipendere delle sorti di un Paese dalla volontà di un uomo ci dice qualcosa della debolezza di una politica che fatica a sottrarsi all’incontro fatale con un destino privato – divaricato rispetto al bene comune e che pure ancora tenta di sovrapporsi ad esso -.

La salvezza di Berlusconi implica infatti uno strappo al patrimonio più prezioso di un Paese civile: il rispetto delle regole, e in definitiva di se stesso. Il rispetto della Costituzione e del
principio di uguaglianza; il rispetto della legge Severino che per lo svolgimento del ruolo di parlamentare fissa requisiti che Berlusconi ha perduto; il rispetto di una sentenza definitiva, che non può essere elusa; il rispetto del regolamento del Senato, che rende impossibile impedire in tempi brevi il ricorso al voto segreto (come del resto è prassi per i voti sulle persone). L’eccezione politica alle norme giuridiche non sarebbe motivata dalla salus populi ma dalla salvezza di uno solo, che per trattare la propria salvezza personale da una posizione di forza minaccia di trasformare in un grave danno per la repubblica (la caduta del governo) ciò che invece è un bene collettivo: il perseguimento della legalità.

Mentre medita se e come dar corpo a questa perversione – a questo ennesimo e avvelenato assoggettamento del pubblico al privato – Berlusconi inquina la politica con una nube nera di sospetti. Intorno al suo caso, infatti, si annodano e convergono tutti gli interrogativi e tutte le incertezze: chi salverà chi nel voto in giunta e poi in Aula; chi lavora con chi, apertamente o sotterraneamente, a far cadere il governo, e con quali fini; chi tradisce chi, o chi va in soccorso di chi, per formare una diversa maggioranza che consenta almeno la riforma della legge elettorale, prima delle ennesime elezioni anticipate. Se il Pdl intreccia la vicenda di Berlusconi al governo, e alla profonde lacerazioni che lo attraversano (falchi e colombe, politicisti e aziendalisti), il Pd vi aggiunge anche le proprie questioni congressuali – con alcuni candidati che sembrano tifare per la prosecuzione del governo Letta, e altri invece più propensi ad accorciarne la durata -.

Una crisi di sistema si sta annunciando; non può essere che il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio reggano da soli il peso della politica italiana; che le diano stabilità se tutto è preda di paradossi, incertezze, conflittualità che impediscono la costruzione di nuovi assetti politici e istituzionali. Questi ultimi sono appesi a un processo di riforme appena iniziato che si interromperebbe in caso di crisi di governo; quanto al sistema politico – il grande malato del nostro Paese, alle cui plurime debolezze una riforma della Costituzione può dare risposte solo parziali e indirette – fa acqua da tutte le parti, a destra e a sinistra (sia pure con modalità e per motivi diversi).

L’Unità 17.09.13

A destra Berlusconi lo comprende, e vi reagisce, a modo suo: cioè inventando il passato, rispolverando Forza Italia come strumento più fidato e sicuro del Pdl per il fine che egli assegna a un partito di destra: salvare il soldato Silvio, fargli vincere (o almeno pareggiare) ancora una volta le elezioni. Un partito che non troverà la sua ragion d’essere in una tradizione, in una cultura, in un’elaborazione, in una partecipazione, in un’organizzazione: un’entità che sarà quindi un partito di scopo, che vivrà la vita del suo fondatore e padrone. E che dunque non darà una mano a rafforzare il quadro politico sulla destra dello schieramento.

È evidente, allora, che ancora più gravoso sarà il compito, e a ancora più gravi gli interrogativi, che gravano sul Pd: chiamato a riflessioni, discussioni e decisioni che vanno ben oltre le vicende personali di questo o di quello, e che convergono sulla questione più generale: è ancora possibile fare efficacemente politica in Italia, e come? Una domanda cruciale, se è vero che dalla crisi economica e sociale che ci attanaglia si uscirà solo se i timidi segnali di ripresa che si annunciano saranno sostenuti e sviluppati da un politica forte, stabile e democratica. Quella che ancora ci manca, e che dobbiamo costruire con chiarezza e decisione.

“L’Italia non può permettersi un’altra cura da cavallo”, di Emilio Barucci

Alla vigilia delle elezioni tedesche proviamo a fare il punto sul cammino da fare per uscire da una crisi economica che oramai ha raggiunto dimensioni ben superiori rispetto a quella del ‘29. Secondo gli ultimi dati, l’area euro sarebbe fuori dalla recessione mentre l’Italia, pur segnando un rallentamento significativo della dinamica negativa, chiuderà l’anno con un dato del PIL che sta tra il -1.5% e il -1.8%. La ripresa ci sarà nel 2014 ma con ogni probabilità sarà modesta. Quello che emerge è che l’Italia è fanalino di coda in fase di uscita: siamo stati tra i peggiori negli anni bui della crisi e adesso stentiamo a riprendere a crescere.

L’appuntamento appare importante, da quando è scoppiata la crisi dell’Euro si continua a ripetere che le elezioni in Germania potrebbero segnare il punto di svolta. Il refrain è più o meno questo: senza il pressing del confronto elettorale, la Merkel potrà finalmente allargare i cordoni della borsa a Bruxelles, salvare l’Euro e dare ossigeno ai paesi periferici in difficoltà. Sarebbero i tedeschi a non volere aiutare i paesi indisciplinati mentre la Merkel sarebbe disponibile a farlo. Difficile credere a questa storia. La Merkel e la Germania non sembrano avere la vocazione a fare da guida per la costruzione dell’Europa unita. A ben guardare l’equilibrio che si è venuto a creare, se valutato in modo miope, potrebbe essere l’ideale per i paesi forti dell’Euro.

Un anno fa, quando ancora avevamo il governo Monti, era convinzione comune che l’Italia sarebbe uscita da questa crisi soltanto con l’aiuto europeo. Il motto era «si esce da questa crisi con più Europa». Un Paese con un elevato debito pubblico, con un calo significativo della domanda poteva mettere in campo una spinta anti recessiva soltanto con l’allentamento dei vincoli sul fronte dei conti pubblici, adottando politiche espansive. Nell’estate del 2012, sull’orlo della crisi dell’Euro, sembrava che si fosse sul punto di fare il grande balzo, si parlava concretamente di unione economica, di eurobonds, di coordinamento delle politiche macroeconomiche. Francia, Italia e Spagna sembravano unite ed avere la meglio nei confronti della Germania. Ad un anno di distanza a ben guardare ben poco è stato fatto.

Ci si è assestati sulle spalle robuste offerte dalle parole di Draghi secondo cui la Bce avrebbe fatto di tutto per salvare l’euro, per il resto niente di concreto, nessun allentamento delle politiche di austerità, i successivi passi sono stati rimandati a dopo il decollo dell’unione bancaria che sta adesso muovendo i primi incerti passi. Una strategia molto conveniente per i paesi dell’Europa centrale, che hanno speso pochi fondi per salvare i paesi in difficoltà tutelando le loro banche che avevano acquistato i bonds dei PIIGS. La minaccia credibile di Draghi ha permesso di assestarci su un equilibrio positivo solo in apparenza per l’Italia: a fronte di un abbassamento dello spread, le restrizioni sui conti sono rimaste tutte in essere e l’idea di una mutualizzazione del debito è rimasta al palo.
La medicina e ̀ stata dura, il Paese è stato di fatto commissariato e obbligato ad andare avanti sulla strada di una austerità che, complice anche l’instabilità politica, non e ̀ stata accompagnata dalle riforme necessarie. I paesi forti hanno pagato un pedaggio in termini di garanzia implicita (aumento dei loro tassi di interesse) ma vista la situazione si è trattato di un costo assai contenuto.

Si tratta di una medicina effimera che non permetterà all’Italia di tornare a crescere ad un ritmo sostenuto, un Paese che già veniva da un decennio di crescita inferiore a quella degli altri paesi europei rischia di rimanere al palo. La responsabilità principale è nostra che non abbiamo fatto i compiti a casa per recuperare in competitività ma anche dell’Europa che ha mancato l’appuntamento. La nostra agenda dei compiti avrebbe dovuto prevedere il mettere mano alla spesa pubblica per dare corso alla più volte annunciata volontà di ridisegnarne la composizione, invece non siamo andati oltre i cosiddetti tagli lineari. Sarebbe poi stato necessario tagliare ancora il carico fiscale sul lavoro e rafforzare le nostre banche pulendone i bilanci. Fare tutto questo soddisfacendo il vincolo del 3% del deficit in rapporto al PIL non è facile ma deve essere tentato quanto prima altrimenti qualunque politica espansiva finirebbe per avere il fiato corto. L’Europa può e deve venirci incontro soprattutto favorendo la spesa pubblica produttiva in infrastrutture con l’adozione della golden rule. Su questo punto è mancata la volontà dei nostri partner, a cominciare dalla Francia, che si sono limitati a guardare solo il loro tornaconto una volta messo in sicurezza l’Euro.

Stupisce che a Parigi, Berlino, Vienna non si tenga conto del problema. Le cose fino ad ora hanno funzionato, l’Euro sembra salvo, l’Italia e la Spagna vanno avanti faticosamente con le loro gambe ma a forza di «affamarle» potrebbe succedere che il sottile equilibrio che si fonda sulle parole di Draghi possa saltare nel qual caso sarebbero dolori per tutti. Una cosa è sicura: nessuno in Europa potrebbe sentirsi al riparo se l’Italia non ce la fa.

L’Unità 17.09.13

“È il precariato che uccide la ricerca”, di Gabriele Beccaria

«La ricerca si fa per passione, non per la fama o i soldi». Così dice Fabiola Gianotti, la scienziata italiana più famosa al mondo, a capo del team che l’anno scorso ha annunciato la scoperta del bosone di Higgs, la particella che, dando massa alle altre, fa esistere ciò che conosciamo, compresi noi stessi. A Torino per il «Premio StellaRe 2013», consegnato dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è inevitabile ricordarle la polemica del giorno, lanciata dalla neo-senatrice a vita, Elena Cattaneo, stupita dalla differenza tra i suoi due stipendi: 3300 euro al mese per dirigere il maggiore laboratorio d’Italia di cellule staminali e 12 mila per lo scranno. Risposta: «E’ un problema ancora più generale».
Ci spieghi.
«Anche gli insegnanti sono pagati poco, dalle elementari all’università. Gli stipendi non sono paragonabili a quelli della Svizzera, dove lavoro. Non sono adeguati al loro ruolo».
Cosa si deve fare per guarire quella malata cronica che è la ricerca italiana?
«Fare ricerca nel proprio Paese è quanto di più bello si possa immaginare. Però devono sussistere le condizioni: stipendi decorosi, appunto, e un sistema meritocratico. E si deve risolvere la piaga del momento, il precariato. Non si può pensare che un ricercatore rimanga fino a 40 anni nell’incertezza. A quel punto la scelta dell’estero diventa obbligata. E’ il precariato a uccidere la ricerca».
E così continua la fuga dei cervelli.
«Il flusso dei cervelli è positivo se è bilanciato: i nostri giovani vanno all’estero e altrettanti dovrebbero venire da noi. Il problema è quando il flusso ha una sola direzione e diventa “fuga”. E la ricerca si impoverisce. Penso al patrimonio della fisica, che si basa sui “Ragazzi di Via Panisperna”, Fermi, Rasetti, Pontecorvo, Segrè e Amaldi: è una tradizione che si è perpetuata anche grazie all’Infn, l’Istituto di fisica nucleare, e alle università. Ma, quando i giovani se ne vanno, basta saltare una generazione per bloccare tutto. Accade come con le botteghe del Rinascimento: il sapere deve tramandarsi di padre in figlio».
Non crede che gli scienziati debbano farsi sentire di più?
«Ci sono segnali forti che vengono dagli scienziati italiani. Dall’Infn, che si impegna a spiegare ai politici ciò che fa facciamo e l’impatto sulla società, e dall’estero, dato il prestigio dei nostri scienziati. Ma ci deve essere la volontà politica di investire nella ricerca».
Come si convincono i politici?
«In un momento di crisi la tentazione è tagliare gli aspetti che non hanno un’influenza immediato sulla vita quotidiana, ma è una reazione a corto raggio. Senza ricerca fondamentale non ci sono idee, senza idee non ci sono applicazioni e senza applicazioni non c’è progresso. Alla lunga si paga. Un Paese costretto a comprare conoscenza all’estero è senza futuro».
Va però peggio per le donne: perché quello della fisica è un mondo ancora maschilista?
«C’è un aspetto storico: 30-40 anni fa non erano molte le donne che studiavano le “scienze dure”. Oggi al Cern sono il 20%, ma la percentuale cresce, anche se una donna fa ancora un po’ più fatica dei maschi».
Ha subito discriminazioni?
«Non sento di averne subite. Lo dimostra il fatto che sono stata eletta da 3 mila fisici per coordinare il test “Atlas” al Cern di Ginevra».
Lei è celebre. Copertina di «Time», citazione di «Forbes» e tanti premi: come ci si sente a essere la scienziata italiana numero uno?
«Non sono sicura di essere la più famosa! L’Italia produce tanti scienziati di alto livello».
Com’è cambiata la sua vita?
«Quello che ha cambiato la mia vita – prima di tutto scientifica è il bosone di Higgs: trovare una particella così importante è il coronamento di anni di lavoro collettivo, di migliaia di scienziati, tra cui 600 italiani. Ma anche il resto della mia vita è cambiata: non mi sarei mai aspettata una risposta così positiva dai giovani per una scoperta da “addetti ai lavori”».
Come se lo spiega?
«Credo sia il fascino che il bosone esprime. E’ una particellachiave per capire la struttura e l’evoluzione dell’Universo. Molti, anche i teenager, mi scrivono e vengono alle mie conferenze».
Lei che consiglio dà?
«Inseguire i propri ideali, con determinazione ed entusiasmo».
L’ha sorpresa la nominadi Carlo Rubbia ed Elena Cattaneo a senatori a vita?
«Napolitano ha fatto scelte eccellenti e forti».
Ora sogna il Nobel?
«Premiare la scoperta del bosone è difficile, perché si tratta di una collaborazione di migliaia di scienziati. E prima di loro ci sono stati i fisici che hanno sviluppato la teoria. Vedremo che ne pensano a Stoccolma!».

La Stampa 17.09.13

“I cervelli fuggono ma c’è chi lavora per farli tornare”, di Stefano Rizzato

In mezzo alle polemiche e alle turbolenze del momento, in pochi se ne sono accorti. Eppure il segnale più forte, in tema di cervelli che tornano, l’ha dato il 30 agosto il Presidente Napolitano, scegliendo quattro nuovi senatori a vita: Elena Cattaneo, Renzo Piano, Claudio Abbado e Carlo Rubbia. Nel loro curriculum ci sono premi, incarichi di prestigio e anni di lavoro all’estero. Oggi, sono eccellenze messe al servizio dell’Italia. La stessa traiettoria di ritorno è nella mente di tanti, emigrati all’estero per scelta e per necessità. E quasi sempre desiderosi di riprovarci nel Belpaese. I numeri lo confermano: gli italiani laureati che si ritrasferiscono a Sud delle Alpi sono oltre cinquemila ogni anno. Il problema è che il saldo è negativo, perché negli ultimi 10 anni si è impennato anche il dato di chi sceglie di partire. Sempre nel 2011, a lasciare il Paese con una laurea in tasca sono stati 10.643 italiani, in fuga da un mercato del lavoro che fatica ad assorbire personale qualificato.

Invertire la tendenza non è facile, ma – mentre ci troviamo a rincorrere crescita e ripresa – trovare un modo di far rientrare ricercatori, ingegneri, o antropologi capaci e con esperienze internazionali è sempre più una priorità. Per adesso, i passi più importanti sono stati fatti nell’ambito delle start up, con agevolazioni che hanno reso più facile aprire un’impresa innovativa anche in Italia.

«Su questo c’era un ritardo pazzesco rispetto ad altri Paesi, ma oggi abbiamo rimediato” – dice Stefano Firpo, capo della segreteria tecnica del Ministro dello Sviluppo -. Personalmente non credo sia un male poter “fuggire”, che ci siano talenti italiani che prendono un volo a 100 euro e riescono poi a farsi valere all’estero. Sarebbe folle mettere qualunque tipo di ostacolo o barriera in uscita. Si deve però aprire le porte ai talenti stranieri, fare in modo che anche l’Italia diventi terreno fertile per intelligenze ed energie, che attragga investimenti e singoli individui».

È questo l’obiettivo del pacchetto di riforme «Destinazione Italia», che sarà presentato tra pochi giorni e di cui Stefano Firpo è tra gli artefici: «L’Italia ha un appeal che definirei naturale, non è difficile convincere qualcuno a venirci, ma bisogna mettere tutto questo a frutto. E per l’immigrazione qualificata, proporremo procedure semplificate per chi ha bisogno di un visto, una corsia preferenziale per chi vuole aprire una start up o fare investimenti di altra natura».

La Stampa 17.09.13

“Formazione coatta dei prof, i sindacati uniti dicono no”, di di Carlo Forte

Fuoco di sbarramento sindacale contro la formazione coatta dei professori degli alunni che vanno male. É un coro quello delle dichiarazioni dei leader sindacali che criticano duramente la previsione contenuta nell’articolo 10 del decreto legge 104/2013. La notizia della formazione coatta, a cui saranno assoggettati i docenti delle scuole in cui i risultati dei test di valutazione siano stati meno soddisfacenti ed è maggiore il rischio socio-educativo, è stata anticipata da Italia Oggi martedì scorso (si veda l’articolo:«Alunno asino, il prof va a ripetizione»). Secca la reazione di Francesco Scrima, segretario generale della Cisl scuola: «Non sta né in cielo né in terra che si possa scaricare sugli insegnanti ogni colpa per risultati scolastici insoddisfacenti, quando è fin troppo evidente che il peso determinante è delle condizioni di contesto. Chi spende il suo lavoro nelle aree di più acuta emergenza sociale non merita di essere fatto oggetto di banalizzazioni di questa portata».

«Una formazione decisa per decreto», ha commentato Massimo Di Menna, leader della Uil scuola, «significa modificare, per legge, il contratto di lavoro che già prevede uno spazio orario che può essere dedicato all’aggiornamento. E poi per quante ore? 20, 40, 200. Chi decide? In ogni caso, ricordiamo al Governo che decidere in materia di lavoro per decreto, e non per contratto, non porta lontano. E poi», continua Di Menna, «legare la formazione agli esiti delle prove Invalsi significa non tenere in nessuna considerazione il lavoro della scuola e degli insegnanti che va letto dai livelli di ingresso a quelli di uscita».

Bocciatura senza appello anche da parte della Gilda:« Assolutamente sbagliato e ingiusto gettare la croce solo sulle spalle dei docenti se il rendimento degli alunni ai test Invalsi è scarso, perché bisogna tenere conto anche di altri fattori, tra cui il contesto socio-ambientale in cui sono inserite alcune scuole», dice Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, che annuncia: «Percorreremo tutte le strade possibili affinché questo ingiusto articolo del decreto legge venga emendato in sede di conversione in legge del decreto. L’aggiornamento dei docenti non può essere trasformato in un obbligo attraverso un decreto». Preoccupante, per la Flc-Cgil guidata da Mimmo Pantaleo, la tendenza del governo «a invadere per via legislativa materie contrattuali, come è il caso della formazione dei docenti. Una delle modifiche necessarie da fare in parlamento è cancellare la norma».

da ItaliaOggi 17.09.13