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“L’Italia non può permettersi un’altra cura da cavallo”, di Emilio Barucci

Alla vigilia delle elezioni tedesche proviamo a fare il punto sul cammino da fare per uscire da una crisi economica che oramai ha raggiunto dimensioni ben superiori rispetto a quella del ‘29. Secondo gli ultimi dati, l’area euro sarebbe fuori dalla recessione mentre l’Italia, pur segnando un rallentamento significativo della dinamica negativa, chiuderà l’anno con un dato del PIL che sta tra il -1.5% e il -1.8%. La ripresa ci sarà nel 2014 ma con ogni probabilità sarà modesta. Quello che emerge è che l’Italia è fanalino di coda in fase di uscita: siamo stati tra i peggiori negli anni bui della crisi e adesso stentiamo a riprendere a crescere.

L’appuntamento appare importante, da quando è scoppiata la crisi dell’Euro si continua a ripetere che le elezioni in Germania potrebbero segnare il punto di svolta. Il refrain è più o meno questo: senza il pressing del confronto elettorale, la Merkel potrà finalmente allargare i cordoni della borsa a Bruxelles, salvare l’Euro e dare ossigeno ai paesi periferici in difficoltà. Sarebbero i tedeschi a non volere aiutare i paesi indisciplinati mentre la Merkel sarebbe disponibile a farlo. Difficile credere a questa storia. La Merkel e la Germania non sembrano avere la vocazione a fare da guida per la costruzione dell’Europa unita. A ben guardare l’equilibrio che si è venuto a creare, se valutato in modo miope, potrebbe essere l’ideale per i paesi forti dell’Euro.

Un anno fa, quando ancora avevamo il governo Monti, era convinzione comune che l’Italia sarebbe uscita da questa crisi soltanto con l’aiuto europeo. Il motto era «si esce da questa crisi con più Europa». Un Paese con un elevato debito pubblico, con un calo significativo della domanda poteva mettere in campo una spinta anti recessiva soltanto con l’allentamento dei vincoli sul fronte dei conti pubblici, adottando politiche espansive. Nell’estate del 2012, sull’orlo della crisi dell’Euro, sembrava che si fosse sul punto di fare il grande balzo, si parlava concretamente di unione economica, di eurobonds, di coordinamento delle politiche macroeconomiche. Francia, Italia e Spagna sembravano unite ed avere la meglio nei confronti della Germania. Ad un anno di distanza a ben guardare ben poco è stato fatto.

Ci si è assestati sulle spalle robuste offerte dalle parole di Draghi secondo cui la Bce avrebbe fatto di tutto per salvare l’euro, per il resto niente di concreto, nessun allentamento delle politiche di austerità, i successivi passi sono stati rimandati a dopo il decollo dell’unione bancaria che sta adesso muovendo i primi incerti passi. Una strategia molto conveniente per i paesi dell’Europa centrale, che hanno speso pochi fondi per salvare i paesi in difficoltà tutelando le loro banche che avevano acquistato i bonds dei PIIGS. La minaccia credibile di Draghi ha permesso di assestarci su un equilibrio positivo solo in apparenza per l’Italia: a fronte di un abbassamento dello spread, le restrizioni sui conti sono rimaste tutte in essere e l’idea di una mutualizzazione del debito è rimasta al palo.
La medicina e ̀ stata dura, il Paese è stato di fatto commissariato e obbligato ad andare avanti sulla strada di una austerità che, complice anche l’instabilità politica, non e ̀ stata accompagnata dalle riforme necessarie. I paesi forti hanno pagato un pedaggio in termini di garanzia implicita (aumento dei loro tassi di interesse) ma vista la situazione si è trattato di un costo assai contenuto.

Si tratta di una medicina effimera che non permetterà all’Italia di tornare a crescere ad un ritmo sostenuto, un Paese che già veniva da un decennio di crescita inferiore a quella degli altri paesi europei rischia di rimanere al palo. La responsabilità principale è nostra che non abbiamo fatto i compiti a casa per recuperare in competitività ma anche dell’Europa che ha mancato l’appuntamento. La nostra agenda dei compiti avrebbe dovuto prevedere il mettere mano alla spesa pubblica per dare corso alla più volte annunciata volontà di ridisegnarne la composizione, invece non siamo andati oltre i cosiddetti tagli lineari. Sarebbe poi stato necessario tagliare ancora il carico fiscale sul lavoro e rafforzare le nostre banche pulendone i bilanci. Fare tutto questo soddisfacendo il vincolo del 3% del deficit in rapporto al PIL non è facile ma deve essere tentato quanto prima altrimenti qualunque politica espansiva finirebbe per avere il fiato corto. L’Europa può e deve venirci incontro soprattutto favorendo la spesa pubblica produttiva in infrastrutture con l’adozione della golden rule. Su questo punto è mancata la volontà dei nostri partner, a cominciare dalla Francia, che si sono limitati a guardare solo il loro tornaconto una volta messo in sicurezza l’Euro.

Stupisce che a Parigi, Berlino, Vienna non si tenga conto del problema. Le cose fino ad ora hanno funzionato, l’Euro sembra salvo, l’Italia e la Spagna vanno avanti faticosamente con le loro gambe ma a forza di «affamarle» potrebbe succedere che il sottile equilibrio che si fonda sulle parole di Draghi possa saltare nel qual caso sarebbero dolori per tutti. Una cosa è sicura: nessuno in Europa potrebbe sentirsi al riparo se l’Italia non ce la fa.

L’Unità 17.09.13