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“Lo spettacolo dell’uomo”, di Adriano Sofri

Quando finalmente, con un po’ di ritardo, lo spettacolo comincia, tutto è già stato detto, tutte le metafore consumate, tutte le citazioni classiche e moderne, tutte le deplorazioni della vanità delle foto-ricordo col relitto. E anche tutte le sincere o doverose commemorazioni delle persone morte per il più cretino dei ghiribizzi. Così si può disporsi a guardare per guardare, senza pregiudizio, senza allegrie e pene di naufragi: guardare come riusciranno uomini come noi, o quasi (anche donne, come la signora Sargentini del monitoraggio ambientale dalla voce roca) a manovrare congegni spaventosamente enormi, buoni a riparare la povera carcassa che, quando era un’enormità disgustosa e ottusa, pretendeva di chiamarsi nave. Abbiamo guardato un po’ tutti, chi poteva, almeno all’inizio — poi era un po’ lento — da casa, dall’ufficio, dal bar: è stata la nostra giornata al mare in più. Qualcuno la sapeva già lunga, altri si sono beati di cifre e paragoni mirabolanti. Che cosa c’è di più bello che le cifre smisurate e i paragoni iperbolici? La carcassa da risollevare è grande come 100 aerei Boeing: Madonna santa! (Già, ma quanto sarà grande un aereo Boeing? Come 100 Fiat Punto? 200 frigoriferi come il mio?) «Sono 30 mila quintali di acciaio!» — dice uno al vicino di banco. «No, dai, è incredibile! », «Scusa, volevo dire 30 mila tonnellate». «Ah!» Quattro volte la Torre Eiffel, comunque. La Torre Eiffel la sanno tutti, ci sono pure saliti. Diciamo la verità, tutto quell’azzurro del mare, e del cielo, e dello scafo, è di una bellezza fantastica, a prescindere. L’ingegner Girotto, magnifico ingegner Girotto, tranquillizza:
«I ritardi sono fisiologici». Come i bisogni: è bella anche la fisiologia di quell’impresa gigantesca (Titanica, dal nome della ditta americana). I cassoni sono alti come palazzi di dieci piani, quasi di undici: occorrerà forse un’ora per allagarli. (Commenti, che non superino le 500 battute: «Ma come c…o un’ora! Li riempiono con una caraffa?», «Solo un’ora, c…o! Che fanno, li affondano?»). Tutto viene manovrato a distanza — comandi remoti — non si può far correre agli uomini il rischio di salire sul relitto. No, macché, sono sopra, guardali, sullo scafo in bilico: eh, come sembrano piccoli! Non è che sono piccoli: sono uomini-ragno. Piano vanno piano, ma vuoi mettere la meraviglia di sentire per un giorno intero questo sciabordio che va e che viene, e questi colori. Però era bellissimo anche di notte, con tutta la piattaforma illuminata che sembrava Fellini, e il cielo squarciato dai lampi. Alla seconda ora, i cronisti e le croniste dicono già Parbuckling come se non avessero detto altro tutta la vita, meglio che spread — in streaming. «Il Parbuckling è l’aggiornamento di una tecnica ottocentesca». «Dai! Come l’ologramma di Tupac Shakur al festival di Coachella l’anno scorso, non era mica un ologramma: era una cosa bidimensionale, una proiezione dell’Ottocento ». «L’hanno rifatto con Madre Teresa ». La voce roca della signora Sargentini ripete pazientemente: «Pali sì, ma di due metri di diametro, piantati per 10 metri sott’acqua dentro il granito, capisce?». Si vorrebbe sapere di più sui robot subacquei, e sugli Strand Jack — «Guarda, sono cric, no cric, martinetti, ma molto più forti». «E Schettino…». «No eh? Almeno oggi Schettino non lo voglio sentir nominare». «Va be’, ma l’hai vista la vignetta di Makkox: «Comandante le ho detto ruoti cazzo! ». Ecco Nick Sloane, lui sì che è un uomo! Ha ripescato relitti giganteschi in Pakistan, Arabia Saudita, Yemen, Emirati, Usa, Australia, Papua Nuova Guinea, Brasile, Messico, Hong Kong…».
Infatti.
Seconda parte. A questo punto, siccome la rotazione per ora va molto bene — «Delusi? — protesta l’assediato Gabrielli — Volete per forza il problema?» — spostiamoci dallo schermo, e andiamo a vedere come mai ci sono tanti relitti colossali in giro per Sloane: non faranno mica l’inchino. E allora sentite, caso mai pensaste che non c’era niente da scherzare. Infatti. Nel Mediterraneo ci sono centinaia di navi affondate o arenate, e solo di carburante superano di venti volte la marea nera della Deepwater Horizon del golfo del Messico 2010, che superava di dieci volte la Exxon Valdez 1989. Molti relitti militari sono carichi di iprite, di cui ora si riparla tanto. Leggo che ci sono relitti con armi chimiche al largo di Ischia, Manfredonia e Pesaro. Lì pare che bonifiche o recuperi costino troppo: tanto non si vedono. Ogni anno sono migliaia le navi da demolire. Benché la Ue abbia norme più restrittive di quelle della convenzione di Hong Kong, che equiparano le imbarcazioni da demolire a rifiuti pericolosi, che dunque devono essere smaltiti dentro l’Unione, gli armatori continuano a trovare il modo di farle insabbiare sulle coste del sud dell’Asia: anche semplicemente vendendole alla vigilia a bandiere extraeuropee. Nel 2012 vi sono state abbandonate 167 navi greche, 48 tedesche, 30 inglesi, 23 norvegesi, 13 cipriote, 8 bulgare, 6 danesi, 5 olandesi. Sulle spiagge indiane di Alang, intatte fino al 1983, oggi il più grande “cantiere” asiatico, masse di lavoratori smantellano a mani nude navi tossiche, cisterne coi residui di greggio, navi da crociera imbottite di amianto, relitti di guerra, portacontainer usati per rifiuti tossici. Fate un conto: le compagnie europee possiedono il 40 per cento delle navi in funzione, e quasi l’80 per cento delle navi da demolire finiscono in India, a Chittagong in Bangladesh, in Pakistan. Le navi da demolire ogni anno sono quasi 1.000. Dal 2015 per di più sarà vietata la circolazione delle petroliere monoscafo. L’industria siderurgica dipenderà largamente dalla rottamazione navale.
Ecco. Torniamo a vedere a quanti gradi sono arrivati al Giglio. Lento è lento, ma c’è tutto quel blu, e poi lo sciabordio in sottofondo. «Lo sai che certe super-superpetroliere arrivano a una portata di 500 mila quintali?», «Ma dai, no, è incredibile! », «Volevo dire 500 mila tonnellate ». «Ah». «E passano da Venezia?».

La Repubblica 17.09.13

“I ragazzi nella trappola delle reti sociali che oscurano i nomi”, di Marta Serafini

La rissa a Bologna e un suicidio negli Usa Kik, Ask, Snapchat e altri sotto accusa. La mamma di Rebecca aveva provato a toglierle il cellulare. Le aveva fatto anche chiudere il profilo Facebook e le aveva cambiato scuola. Aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Ma non aveva idea che sua figlia, un ragazzina di 12 anni, nata e cresciuta in Florida, fosse diventata il bersaglio di un gruppo di cyberbulli. Non immaginava nemmeno che tutti i giorni sul suo smartphone arrivassero messaggi terribili, che il più gentile fosse «devi morire, fai schifo».
Così, quando Rebecca ha deciso di lanciarsi nel vuoto dal tetto di una vecchia fabbrica di cemento a meno di un miglio da casa, non ha potuto fare niente per fermarla. Perché quella mamma che ora si dispera forse non sa nemmeno cosa sia Kik Messenger, quella maledetta applicazione attraverso la quale perseguitavano la sua bambina. Eppure, se si vanno a leggere i centinaia di commenti dei lettori all’articolo sul sito del New York Times che racconta la vicenda, per molti è stata quell’app ad avere ucciso sua figlia. Come se un social network o un software potessero uccidere qualcuno.
Cyber bullismo, lo chiamano. Il primo a usare l’espressione fu l’educatore canadese Bill Belsey. È da anni che se ne parla. «Il web è pericoloso per i ragazzi. Perché loro rimangono soli davanti a uno schermo», è la teoria più diffusa. «In Rete i giovani sono alla mercé di chiunque», avvertono gli psicologi. Dei bulli, dei malintenzionati, dei troll, dei pedofili. Il risultato? Ricatti, foto rubate e poi rese pubbliche, insulti e hatespeech, messaggi anonimi che nessuno può rintracciare, trolling e harassment (molestie). Parole e neologismi spesso in inglese. Perché questi fenomeni fino a oggi hanno riguardato per lo più Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma è successo anche qui in Italia, qualche giorno fa. Un gruppo di ragazzi a Bologna ha usato Ask.fm, social network creato in Lettonia, per organizzare una mega rissa ai giardini Margherita. E fa rabbrividire che Ask.fm sia lo stesso mezzo attraverso il quale Hannah, un’adolescente del Leicestershire, riceveva ogni giorno centinaia di messaggi in cui veniva invitata a suicidarsi. Hannah si è impiccata in bagno, mentre i genitori erano giù in salotto. Si era iscritta ad Ask.fm perché voleva essere popolare. Poi aver detto di no a un ragazzo le è costato la popolarità. E i troll, i provocatori della rete, si sono scatenati. «Perché non bevi della candeggina così muori?», le hanno scritto. E per Hannah non erano solo parole.
Usa, Gran Bretagna, Canada. L’elenco dei giovani che si sono tolti la vita questa estate è lungo. Per lo più ragazze che senza nemmeno rendersene conto si fanno azzerare l’autostima a colpi di insulti. Ma anche maschi, magari presi di mira perché più sensibili. Sono tanti i mezzi a disposizione dei cyberbulli. Kik Messenger, Ask.fm. Ma ci sono anche le app per il telefonino come Snapchat (che manda messaggi anonimi e poi li autodistrugge, così da diventare una delle piattaforme più utilizzate per ilsexting, lo scambio di messaggi erotici). E, ancora, Formspring e Voxer. Tutti nomi che per lo più non dicono niente ai genitori.
A leggere le storie di questi ragazzi viene da pensare che il problema non sia solo la tecnologia. Ma la solitudine. «Rebecca era terrorizzata dai social network», ha raccontato ai giornali lo sceriffo della contea di Polk. «Non voleva più andare a scuola. Aveva paura anche della sua ombra», spiegano gli amici. Ma niente sembra aiutarli. Nemmeno le leggi — in primis quella introdotta di recente in Florida — che prevedono le aggravanti per l’istigazione al suicidio via web. A poco sembrano servire anche i tasti per la segnalazione di abusi, introdotti da Ask.fm e da Twitter dopo le polemiche sui giornali. Mandi una mail di protesta e molto spesso non succede niente. E a nulla servono le petizioni, come quella portata avanti dal padre di Hannah che ha chiesto la chiusura di Ask.fm. Se lo chiudi, domani ne nasce un altro. E non si può nemmeno pretendere di delegare la sicurezza degli adolescenti alle policy di iscrizione. Allora ai genitori non resta che una strada. Stare attenti. E fare anche di più. Insegnare l’autostima ai figli. E spiegare loro che non è un like o un post su Facebook a determinare quanto valiamo. Ma soprattutto che insultare qualcuno nascosti dietro un profilo anonimo è un comportamento da vigliacchi e da conigli.

COrriere della Sera 16.09.13

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Che cosa possono fare i genitori ?

Controllare ciò che gli adolescenti fanno in Rete non è facile. Ogni giorno nascono nuovi social network e applicazioni e le mode digitali sono davvero volatili. Soprattutto quelle dei ragazzi. «Ma per i genitori fare attenzione all’educazione digitale dei figli è ormai imprescindibile», spiega Luca Mazzucchelli, psicologo milanese. Ecco alcuni consigli per evitare che i nostri figli diventino vittime del cyberbullismo o si trasformino in soggetti attivi di questa pratica.
1 Quali accorgimenti «tecnici» possono aiutare a limitare i rischi legati all’uso di computer e smartphone da parte degli adolescenti?
Provate le applicazioni e i social network che i ragazzi usano di più. Tenete il computer di casa in sala o in un ambiente comune in modo da poterlo usare insieme. Per quanto riguarda il telefonino, invece, non proibitelo trasformandolo in una trasgressione ma limitatene l’uso. Utilizzate i filtri e le impostazioni di protezione del vostro computer.
2 I nostri comportamenti possono influenzare quelli dei ragazzi?
Date il buon esempio, cercando di non farvi vedere sempre con lo smartphone in mano o attaccati al laptop. Non demonizzate social network e device, non servirebbe a niente se non ad allontanarvi dai vostri figli. Piuttosto cercate di dare il buon esempio usandoli in maniera consapevole e nel rispetto della privacy vostra e dei vostri figli.
3 In che modo si possono preparare i più piccoli ai pericoli che corrono in Rete?
Spiegate loro come difendersi dalle aggressioni online. E metteteli in guardia sui rischi che comporta diffondere in Rete i dettagli della propria vita personale.
4 Che fare se si sospetta che un ragazzo sia vittima di cyber bulli?
Parlate con lui/lei del fenomeno e spiegategli/le che non si tratta di qualcosa di reale. Ma di virtuale. Segnalate l’abuso agli insegnanti, alle autorità e ai responsabili dei social network. Nel caso chiedete un supporto psicologico per i vostri figli.
5 Quali sono i possibili segnali di allarme a cui prestare attenzione?
Se vostro figlio trascorre troppe ore al telefono e al computer potrebbe esserci qualcosa che non va. Occhio anche all’isolamento. Non voler andare a scuola e non voler più vedere nessuno è uno dei primi campanelli di allarme delle vittime di cyberbullismo.

COrriere della Sera 16.09.13

“Con la testa sotto la sabbia”, di Lucrezia Reichlin

Quasi sessant’anni fa Ennio Flaiano immaginò la storia, divertente e malinconica, di un marziano atterrato a Roma e poi ricevuto dalle maggiori autorità. Ma che cosa accadrebbe oggi, se un inviato proveniente da Marte, terminato un viaggio di ricognizione nel mondo, giungesse in Italia per incontrare ministri e banchieri, politici e industriali, deciso a farsi un’idea del nostro Paese? Proviamo a ipotizzarlo. Dopo avere intercettato grande ottimismo per la ripresa incipiente, il nostro marziano torna in albergo e riguarda gli appunti preparati dai suoi esperti. L’Italia ha oltre il 130 per cento nel rapporto debito-Pil, in crescita: ben al di là delle previsioni di due anni fa quando i più sostenevano che fosse stato raggiunto il picco.
Le prospettive di rientro — sentenziano i tecnici di Marte — sono inesistenti. La crescita del reddito potenziale è infatti, nelle stime più ottimiste, appena sopra lo zero, l’inflazione presente e attesa è al di sotto dell’uno e mezzo (1,3 in agosto), ma i tassi d’interesse effettivi sono in rialzo. Dati poco incoraggianti per la sostenibilità del debito.
Dai giorni della crisi più profonda — precisano poi gli esperti — l’Italia non ha fatto niente per rilanciare la competi- tività. Né quella intesa in senso stretto, determinata, cioè, dal tasso di produttività e dal costo del lavoro; né quella più ampiamente considerata, determinata dall’efficienza nelle dinamiche amministrativo-burocratiche e del sistema giudiziario e dall’incidenza della corruzione. La conseguenza, nota il marziano spulciando numeri e percentuali, si fa sentire sugli investimenti e sulle esportazioni che, pur essendo cresciute più della domanda interna, non hanno avuto un andamento dinamico quanto quelle di Madrid, capitale che ha appena visitato. La disoccupazione è in crescita, l’occupazione in calo, mentre il settore bancario resta fra i più fragili d’Europa, con la necessità potenziale di capitali che sfiora i 30 miliardi, secondo le informazioni che gli esperti di Marte hanno raccolto a Francoforte e Bruxelles.
Se questo è il quadro, si chiede il marziano con gli occhi sbarrati dopo una notte a far di calcolo, perché le tante, eminenti personalità incontrate sono ottimiste? Perché non avvertono un senso di urgenza? Non temono di perdere il controllo delle finanze pubbliche, non li inquieta la prospettiva di dover chiedere aiuto all’Europa? Se, invece, gli italiani fossero forzati a comprare titoli di Stato per evitare questa prospettiva, non temono di scivolare lungo la via di un irreversibile declino economico? È davvero motivo di gioia una previsione di crescita del Pil che oscilla dal -1,3% al -1,7 nel 2013 e dal -0,5 al +0,7 nel 2014, visto che, secondo gli esperti, alle stime del governo con il suo +1,3% nel 2014 non crede nessuno?
Come mai, infine, tanti si compiacciono del surplus primario, ma non pensano che con questi dati macroeconomici, attuali e attesi (dal Pil all’inflazione ai tassi d’interesse), è difficile che l’Italia possa arrestare la dinamica perversa del debito?
Essendo la sua conoscenza degli esseri umani ancora molto superficiale, non fidandosi completamente dei suoi esperti, consapevole che gli economisti hanno spesso un approccio limitato ed eccessivamente tecnico, il nostro marziano decide di chiedere aiuto a un guru di Marte, amico suo. Il guru gli risponde così: «L’italiano è una specie particolare di essere umano. Ha età media elevata e, nella media, è ricco. Forse per questo la sua propensione al rischio è scarsa, un ricordo la voglia di emergere del dopoguerra. Si preoccupa soprattutto della tassa sulla casa, ovvero la tassa che incombe sulla sua ricchezza». Poi il guru aggiunge: «Non perdere troppo tempo a ragionare in Italia, ma goditela. È un Paese di grande bellezza». Il nostro marziano è molto occupato e deve terminare il suo viaggio tra gli umani: si ripropone di tornare e portarci suo marito in vacanza (va da sé, si tratta di una marziana). Nel finale del suo rapporto sull’Italia scrive: «Teniamo un occhio aperto. Quando tutte queste belle cose italiane dovranno essere vendute per fare fronte ai debiti, le compreremo a prezzo di saldo e ne faremo attrezzati luoghi di vacanza per i pensionati di Marte e del mondo emergente. La prima idea potrebbe essere quella di mini appartamenti al Colosseo. Bellissimo, nonostante i buchi».

Il Corriere della Sera 16.09.13

“Perché da noi la crisi è più nera e la ripresa tarda”, di Carlo Buttaroni

Tra le grandi economie, l’Italia è l’unico Paese che quest’anno sarà ancora in recessione, con una riduzione del Pil dell’1,8%. Secondo le stime dell’Ocse, la Gran Bretagna, alla fine dell’anno, registrerà una crescita dell’1,5% (con un +3,7% nel terzo trimestre e +3,2% nel quarto), gli Usa dell’1,7% (+2,5% e +2,7%), la Germania dello 0,7% (+2,3% e +2,4%) e la Francia dello 0,3% (+1,4% e +1,6%). Anche se gli indicatori preannunciano che l’Italia sta lentamente uscendo dalla crisi, il vicecapo economista dell’Ocse, Jorgen Elm, ha voluto precisare che «ci sono una serie di cose che potrebbero succedere», difficili da prevedere e di cui non si può rendere conto nelle stime. Come, ad esempio, «il rischio politico» legato all’instabilità. E per quanto riguarda il nostro Paese, questa può essere considerata una constatazione più che una previsione. Un’instabilità che l’Italia rischia di pagare a caro prezzo. Il presidente del Consiglio Enrico Letta ha parlato di 1,5 miliardi da qui alla fine anno, per il possibile aumento dei tassi d’interesse causato dalla crisi politica. Una cifra che rap- presenta, però, una stima molto parziale del costo totale, che potrebbe in realtà moltiplicarsi per dieci. Anche perché il «rischio politico» si rende concreto con il passare dei giorni e a poco o nulla servono gli appelli al buon senso. E da qualsiasi versante si guardi, la distanza fra il dibattito politico e i bisogni del Paese, in questo momento non potrebbe essere maggiore.

DOMANDA INTERNA TROPPO DEBOLE

Sempre l’Ocse avverte che la ripresa si presenta comunque fragile, anche perché la domanda interna è ancora troppo debole ed è compensata solo in modo limitato dall’aumento delle esportazioni. Serve dare solidità all’economia con misure per creare condizioni più favorevoli agli investimenti e politiche macroeconomiche a soste- gno della domanda. E, soprattutto, occorrono politiche per il lavoro più incisive, perché l’alto tasso di disoccupazione rischia di rallentare il contatore della ripresa e di sovralimentare le tensioni sociali. Ricette buone e ricostituenti per tutte le economie europee, ma che per l’Italia rappresentano una cura salvavita.

Se le stime per quest’anno saranno confermate, la fase economica compresa tra il 2008 e il 2013, vedrà il Pil dell’Italia diminuito dell’8,6% e quello della Germania cresciuto del 2,4%. Insomma, una bella differenza. Ma non è tutta colpa della crisi. L’Italia, tra il 2000 e il 2011, è il Paese cresciuto meno in Europa ed è anche tra quelli in cui le disuguaglianze sociali e territoriali si sono fatte più acute, accumulando ritardi che hanno reso più deboli anche aree tradizionalmente forti come il Nordest, dove la continua perdita di base industriale non è stata una fatalità, ma la conseguenza di errori strategici alla radice dell’attuale crisi. L’Italia soffre da molti anni l’assenza di una politica industriale che orienti e alimenti le vocazioni del nostro Paese. Un deficit che si riflette in una diminuzione di oltre il 73% delle risorse da destinare all’adeguamento delle infrastrutture necessarie a rendere competitive le nostre imprese. Non a caso anche in questa classifica siamo tra gli ultimi in Europa. A questi si sommano altri mali endemici: la criminalità organizzata che si è infiltrata in nodi strategici, l’economia sommersa, l’inefficienza della pubblica amministrazione, i ritardi nei pagamento, le difficoltà di accesso al credito, la formazione inadeguata, i tempi biblici della giustizia civile.

Pensare, quindi, ai problemi dell’Italia solo come a qualcosa di transitorio legato alla congiuntura è recessiava è un grave
errore, perché spinge a pensare in termini di piccole scale e a stimolo di breve periodo. La realtà, purtroppo, è ben più grave
e i deficit strutturali stanno deteriorando le capacità e le potenzialità del Paese da cenni.

L’andmento del Pil

Per avere un’idea del declino basti pensare che il Pil italiano è aumentato del 55,7% negli anni Sessanta, del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli Ottanta, del 17% nei Novanta e del 2,5% nel decennio 2000-2010. La crisi ha drammaticamente accelerato il declino, mettendo un segno «meno» davanti al nostro Pil, ma la bassa crescita che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi tre decenni è il risultato di scelte non fatte e investimenti rinviati che hanno dato forma a un sistema industriale inadeguato a competere con l’economia globale.

Produciamo beni e servizi troppo poco innovativi, la cui domanda è sempre più debole e la cui offerta, proveniente dai Paesi emergenti, è sempre più forte.

Nelle maggiori economie occidentali, la ripresa che si annuncia sarà incentrata sulla capacità di attrarre investimenti, capitale umano e imprese innovative, elementi connessi alla produzione di nuove idee, nuovo sapere e nuove tecnologie. E il numero e la forza degli hub dell’innovazione decreteranno la fortuna o il declino di un Paese.

La sfida della ripresa parte da qui. E la politica può fare molto. Anche perché la scarsa propensione delle imprese italiane a investire in innovazione riflette un «sistema Paese» che penalizza la crescita nell’innovazione, disincentiva gli investimenti e alimenta la sfiducia. Migliaia di piccole imprese di successo rinunciano o ritardano ad ampliarsi perché ciò significherebbe maggiore pressione fiscale e vincoli più stringenti.

I PROBLEMI DELLE IMPRESE FAMILIARI

Questo chiaramente frana anche la crescita occupazionale e crea un panorama industriale fatto di una moltitudine d’imprese familiari con pochi dipendenti, e di un numero modesto d’imprese con ambizioni di scala superiore. Se la diffusione d’imprese a carattere familiare è stato uno dei punti di forza del sistema produttivo italiano negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la manifattura tradizionale rappresentava l’industria trainante, oggi è diventato un punto di debolezza nella nuova economia globale, nel momento in cui l’industria tradizionale è in declino e le produzioni forti del futuro saranno quelle ad alto con- tenuto di capitale umano e d’innovazione.

Per rispondere a queste sfide ci sarebbe bisogno di mettere in campo politiche capaci di rendere il Paese più competitivo, dando sostanza a un contesto più favorevole alle imprese, con infrastrutture moderne, reti energetiche intelligenti, incentivi reali all’innovazione e alla formazione. E, soprattutto, premiando chi investe e rischia per tracciare nuove traiettorie.

È su questi temi che la politica dovrebbe confrontarsi e trovare le vere «larghe intese», pensando a ciò che serve realmente al Paese.

L’Unità 16.09.13

“Gli «inchini» di Schifani”, di Luca Landò

Ribaltare o raddrizzare? Il dubbio è suggerito dalla vicenda della Concordia che oggi, promettono gli esperti, dovrà essere «ribaltata», anche se forse sarebbe meglio scrivere «raddrizzata», visto che dritta lo era prima e non lo è più adesso. Punti di vista, si dirà. Ma anche pericolosi giochi di parole, perché alla fine non si capisce se la realtà sia quella che vediamo con i nostri occhi o quella che sentiamo con le nostre orecchie. Come ieri pomeriggio quando, intervistato da Lucia Annunziata, il senatore del Pdl Renato Schifani si è esibito in una serie di inchini e manovre da far impallidire il famigerato capitan Schettino. Inchino numero uno. «L’atteggiamento del Pd è inspiegabile – ha detto l’ex presidente del Senato – se non in funzione di un preciso disegno che sarebbe contro l’interesse del Paese». Fino alla chiusa capolavoro: «Le elezioni porterebbero il Paese al baratro». Il ribaltamento, anzi la rovesciata, è francamente inaccettabile ad ogni persona di buon senso. A volere le elezioni, dunque, non sarebbe il Pdl che minaccia Letta un giorno sì e l’altro pure, ma il Pd che ha detto con chiarezza di volere proseguire l’esperienza di governo e, al contempo, di voler rispettare la legge, la quale prevede che un signore condannato a quattro anni per frode fiscale non possa più proseguire il mandato di senatore. Inchino numero due. «Siamo colpiti e feriti, al di là delle vicende personali di Berlusconi, dall’atteggiamento di un alleato che si sta scagliando contro il leader del nostro partito immotivatamente». E qui, ammettiamolo, viene da applaudire e da restare ammirati. Perché ci vuole un certo coraggio a sostenere che la condanna di Berlusconi sia una «vicenda personale» quando, nella stessa frase, si ricorda che il condannato di cui si parla è «il leader del nostro partito». Se Berlusconi è un leader politico – e anche un senatore della Repubblica – le sue vicende personali (purtroppo, si tratta di condanne definitive) non sono più un fatto personale, ma una questione di diritto che investe la politica e le istituzioni. E le istituzioni, in un ordinamento democratico, sono soggette al diritto: la politica non può piegarle a piacimento, o sulla base di ricatti (questi sì, immotivati sul piano costituzionale) che stravolgerebbero l’equilibrio dei poteri. La posizione del Pd sarà forse sgradita a Berlusconi ma è «motivata». Come è motivato il sostegno al governo Letta, per il percorso programmato nel 2014. Se Schifani è disposto a fare cadere il governo pur di difendere il seggio del Cavaliere, abbia il coraggio di dirlo all’Italia senza imbrogli. Altrimenti, rischia di avventurarsi in una manovra per la quale, forse, non basterebbe nemmeno Schettino.

L’Unità 16.09.13

“La metafora del naufragio”, di Tito Boeri

Se tutto andrà per il verso giusto, è il caso di dirlo dato che si tratta di una complessa rotazione su di un fondale insidioso, la Concordia non affonderà e riprenderà la sua rotta. Sarà comunque un viaggio breve. Verrà trainata da una mezza dozzina di rimorchiatori.
Sarà tenuta a galla da grandi cassoni d’aria ai due lati. E se ne andrà mestamente, a soli due nodi, verso la propria rottamazione. Se tutto andrà bene, è il caso di dirlo dato che c’è di mezzo una votazione molto insidiosa, l’economia italiana smetterà di affondare e riprenderà il suo cammino. Sarà comunque un viaggio lento e di breve durata. Trainata dalle esportazioni, tenuta a galla da un governo che cerca di stare a galla più a lungo possibile, rischia di essere un cammino lento e di breve durata, dalla recessione, alla stagnazione, ad una nuova recessione.
La vicenda della Concordia è stata spesso utilizzata, soprattutto dalla stampa estera, come metafora del declino del nostro paese. È un confronto avvilente e per molti aspetti ingiusto. Ma è utile quando si pensa alle sfide che ci stanno di fronte. Chi aveva visto la fine del tunnel, si sarà ricreduto di fronte alla revisione al ribasso delle stime del Pil del secondo trimestre e al calo della produzione industriale a luglio. Dopo otto trimestri consecutivi di recessione ci sarà nei prossimi mesi un raddrizzamento, una stabilizzazione nell’andamento del reddito nazionale. I germogli sono talmente indietro che basta un nulla per farli morire. Una nuova fase di instabilità politica, una manovra correttiva che, dati i pochi mesi a disposizione per correggere i conti, non potrebbe che comportare nuove tasse, equivarrebbe a una gelata improvvisa. E la nostra economia sarà comunque trainata dalle esportazioni, dato che la domanda interna non può che essere debole con un mercato del lavoro in cui 9 milioni di persone sono in condizioni di disagio occupazionale e non aumentano i posti vacanti, la domanda di lavoro. Anche il traino delle esportazioni rischia di essere breve. La spinta sin qui venuta dalle economie emergenti si va affievolendo. I Brics pagano, forse più che il progressivo irrigidimento della politica monetaria Usa, la debolezza della domanda europea, dovuta a un eccesso di austerità in Europa. Oggi l’Eurozona ha un surplus negli scambi commerciali senza precedenti, superiore addirittura a quello della Cina. Abbiamo perciò una ragione in più per lamentarci di questa austerità eccessiva: indebolisce anche i nostri potenziali rimorchiatori. Ed è bene non farsi illusioni sul cambiamento di rotta dopo le elezioni tedesche. La campagna elettorale in Germania ha mostrato un’opinione pubblica che ritiene che si sia fatto fin troppo per aiutare i paesi del Sud Europa. E Angela Merkel non sembra affatto avere un’agenda da leader dell’Unione.
Enrico Letta sostiene, a ragione, che in assenza di un governo, saremmo costretti a subire manovre dettate a Bruxelles, se non direttamente a Berlino. Vero. Ma proprio questa sua affermazione implica che un governo che rimane a galla può occuparsi del destino del nostro paese anziché limitarsi a gestire gli affari correnti. Non è di un governo dimissionario che abbiamo bisogno. Per quanto il mandato di questo esecutivo sia breve, in 15 mesi si possono fare tante cose. Possibile, innanzitutto, rinegoziare i saldi dei conti pubblici nel 2014 e 2015, contemplando riduzioni di tasse che diano ossigeno all’economia, anche anticipando i tagli di spesa prossimi venturi (ben definiti e già votati dal Parlamento), che serviranno a finanziarla. È questa l’intenzione del governo? Spiegherebbe perché la Relazione al Parlamento preveda peggioramenti dei nostri conti pubblici nel 2014 e nel 2015 rispetto alle stime precedenti, nonostante il miglioramento nell’andamento del Pil. Inoltre, è possibile cambiare la composizione della spesa e del gettito anche a saldi invariati. Sin qui il governo si è mosso nella direzione sbagliata: il rinvio delle tasse sulla casa sta già portando ad un aumento della pressione fiscale sul lavoro attraverso l’aumento delle addizionali sull’Irpef (in parte anche perché i meccanismi compensativi incentivano le amministrazioni locali ad aumentare le aliquote per poter ricevere, un domani, maggiori trasferimenti). Fondamentale ora rimediare a questi errori agendo subito non solo sul livello, ma anche sulla composizione della spesa pubblica in modo tale da renderla più amica della crescita. Da quando è iniziata la
recessione, le due componenti di spesa cresciute di più sono la previdenza (la cui quota di spesa pubblica è aumentata dal 33 al 35 per cento) e la sanità (ormai pari a un sesto della spesa complessiva). Nonostante tanti annunci sui tagli ai costi della politica, le spese per il funzionamento degli organi esecutivi e legislativi sono aumentate dal 2007 al 2011 assieme alla loro quota sulla spesa complessiva. Si è ridotta invece di un punto percentuale la spesa per l’istruzione. Non si può neanche sostenere che questi cambiamenti nella composizione della spesa pubblica siano dovuti alla necessità di trovare in fretta risorse per finanziare il debito pubblico. La quota di spesa per interessi sul debito è, infatti, diminuita in questi anni. Si tratta, quindi, di scelte consapevoli, tutt’altro che obbligate. Si è voluto sostenere, sia a livello nazionale (pensioni), che locale (sanità), la spesa rivolta principalmente a chi ha più di 60 anni, a scapito degli investimenti sul futuro del nostro paese.
Se il governo Letta non vuole essere ricordato solo per la capacità di stare a galla, deve rapidamente dare un segnale di cambiamento nelle priorità svelate dalla composizione della nostra spesa pubblica. Può impegnarsi nell’affrontare il nodo delle cosiddette “pensioni d’oro” ed evitare di disfare, come ha fatto con altri provvedimenti del governo Monti, anche la riforma delle pensioni dell’esecutivo precedente. Può abbattere per decreto, ponendo stringenti tetti ai loro bilanci, le spese degli organi istituzionali e sfidare il Parlamento ad andare contro la volontà degli elettori. Può fare una seria rassegna della spesa nella sanità, in cui si annidano gli sprechi più vistosi, soprattutto ai confini fra pubblico e privato. Può ancora cambiare la composizione della spesa sociale rendendola più equa e maggiormente congeniale alle esigenze di ristrutturazione della nostra struttura produttiva. Se non farà questo, la sua sarà una lenta marcia verso la rottamazione, preludio magari di una contesa tra politici toscani e siciliani, come quella cui stiamo assistendo tra Piombino e Palermo sul luogo in cui verrà demolita la Concordia.

La Repubblica 16.09.13

“In tre anni bruciata la generazione under 35”, di Roberto Giovannini

L’Italia – purtroppo ormai lo sappiamo – non è un paese amico dei giovani. Lo dice l’esperienza quotidiana di tutti noi, ma lo confermano anche i numeri. Come mostrano i dati dell’Istat riferiti al secondo trimestre del 2013, tra il 2010 e il 2013 il numero delle persone con meno di 35 anni con un lavoro è letteralmente crollato: da 6,3 a 5,3 milioni. A subire la regressione peggiore sono gli italiani tra 25 e 34 anni, che nello stesso periodo hanno dovuto accettare la perdita di ben 750.000 posti di lavoro. Nel secondo trimestre 2013 in questa fascia di età – quella in cui un tempo chi aveva seguito un corso universitario si laureava, cominciava a lavorare ed eventualmente metteva su famiglia – lavoravano appena 4,329 milioni di persone contro i 5,089 milioni di tre anni prima. Il tasso di occupazione ha subito un crollo dal 65,9 al 60,2 (era al 70,1% nella media 2007), con quindi appena sei persone su dieci al lavoro nell’età attiva per eccellenza. E se per i maschi del Nord la situazione è ancora accettabile, con l’81,4% al lavoro (dall’86,6% del secondo trimestre 2010), al Sud la situazione è drammatica con appena il 51% degli uomini della fascia 25-34 anni che lavora (e solo il 33,3% delle donne).

L’imbuto che ha stritolato questa generazione è stato generato dalla recessione e dalle riforme pensionistiche. Da una parte, infatti, la stretta sull’uscita verso il pensionamento ha obbligato al lavoro i più anziani (il tasso di occupazione nella fascia tra i 55 e i 64 anni è passato nel triennio considerato dal 36,6% al 42,1%). Dall’altro, ovviamente, la crisi economica che ha raggelato l’economia ha insieme bruciato occupazione e impedito la creazione di nuove opportunità di impiego.

Per le giovani donne del Sud il calo percentuale è stato meno consistente partendo da un dato basso (dal 34,2% al 33,3%). Se si guarda al complesso degli under 35 (quindi anche ai giovanissimi) il tasso di occupazione a livello nazionale risulta in calo dal 45,9% del secondo trimestre 2010 al 40,4% dello stesso periodo del 2013. Il tasso di disoccupazione nella fascia tra i 25 e i 34 anni è cresciuto dall’11,7% del secondo trimestre 2010 al 17,8% dello stesso periodo del 2013 con oltre sei punti in più. I disoccupati tra i giovani adulti sono passati da 670.000 a 935.000. Al Sud il tasso di disoccupazione in questa fascia di età è ormai al 30% (molto simile tra uomini al 29,1% a donne al 31,5%) dal 20,6% di appena tre anni prima. Al Nord la disoccupazione tra i giovani adulti è passata dal 7,3% del secondo trimestre 2010 al 10,9%.

Intanto, secondo un’indagine condotta da Swg per la Coldiretti, la maggioranza dei giovani (51%) sotto i 40 anni è pronta a espatriare per lavorare. Secondo il sondaggio il 73% dei giovani ritiene che l’Italia non possa offrire un futuro; solo il 20% ritiene che gli italiani hanno competenze e creatività per uscire dalla crisi. Non si crede più neanche nella raccomandazione, alla quale solo l’11% dei giovani italiani dichiara di aver fatto ricorso. La visione negativa del futuro è confermata dal fatto che in generale il 61% degli under 40 interpellati pensa che in futuro la sua situazione economica sarà peggiore di quella dei propri genitori. Per il 17% sarà uguale, e solo per il 14% migliore (gli altri non rispondono).

La Stampa 16.09.13