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“Viaggio nelle scuole della discordia”, di Vladimiro Polchi

Così ora l’istituto rischia la chiusura. E la cronaca di questi giorni racconta di tanti altri focolai. Eppure la multietnicità è da anni un carattere consolidato della nostra scuola. Stando alle ultime previsioni del ministero dell’Istruzione, nell’anno 2013/2014 gli alunni di cittadinanza straniera sono ben 736.654, su un totale di 7.878.661 studenti previsti sui banchi delle scuole statali. Gli alunni non italiani restano concentrati per lo più nella scuola primaria (dove sono 271.857). E ancora: il loro record di presenze si registra in Lombardia (178.475 stranieri iscritti), seguita dall’Emilia Romagna (86.697). Ma attenzione: molti studenti figli
di immigrati sono nati in Italia (quasi il 50 per cento, con punte dell’80 per cento nella scuola dell’infanzia). Tradotto: se nel nostro Paese vigesse lo ius soli, l’incidenza degli alunni stranieri sul totale sarebbe molto più bassa e le discussioni in corso sulle “quote multietniche” a scuola perderebbero in gran parte la loro ragion d’essere.
Arcangela Mastromarco, docente referente del polo Start 1 (Struttura territoriale per l’integrazione) di Milano, si occupa dell’inserimento degli studenti stranieri in 56 scuole elementari e medie del capoluogo lombardo: «Fare un tutt’uno degli studenti di cittadinanza non italiana è sbagliato – sostiene – perché c’è un’enorme differenza tra chi è nato qui e chi ci è arrivato a una certa età. Bisognerebbe allora trovare definizioni diverse, come distinguere tra studenti italofoni e non. E questo andrebbe spiegato con chiarezza ai genitori italiani per rassicurarli. Per esempio a Milano il 60-70 per cento degli studenti stranieri iscritti alle elementari è di seconda generazione e dunque non costituisce solitamente un intralcio che rallenta il percorso scolastico». Questo non vuol dire nascondere eventuali difficoltà: «Chi pensa che un bimbo straniero alle elementari impari l’italiano solo ascoltando la lezione in classe, sbaglia. Ci devono essere insegnanti specializzati, altrimenti i problemi arrivano eccome, e poi le difficoltà dai ragazzi passano agli insegnanti, fino ad arrivare ai genitori».
La questione è allora quella delle risorse. «A Milano e provincia – spiega la Mastromarco – nell’anno scolastico 1999/2000 c’erano 700 docenti facilitatori, destinati all’insegnamento dell’italiano ai neoarrivati, lo scorso anno erano solo 40. Se mancano le risorse, allora si giustifica il malcontento. Insomma, se hai in classe due o tre studenti neoarrivati (cioè arrivati in Italia nel corso dell’anno scolastico) e non del tutto italofoni, ti va in crisi l’insegnamento, ne risente tutta la classe e il rallentamento della didattica è inevitabile».
Forse è giusto allora distribuire sul territorio gli studenti stranieri. Il limite del 30 per cento di alunni non italiani per scuola (introdotto con la discussa circolare Gelmini dell’8 gennaio 2010, su cui influirono le spinte leghiste che avevano anche proposto le classi ponte per gli immigrati) è infatti ancora valido. Anche se va oggi considerato un “tetto” solo indicativo e non obbligatorio. Lo ha chiarito, il 7 agosto scorso, il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, rispondendo ad un’interrogazione alla Camera: «Il diritto allo studio, nella mia visione, prescinde dall’origine geografica, dalla razza e dalla nazionalità. Conseguentemente il limite del 30 per cento degli alunni con cittadinanza non italiana sul totale degli iscritti è un criterio tendenziale e indicativo, che in base alla circolare può ben tollerare eccezioni, giustificate dalla presenza di alunni stranieri in possesso di adeguate competenze linguistiche, dalla disponibilità di risorse professionali e strutture di supporto, anche esterne alla scuola, da ragioni di
continuità didattica per classi costituite negli anni precedenti o da stati di necessità provocati dall’oggettiva assenza di soluzioni alternative».
Un tetto, quello del 30 per cento, già disapplicato da molte scuole italiane (circa un terzo). «Un limite che non distinguendo tra nati in Italia e neoarrivati – commenta la Mastromarco – non ha senso. E poi l’unico modo per non far “fuggire” gli italiani è potenziare le scuole dove ci sono tanti bimbi d’origine straniera, con un’offerta formativa, fatta di inglese, musica, informatica, che sia invitante per gli autoctoni. Come abbiamo fatto qui a Milano con la scuola di via Paravia».
Accanto alle storie di convivenza difficile, non mancano infatti casi di buon funzionamento delle classi multietniche. Un esempio? Nel quartiere di Torpignattara, a Roma, c’è una scuola elementare con 176 studenti, di cui solo 40 con la cittadinanza italiana. È la scuola Carlo Pisacane, spesso citata come modello di integrazione, per la sua offerta formativa all’avanguardia. Anche se va detto che pure qui negli ultimi tempi gli italiani iscrivono sempre meno i propri figli.
A misurarsi concretamente con la multietnicità tra i banchi è Luciana Zou, presidente del Cidi di Roma (Centro di iniziativa democratica degli insegnanti) e docente di informatica all’istituto tecnico Armellini della capitale: «Lo scorso anno avevo una terza con il 40 per cento di studenti d’origine straniera. Accade sempre più spesso, infatti, che questi ragazzi scelgano gli istituti tecnici invece del liceo, perché pensano siano più facili e perché dirottati qui dai loro insegnanti delle medie». Anche per la Zou, «non ha senso parlare di studenti stranieri senza distinguere tra chi è nato in Italia o ci vive da tanti anni e chi è arrivato da poco». Ciò detto, «è indubbio che una classe multietnica comporta un maggiore impegno e richiede una preparazione estremamente solida da parte degli insegnati, che invece troppo spesso vengono abbandonati. Ma va chiarito – aggiunge – che non sempre gli studenti stranieri rallentano la didattica. Anzi a me è accaduto più volte di verificare tra loro una più forte motivazione allo studio rispetto agli italiani, così da diventare addirittura un traino per l’intera classe ».
Eppure le prove Invalsi del 2012 hanno evidenziato che «lo scarto medio tra studenti stranieri di prima generazione e studenti italiani è di 23 punti in meno in italiano e di 16 punti in meno in matematica, mentre fra studenti stranieri nati in Italia e
studenti italiani il gap si riduce, rispettivamente, a 16 punti in meno nella prova di italiano e 12 punti in meno nella prova di matematica. Tutte differenze – sottolinea l’Invalsi – che sono in ogni caso significative».
Differenze che per Arcangela Mastromarco restano «il vero problema. Il gap riscontrabile anche tra le seconde generazioni e gli stessi insuccessi scolastici sono infatti dovuti a una sopravvalutazione del loro italiano di base e al conseguente mancato sviluppo di un italiano adatto allo studio. Questo è un errore che sta facendo sempre più spesso la scuola nel nostro Paese ».
E gli studenti stranieri cosa ne pensano? Mihai Popescu, romeno, ha vent’anni ed è in Italia dal 2003. Oggi studia Scienze politiche alla Sapienza ed è responsabile nazionale della Rete degli
studenti medi: «Sono arrivato in Italia durante le elementari. Ero iscritto a una scuola in provincia di Frosinone. Non mi sono mai sentito discriminato, anzi molti compagni italiani mi hanno aiutato. Forse sono stato facilitato dal fatto che vivevo in una piccola realtà. Nelle classi che ho frequentato anche dopo, c’era sempre qualche altro studente straniero assieme a me».
Mihai è contrario alle classi ghetto, ma tende comunque a ridimensionare il problema: «Non credo – afferma – che siamo noi stranieri a minacciare il rallentamento della didattica, semmai lo sono stati i tagli all’istruzione degli anni scorsi, che hanno impedito alla scuola di stare dietro alle nuove sfide e a trasformare la diversità in ricchezza. Perché una cosa è certa – conclude Mihai – la multietnicità tra i banchi è ormai la normalità e la scuola non può chiamarsi fuori da questa sfida».

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“Abbiamo alunni di 25 Paesi essere diversi qui è un valore”, di ZITA DAZZI

Said, otto anni, ha i genitori tunisini e alla scuola elementare di via Dolci frequenta il corso di arabo per bambini. Così riuscirà a scambiare quattro chiacchiere con i nonni di Hammamet, quando andrà a trovarli, a Natale. Sarà la sua prima volta in Africa perché lui è nato a Milano, nelle case popolari di piazzale Brescia. E da lì non si è mai spostato. Dumitra, 30 anni, viene dall’Ucraina e allatta ancora. In classe ci entra al pomeriggio, per imparare l’italiano, assieme alle altre mamme immigrate del corso di alfabetizzazione, mentre due puericultrici tengono a bada i bebè multicolor in “aula psicomotricità”. Intanto, nel cortile di quest’elementare con le facciate gialle, a pochi metri dalla circonvallazione esterna di Milano, zona San Siro, un gruppo di padri cinesi e sudamericani aiuta i bidelli a scaricare le cassette di verdura da un camion della Coldiretti per il mercato a chilometro zero aperto solo alle famiglie degli alunni.
Hanno tutti da fare alla scuola primaria di via Dolci 5, quartiere della prima periferia milanese, zona di grande traffico e poco verde, dove la percentuale di stranieri residenti arriva al 18 per cento, anche se sui registri di scuola la quota di cognomi non italiani sale fino al 40-45 per cento. Una scuola multietnica, come si suol dire. Anche se preferisce chiamarla «scuola che si confronta con l’intercultura », il preside Giovanni Del Bene, 67 anni, una vita spesa a insegnare Pedagogia all’università Statale, prima di diventare dirigente dell’Istituto comprensivo Cadorna e del vicino Calasanzio, in tutto 2.300 bambini e ragazzi, dai 3 ai 13 anni, divisi fra sette diversi plessi di scuola materna, elementare e media, con una quota di alunni di origine straniera che oscilla fra il 40 e il 60 per cento per classe. Con punte del 90 per cento in alcune sezioni della primaria di via Paravia, la scuola «di frontiera » che il Provveditore gli ha accollato da quest’anno.
«Forse hanno pensato che solo io potevo “reggere” una situazione così complessa», scherza Del Bene, dalla sua scrivania affacciata sul cortile di via Dolci, da dove arrivano le chiacchiere di due madri in jeans e hijab.
Del Bene è un preside che a Milano tutti conoscono perché riesce a far funzionare una scuola dove sono presenti bambini di 25 nazionalità e sette religioni diverse. Una “scuola modello”: anche istituzioni importanti come la Fondazione Cariplo e il ministero degli Interni hanno deciso di premiarla con due diversi finanziamenti, per un totale di 500mila euro, assegnati con regolare bando, per portare avanti i tanti progetti sull’integrazione avviati negli ultimi anni.
«I bambini hanno diritto all’istruzione, come dice la Costituzione. Io accetto tutte le domande di iscrizione e non guardo al passaporto quando mi vengono a chiedere di prendere un nuovo alunno — spiega il preside sgranando gli occhi azzurri — Qui abbiamo classi dove si parla l’hurdu e l’inglese, l’arabo e lo spagnolo, ma non è mai stato un problema. Non ho genitori che ritirano i figli per paura degli stranieri. Non vorrei apparire retorico, ma qui, davvero, la diversità è accolta come una ricchezza».
La forza del modello Cadorna sta nella collaborazione fra una potente associazione dei genitori e un consapevole corpo insegnanti, oltre che nell’apporto continuo di idee ed energie esterne, con stimoli che vengono dal Politecnico e dalle università Statale e Bicocca, oltre che da una pletora di associazioni ed enti, dal privato sociale fino al Movimento consumatori. «La scuola è sempre aperta, anche a Natale e fuori dall’orario di lezione. Al sabato abbiamo i volontari per aiutare i bambini a fare i compiti e al pomeriggio abbiamo i corsi di sport, arte e creatività quasi gratuiti per tutti gli alunni — elenca il preside — La sera organizziamo incontri e spettacoli, il venerdì abbiamo il mercato della verdura biologica. E poi le feste, le mostre, le manifestazioni sportive, i laboratori per adulti e bambini». E la religione? «Il crocefisso c’è in ogni aula, ma sulla mia scrivania ci sono i simboli cari a tutte le culture. Il prete viene a fare la benedizione natalizia fuori dall’orario scolastico, nella palestra aperta a tutti quelli che sono interessati a partecipare. E ogni anno, alla celebrazione, vengono anche molti alunni musulmani».

La Repubblica 12.09.13