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“Un compromesso antidemocratico”, di Nadia Urbinati

Si invoca in queste ore convulse il “compromesso” per non applicare la legge Severino. Gli esponenti del Pdl lo auspicano, accusando di intransigentismo chi si ostina a lasciare che quella legge valga per il condannato illustre Silvio Berlusconi come per chiunque altro si trovasse al suo posto. Se non che, Berlusconi non vuole essere considerato “come” qualunque altro, nonostante la legge “uguale per tutti” lo voglia. La legge non rende tutti uguali; ma si impegna (con il nobile patto costituzionale) a trattare tutti, diversi e diseguali, con le stesse procedure e le stesse regole che presiedono al giudizio; e tutto questo perché quel patto dà a ciascuno un voto e uno solo. Uno stesso peso di potere decisionale, nonostante i pesi sociali ed economici siano molto diversi e perfino sproporzionati. Proprio per questo, il nobile patto costituzionale promette a tutti che la legge sarà applicata ugualmente. Il criterio del “come se” è l’anima della norma e governa l’articolo 3 della Costituzione. Esso limita e regola ogni possibile “compromesso”.
Pensatori e leader politici, a destra come a sinistra, hanno nei secoli criticato questa
fictio del “come se”, dell’immaginaria uguaglianza che, come un velo nemmeno troppo spesso, pretende di coprire corpi solidamente piantati in società con le loro diseguaglianze irrisolvibili. A sinistra, la soluzione radicale prospettata è stata l’eliminazione anche forzata delle disuguaglianze economiche per realizzare compiutamente l’eguaglianza della legge. A destra, la soluzione proposta nei secoli è in pratica la stessa di quella che sentiamo ripetere oggi dagli esponenti del Pdl: non illudiamoci di essere tutti uguali, nonostante la legge lo dichiari e lo prometta; la realtà è quella che è; e che ci piaccia o no noi siamo tutti diversi e, inoltre, alcuni di noi sono molto più importanti e rappresentativi, e non possono essere piegati alla stessa procedura giudiziaria, alla stessa legge. Forse hanno sbagliato; ma sono così forti nella sfera della società e dell’opinione da dover essere trattati diversamente per il bene di tutti. La democrazia costituzionale non si piega però né all’egualitarismo della sinistra radicale né ai ricatti della destra oligarchica.
Nella democrazia antica, gli oligarchi consideravano la legge uguale come la vendetta dei molti contro i pochi; segno di invidia e di desiderio di livellamento. Nell’Italia democratica questa idea ritorna: Berlusconi, si pensa, è così potente e rappresentativo da non poter essere condannato a subire le conseguenze della legge. Fino a quando non tocca i potentissimi, la legge è elogiata proprio perché promette di non guardare in faccia nessuno (Berlusconi stesso ha sostenuto con forza la legge Severino). Ma quando si volge ai potenti, allora questi reclamano un diverso trattamento e vogliono che la legge riverisca la loro diseguaglianza di condizione. Essi dicono, inoltre, che anche volendo non possono essere trattati come gli altri, perché la loro forza sociale è così imponente che una loro rovina rischierebbe di trascinarsi dietro l’ordine costituito. Quindi, ai molti conviene scendere a patti con i pochi.
Questo è l’argomento che torna oggi sotto le sembianze del “compromesso”. La soluzione invocata è l’eccezione: si dice che occorre che i protagonisti politici, se vogliono continuate nella loro collaborazione di governo, accettino di mettere un velo sulla legge invece che sulle diseguaglianze sociali. Ecco allora l’invocazione del “compromesso” per il bene del paese: proprio perché il cittadino Berlusconi è così potente da poter portare, con la sua rovina politica, grave rischio alla stabilità occorre agire con prudenza. Si tratta dello stesso ragionamento degli oligarchi del passato: chi non è mai stato uguale può, se incorre nella legge uguale, rivoltarsi e reagire duramente con grave danno di tutti. È in questa ottica che viene oggi invocato il compromesso– il quale, come si intuisce, non è un compromesso vero e proprio ma una sfida dell’oligarchia alla democrazia.
Qualche settimana fa il ministro Quagliariello ha comparato l’attuale situazione di crisi a quella che soffrì l’Italia dopo la Prima guerra mondiale, quando i due maggiori partiti – i popolari e i socialisti –, interstarditi sulle rispettive posizioni, non si avvidero che il vero nemico del bene del paese stava nella loro incomprensione della situazione di necessità nella quale si trovava; una situazione che avrebbe richiesto un coraggio supplettivo. Scriveva Quagliariello, perorando la causa di un “alto compromesso” per salvare Berlusconi, che l’ultima volta in cui “le parti in campo rifiutarono il coraggio di un alto compromesso (…) quelle parti erano i socialisti e i popolari e si era agli inizi degli anni Venti del secolo scorso. Sappiamo com’è andata a finire. Evitiamo che la storia si ripeta, anche perché la situazione dell’Italia è tale che il refrain non avrebbe nemmeno la levità di una farsa”. Non è chiaro in quest’analogia chi svolga oggi il ruolo che allora copriva Benito Mussolini e il suo Partito fascista, il pericolo rispetto al quale popolari e socialisti avrebbero dovuto siglare quell’alto compromesso.
Nel primo dopoguerra, i protagonisti erano tre – popolari, socialisti e fascisti – e il fallito compromesso tra i primi due favorì il terzo. Ma oggi i protagonisti sono due. A meno che il partito di Berlusconi non copra due ruoli: quello di contraente dell’ipotetico compromesso e quello di portatore del ricatto del danno estremo di instabilità.
L’alto compromesso sarebbe una Caporetto per la democrazia costituzionale. “Alto” sarebbe per una parte, che otterrebbe un guadagno della cui portata c’è da temere (e che alimenta l’idea sotterranea di una riforma in senso semi-presidenziale della forma di governo). La soluzione non sarebbe un compromesso, in quanto un accordo tra i due partiti che sostengono il governo per salvare la vita politica di un condannato in terzo grado di giudizio risulterebbe in una vera e propria dichiarazione di disuguaglianza della legge. Perché chiamarlo “compromesso” se favorisce sproporzionalmente una parte imponendo all’altra di accettare quelle condizioni, prendere o lasciare, pena l’instabilità dell’ordine costituito? Nella vita politica delle democrazie, il compromesso è pane quotidiano: la trattativa tra partiti per formare un governo o quella per siglare un’alleanza di governo sono esempi di compromesso. Ma stravolgere la legge affinché un oligarca sia esonerato dal rispettarla non sarebbe un compromesso; sarebbe una capitolazione per la democrazia, un velo sull’articolo 3 della Costituzione.

La Repubblica 11.09.13

“Quirico, un giorno per riscoprire il mondo”, di Mario Calabresi

L’aereo era appena decollato da Torino, alle 6 e 40 di ieri mattina, quando Giulietta Quirico, seduta accanto al finestrino, ha visto il cielo colorarsi di arancione e si è lasciata andare: «Non ho chiuso occhio anche stanotte ma finalmente per noi è l’alba di un nuovo giorno». Nella borsa che ha preparato in fretta l’abito grigio, la camicia a righe e la cravatta regimental per quel marito che non vede da 156 giorni. All’atterraggio il traffico di Roma ritarda l’incontro previsto per le 8 alla Farnesina. Le squilla il telefono, è Claudio Taffuri, il capo dell’Unità di crisi, che le chiede dove sia finita, dice che Domenico l’attende con ansia. Allora lei con una certa ironia risponde: «L’ho aspettato per cinque mesi, adesso non sarà un dramma se mi aspetta lui per cinque minuti».

L’incontro è commovente, poi Domenico corre a cambiarsi e smette i panni del prigioniero, dell’uomo costretto a vegetare per quasi due stagioni: «Mi hanno rubato una primavera e un’estate, era come se fossi su Marte, sono stato tagliato fuori dal mondo». E per un giorno intero mi chiederà di aggiornarlo su tutto, con lo stupore di un bambino che deve recuperare il tempo perduto.

Sull’aereo che lo riportava in Italia ha chiesto chi fosse diventato presidente della Repubblica, quando gli hanno risposto Napolitano ha ribattuto: «No, intendo quello nuovo…», poi ha avuto conferma che il capo del governo è Enrico Letta. Quando era partito c’era ancora Pierluigi Bersani che cercava di formare una maggioranza, poi una sera ha intravisto dal televisore dei suoi carcerieri le immagini, su Al Jazeera, della fase finale del G8. «Ero lontano non sentivo l’audio e quando i leader si sono messi in posa per la foto ricordo ho visto un signore che non era Putin, non era Obama, non era la Merkel, non era Hollande, non era Cameron, non era giapponese e non era neanche il canadese così mi sono detto: mah… quello deve essere l’italiano e mi è sembrato Enrico Letta, però fino a ieri mi sono tenuto il dubbio. E poi i rapitori continuavano a ripetermi: “Ma tanto ci penserà Berlusconi a salvarti”, convinti che fosse sempre lui il capo del governo».

Quando poi al fondo della scaletta ha visto Emma Bonino si è commosso: «Mai più avrei immaginato che fosse diventata ministro degli Esteri, la conosco da vent’anni, dall’epoca del genocidio in Ruanda, che è un po’ la nostra storia ed è un po’ la storia di tutte queste terribili vicende che io racconto da anni e lei ha contrastato battendosi come ha sempre fatto». La Bonino lo ha accompagnato a Palazzo Chigi, ad incontrare Enrico Letta. Nella sala d’angolo che era stata lo studio di Berlusconi e poi di Monti e che oggi è tornata a funzionare come luogo di rappresentanza, dopo il premier è entrato Angelino Alfano e Domenico ha strizzato gli occhi. Più tardi, sottovoce e con garbo, mi ha chiesto cosa ci facesse nella sede del governo e quando gli ho spiegato che è ministro dell’Interno e vicepremier è rimasto a bocca aperta: «Quando ho visto Letta e Alfano insieme ho pensato di sognare, non riuscivo a capire, adesso invece ho capito che la politica è proprio l’arte dell’impossibile».

Ma a stupirlo più di tutto sono stati i fatti di politica internazionale, quelli che ha sempre seguito con passione, senza perdere mai una notizia, una sfumatura, un dettaglio e nel tempo breve del viaggio di ritorno verso Torino ha dovuto fare i conti con il nuovo sconvolgimento del Medio Oriente e la fine delle primavere arabe. Mai avrebbe scommesso sulla vittoria di Rohani alle elezioni iraniane e i suoi occhi si muovevano veloci a cercare di immaginare le conseguenze, così ha una voglia matta di capire cosa sia successo in Qatar, perché l’emiro abbia abdicato e il Paese abbia ripiegato dopo la sua politica aggressiva d’influenza su tutta la regione.

Ma la cosa che lo ha sconvolto di più è stata la notizia del golpe egiziano, con l’arresto di Morsi e l’uscita di scena del Fratelli Musulmani. «Ma si sono lasciati estromettere così, senza combattere?». Quando gli ho spiegato che le piazze si sono incendiate, che l’esercito ha sparato sulla folla dagli elicotteri, allora gli è venuto un nodo in gola: «Quante cose non ho visto, quante cose avrei potuto raccontare». Solo nel momento in cui gli ho detto «… e invece hanno fatto uscire dal carcere Mubarak» mi ha guardato storto pensando che lo prendessi in giro.

Gli ho poi raccontato della Shalabayeva, del rimpatrio forzato in Kazakhstan della moglie e della figlia dell’oligarca dissidente Ablyazov e si è fatto ripetere la storia due volte perché non riusciva a capirla, ha chiesto chi sia favorito alle elezioni tedesche e non s’è stupito che la nostra politica sia paralizzata dalle questioni giudiziarie di Berlusconi.

Mi sono dimenticato di dirgli che abbiamo visto il vecchio Papa e quello nuovo pregare insieme e che gli americani sono finiti in un nuovo scandalo spionaggio, ma è stato perché, dopo una giornata intera in cui aveva raccontato a tutti della disperazione della Siria e della sua prigionia, aveva voglia di evadere un momento.

Mentre atterravamo ha chiesto chi avesse vinto il campionato e i colpi di mercato del suo Milan. Prima gli ho detto della Juve e della cessione di Cavani, poi, pensando di restituirgli il sorriso, gli ho annunciato il ritorno di Kakà. Si è messo le mani davanti agli occhi: «Questa proprio non ci voleva, non l’ho mai sopportato, averlo saputo sarei rimasto in Siria…».

La stampa 10.09.13

E il Pd prepara la linea dura “Ormai nulla ci farà cambiare idea”, di Goffredo De Marchis

«Il Pd non può più fermarsi », dicono a Palazzo Chigi condividendo la linea del partito. Non ci sono spiragli per concedere tempo e fiato ai ricorsi di Berlusconi, alle manovre dilatorie del Pdl nella giunta del Senato che decide la decadenza del Cavaliere. «L’unica preoccupazione è non commettere errori — spiega Guglielmo Epifani ai suoi collaboratori —. Non dobbiamo dare l’idea di strappi giustizialisti e non dobbiamo accettare le strategie messe in atto dai berlusconiani per far slittare il voto. L’importante è mantenere un atteggiamento coerente, senza accettare provocazioni e senza dare pretesti». È questa la strada scelta da Largo del Nazareno per salvare il Pd ed Enrico Letta dalla possibile “rissa” innescata da Berlusconi. Non ci sono margini per allungare il brodo. E non è possibile aspettare che siano i giudici della Corte di appello di Milano a decidere sull’interdizione dai pubblici uffici scongiurando il cortocircuito dentro le larghe intese.
Letta ha seguito l’evoluzione della discussione a Palazzo Madama da Bruxelles. Gli altri dirigenti democratici hanno continuato il loro giro per le festesparse in Italia sentendo il polso del popolo del Pd. Popolo che non accetterebbe mai una sponda del centrosinistra alle manovre di Berlusconi. Nemmeno in cambio di qualche garanzia per il governo. Il sentiero è tracciato, «separazione netta tra l’azione dell’esecutivo e le libere decisioni parlamentari su una questione giudiziaria», come ripete il premier anche in queste ore. E se qualcuno, dentro il governo, ha pensato che si potessero concedere alcuni giorni di confronto nella giunta, ieri ha capito che il Pdl vuole subito vedere le carte. Così è stata interpretata la richiesta di tre pregiudiziali di costituzionalità avanzata dal relatore Andrea Augello. Una mossa che ha irrigidito Pd, Sel e 5stelle. Che accelera le votazioni nella giunta anziché rallentarle. Se non è un’ingenuità tattica, allora davvero Berlusconi si prepara alla crisi.
Il momento delle verità dunque è vicinissimo. Letta pensa di esserci arrivato nelle condizioni migliori possibili. Con i risultati del governo che «in quattro mesi hanno cambiato l’Italia», disinnescando la mina dell’Imu, con il suo partito, il Pd, che ha compreso il senso e lo sforzo delle larghe intese, come ha capito alle festa nazionale di Genova. Insomma, il premier avrebbe adesso le carte in regola per una eventuale candidatura alla premiership nel campo del centrosinistra, se si dovesse andare velocemente alle elezioni. Il Letta bis è una soluzione evocata solo di sfuggita a Palazzo Chigi. Potrebbe vedere la luce solo nel caso fosse legata «aun nuovo progetto politico che nasce nel centrodestra». Cioè, a uno smottamento da quella parte che conduca a qualcosa di più profondo del voto di un pugno di transfughi. Avrebbe un senso soltanto se fosse chiaro che siamo giunti al bivio finale tra i destini di una forza politica e quelli del suo leader.
Questa è la base su cui Letta e i suoi collaboratori ragionano quando immaginano la possibilità di un bis. Tolto l’alibi principale dell’Imu, le colombe e i “governisti” del Pdl dovrebbero compiere una scelta pensando al futuro. In quel caso, un nuovo esecutivo sorgerebbe su fondamenta diverse, ma politiche. Senza affidarsi al semplice voto degli Scilipoti di turno. Le premesse non sono buone. Berlusconi ha già incassato la garanzia di dimissioni immediate dei suoi 5 ministri e 18 sottosegretari. Palazzo Chigi ha già spiegato che non batterà ciglio, accoglierà le dimissioni e tornerà in Parlamento a chiedere la fiducia delle Camere. Sono mosse plausibili ma finora tutte scritte sulla carta. Gli effetti di una crisi aperta da Berlusconi su se stesso, sulla sua condizione di condannato in via definitiva sono ancora da misurare nel concreto. Con la variabile decisiva delle decisioni di Giorgio Napolitano, sempre più arbitro del futuro.

La Repubblica 10.09.13

“Io, candidata al test di Medicina. Uno slalom che diventa lotteria”, di Flavia Amabile

È stata questione di un istante. Ero appena entrata nell’aula, per prima, visto il cognome e il destino che mi accompagnano fin dai tempi della scuola e degli elenchi in ordine alfabetico. Ho lasciato il documento, firmato la presenza, ritirato il mio bustone ancora chiuso con il test, un’assistente della commissione mi ha chiesto di sedermi in ultima fila, ma la presidente l’ha corretta: «No, iniziamo dalla prima fila». È partita così la mia avventura fra i 7.101 iscritti al test di Medicina e Chirurgia alla Sapienza di Roma. Con una imprecazione sottovoce per la sfortuna. D’altra parte agli slalom e alle lotterie bisogna essere preparati, se si decide di partecipare alla selezione per diventare matricola di Medicina.
Lo slalom inizia già a luglio, quando ci si iscrive. La procedura è complicata, piena di siti a cui iscriversi, password da creare, server sovraccarichi perché nello stesso momento decine di migliaia di persone stanno provando a fare quello che vuoi fare tu e, quindi, sei costretto a ripetere l’operazione per più giorni senza capire che cosa esattamente non funzioni, finché, senza un motivo apparente, a un certo punto premi il tasto «Invia» e la tua domanda viene davvero inviata. Sei iscritto.
O perlomeno speri di essere iscritto. Di ufficiale hai solo una mail che prova che hai pagato i 35 euro di tassa (ma in altri atenei costa di più), un altro foglio che certifica l’iscrizione al portale Universitaly da cui si deve iniziare la procedura, e nient’altro. Non una comunicazione che dica: sei iscritto, ci vediamo il 9 settembre. O che ti dia qualche certezza in più. Nulla. Ed è fine luglio.
Se fossi stata una diciottenne con un futuro legato al test avrei avuto serie difficoltà ad addormentarmi ogni sera. La conferma che tutta la fatica fatta tra i server universitari aveva un senso arriva il 5 settembre. Una mail della Sapienza comunica il numero dell’aula e allega il link di una mappa decisamente utile per un ateneo in cui ci sono 91 aule usate per i test. Con una seconda mail arriva l’elenco dell’assegnazione delle aule: siamo divisi per età.
Sono con i vecchietti, quindi, gli over-40, quelli che provano e riprovano ogni anno e sperano di imparare dagli errori degli anni precedenti, e che una volta o l’altra sia quella buona.
In totale siamo in 47. C’è una suora di origini africane, un’inglese che si ostina a parlare inglese, mandando su tutte le furie la presidente della commissione. Ci sono gli iscritti a scienze infermieristiche che sperano di fare il salto, ci sono quelli che da una vita sognano di diventare medici e non hanno intenzione di abbandonare il loro sogno.
A qualsiasi costo. E non c’è minaccia che tenga. La presidente di commissione è durissima. Ci avverte dal primo istante: non vuole ricorsi nella nostra aula. Divide, separa, ordina la disposizione dei posti, pone il divieto assoluto di andare in bagno durante il test mentre in altre aule c’è maggiore elasticità. Vorrebbe anche silenzio completo durante le due ore di attesa, quando il test ancora non è iniziato.
Non otterrà nulla. In due arrivano in forte ritardo e con alcuni pezzi della registrazione mancanti: non vengono ammessi, ma minacciano ricorso. Quando alle 11 viene dato il via al test, persino io, che sono in prima fila e ho tutti e tre i componenti della commissione schierati davanti a me, riesco a fotografare e filmare il mio compito e parte di quello che avviene intorno. A fatica, approfittando dei pochi momenti di distrazione, ma qualcosa riprendo. Non invio nulla dall’aula in rete per evitare di invalidare la prova.
Nelle ultime file c’è più libertà. I componenti della commissione salgono fino agli ultimi banchi solo quattro o cinque volte nei cento minuti della prova. Spesso l’aula resta con due sorveglianti, mentre il terzo va in bagno. E quando sono lì, sono soprattutto seduti alla cattedra (davanti a me) a redigere i verbali nel tentativo di arginare i due probabili ricorsi.
Ci vuole una buona dose di autocontrollo per concentrarsi. Mentre dovremmo avere la tranquillità necessaria per ragionare su complessi quesiti di Logica, di Matematica, di Chimica, arrivano telefonate alla presidente per decidere come comportarsi con i due ritardatari. Non ascoltare è impossibile: mentre la prova è in corso veniamo chiamati a fare da testimoni di quanto accaduto.
Alle 12,40 si consegna. Qualcuno lo fa subito. Qualcun altro aspetta. Mentre i componenti della commissione passano tra i banchi i veterani dei test sanno che c’è modo di controllare qualche risposta, di passarsi gli ultimi suggerimenti. E, quindi, sì, ai test si può copiare e si copia, ma ci vuole fortuna e impegno: siamo proprio sicuri che non sia più utile utilizzare lo stesso tempo per studiare?

La Stampa 10.09.13

“Tfa, un fallimento organizzato”, di Emanuela Micucci

In ritardo, inefficienti, con tutor poco coinvolti. I Tfa inciampano sui tirocini che avrebbero dovuto qualificare i nuovi percorsi di formazione iniziale dei docenti delle secondarie. A fare un bilancio del primo anno dei tirocini formativi attivi (Tfa) è il Rapporto Anfis sul Tfa 2013 che l’associazione nazionale dei formatori insegnanti superiori (Anfis) ha appena inviato al ministero dell’istruzione (www.anfis.eu). Condotta su 77 tutor in 39 sedi universitarie dei Tfa, l’indagine, «pur con alcuni limiti – precisa Riccardo Scaglioni, il presidente dell’Anfis – permette valutazioni di tipo qualitativo e tendenziale su quanto avvenuto in questo primo anno» e lo fa «per la prima volta in modo organico e esteso e con la tempestività necessaria a intervenire subito sulla continuazione più positiva dell’esperienza del Tfa nella sua seconda applicazione». Senza entrare nel merito dei risultati formativi dei percorsi né nella loro struttura, l’organizzazione e l’attuazione dei Tfa presenta più ombre che luci. Soprattutto nel tirocinio di 475 ore svolto a scuola. Il primo disagio nel calendario con ritardi in molte università nell’avvio e nella conclusione delle attività didattiche e nell’assegnazione degli incarichi di insegnamento e tutoraggio. Corsi e tirocini nella scuole non sono iniziati prima marzo/ aprile per terminare a luglio come imposto da una nota ministeriale del 10 aprile (prot. N. 839). Mentre alcuni atenei hanno attivato i tirocini senza che i tutor fossero ancora incaricati «per l’assenza, nei tempi opportuni – illustra il rapporto -, della necessaria ormazione e degli atti dispositivi e di chiarimento necessari».

Così si è erogato un servizio diverso nelle varie università con effetti sulla qualità dei percorsi e sulla formazione conseguita. Scarsa la collaborazione tra scuola e università: il 71% degli intervistati non sa se vi siano stati rapporti tra rappresentanze di ateneo e uffici scolastici regionali. Eppure il Miur aveva richiesto la nascita di un comitato regionale di coordinamento integrato con il direttore dell’Usr. Del resto, è stato sottovalutato il consiglio di corso di tirocinio, l’organo più importante del Taf , riunitosi in media 2 colte: le decisioni si sono prese altrove, seguendo modalità e procedure diverse da quelle richieste dalla legge. Solo il 5% ha adottato un modello di tirocinio frutto della collaborazione tra scuola e università. Tanto che il 45% dei tirocini è stato predisposto dalla sola università.

E il 52% ha seguito un modello proveniente da esperienze precedenti, probabilmente le Siss. Nel 75% dei casi le ore per il tirocinio diretto sono da una volta e mezzo fino a 4 volte superiori a quelle di tirocinio indiretto. Quasi il 60% delle attività previste per questo ultimo si sono svolte negli atenei. Mentre le rimanenti sono state divise tra supporto e-learning e attività a scuola. Colpisce l’entità delle ore di autoformazione riconosciute: fino a 355, i del monte ore totale. Appena il 17% dei tutor dei tirocinanti sono stati assegnati rispettando le procedure, che in 4 scuole su 5 sono state improprie o discrezionali. «Classi pollaio», poi, per i tutor coordinatori: superato nella maggior parte dei casi limite massimo di 15 tirocinanti per arrivare a 18 o 22, con casi meno frequenti di 26, 30, 35. Tra le proposte dell’Anfis per il prossimo ciclo del Tfa, «l’istituzione di un organismo autonomo, un Osservatorio nazionale permanente sul Tfa, che accompagni l’attuazione del DM 249/2010 e abbia una composizione simile al quella del consiglio di corso di tirocinio».

da ItaliaOggi 10.09.13

“Sostegno con criteri uniformi”, di Antimo Di Geronimo

Il numero dei docenti di sostegno in organico di diritto crescerà di anno in anno fino a raggiungere, dal 2015/2015, le stesse proporzioni del 2006/2007. Il il numero dovrebbe passare dagli attuali 63.348 a 86.447 insegnanti. É quanto prevede il decreto legge sulla scuola approvato ieri dal governo. Il dispositivo disciplina anche nuove procedure per l’accertamento dell’handicap, tramite l’inserimento nelle commissioni mediche di un dirigente scolastico o di un docente, designato dal direttore generale dell’ufficio scolastico regionale. Il dispositivo prevedepoi l’elaborazione di tabelle per agevolare il lavoro delle commissioni, così da rendere il più possibile uniforme, su tutto il territorio nazionale, il modo di lavorare e gli effetti degli accertamenti.

Basta posti in deroga

Si prevede un graduale ampliamento dell’organico di diritto del sostegno, che dovrebbe ritornare ai livelli del 2006/2007. Lo strumento tecnico adottato dall’esecutivo è la modifica del comma 414, dell’articolo 2, della legge 244/2007. Che aveva disposto la riduzione del 30% dell’organico dei docenti di sostegno attivato nell’anno precedente. La norma, peraltro, era stata fatta oggetto di una pronuncia da parte della Corte costituzionale. Che l’aveva dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non consentiva l’adozione di posti in deroga. E quindi, sebbene l’organico di diritto fosse rimasto di anno in anno, ben al di sotto di quello del 2006/2007, gli uffici avevano dovuto comunque ampliare le dotazioni del sostegno in organico di fatto. E la copertura degli stipendi dei docenti assunti in deroga era stata trovata gravando sui risparmi ottenuti con i tagli previsti dall’articolo 64 decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112. Adesso, però, la dotazione organica dovrebbe essere nuovamente rimpinguata. Direttamente in organico di diritto. E ciò dovrebbe favorire le immissioni in ruolo, limitando anche il ricorso ai posti in deroga. In altre parole, l’ampliamento dell’organico di diritto determinerà un aumento delle disponibilità utili per le immissioni in ruolo. E dunque, anche in considerazione del fatto che l’articolo 14 prevede che le immissioni in ruolo dovranno essere disposte su tutti i posti vacanti, ciò dovrebbe determinare un forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato di docenti di sostegno. Evitando così il continuo ricorso alla costituzione di posti in deroga, che vengono sistematicamente destinati agli incarichi di supplenza. Dunque, più immissioni in ruolo, più opportunità per la mobilità dei docenti di ruolo e assorbimento del precariato.

I rischi dei nuovi criteri

Quanto alle procedure di accertamento dell’handicap, l’inserimento nelle commissioni mediche di un rappresentante del mondo della scuola dovrebbe consentire ai medici di valutare più agevolmente gli effetti dell’handicap sul processo didattico- apprenditivo. Questa novità apre nuovi scenari circa i processi di individuazione degli alunni aventi diritto al docente di sostegno. Ma c’è il rischio che tutto ciò possa essere vanificato da un irrigidimento delle procedure di classificazione delle patologie. Il decreto legge, infatti, prevedendo l’emanazione di tabelle di conversione tra le disabilità rischia di legare le mani ai medici. L’introduzione di elenchi tassativi, infatti, potrebbe precludere alle commissioni la possibilità di accertare situazioni di handicap qualora le relative situazioni non fossero espressamente previste nelle tabelle.

ItaliaOggi 10.09.13

“Distinguere partito e governo”, di Claudio Sardo

Per uscire da una crisi bisogna cambiare i canoni e i comportamenti che della crisi sono stati la causa. Vale per le dottrine economiche che hanno prodotto questo disastro. Ma vale anche per il sistema politico, portato al collasso dalla cosiddetta seconda Repubblica. Ovviamente, la discussione è aperta su quale sia la ricetta migliore. C’è anche chi sostiene che la dottrina non vada affatto cambiata, e che debba essere applicata in modo più rigoroso, perché il difetto è stato nell’approssimazione, nell’imperfezione delle forme.

Abbiamo inseguito per due decenni il mito del modello anglosassone. È quanto mai di- stante dalla nostra cultura politica e istituzionale. Per questo lo abbiamo pure deformato. Le elezioni parlamentari sono diventate elezioni quasi-dirette del premier. La nostra Costituzione è stata violata nello spirito. E il risultato non poteva essere più penoso: governi instabili, trasformismo parlamentare in aumento, fino alla perla del Porcellum che ha sottratto al «cittadino-arbitro» persino la facoltà di scegliere deputati e senatori. Si voleva abbattere la democrazia dei partiti, ritenuta responsabile del tracollo e della corruzione della prima Repubblica. Si è finito per colpire, attraverso i partiti, il potere di incidere sugli indirizzi di governo, di partecipare a un progetto e ai suoi, sempre necessari, correttivi. Alla democrazia di indirizzo si è opposta la democrazia di mandato. I partiti non dovevano rinnovarsi: dovevano ritirarsi, ovvero ridursi a cartelli elettorali. Avevano occupato luoghi impropri dello Stato al fine di riprodurre il consenso. Ma invece di tornare ad essere motori della partecipazione, del collegamento tra società e istituzioni, i partiti dovevano consegnarsi nelle istituzioni, ovviamente in un ruolo secondario. Il governo, solo il governo è stato indicato come il vero, unico scopo della politica.

Così siamo arrivati al collasso. Non solo: siamo arrivati ad una frattura sociale e politica, che rischia di compromettere la tenuta stessa della nostra democrazia. Bisogna tornare a distinguere il partito dalla funzione di governo. Il partito partecipa con impegno al governo presente, prepara quello futuro, ma non può essere solo questo. Il partito è anzitutto un corpo intermedio, un’espressione della società civile benché organizzata al fine di incidere nelle istituzioni. La stessa sovrapposizione tra leadership di partito e leadership di governo è iscritta dentro le cause di questa crisi. Al congresso del Pd il tema scotta: ma la questione va bene al di là di uno statuto che non funziona (perché concepito auspicando uno schema bipartitico che oggi è del tutto irrealistico) e che, comunque, dovrà essere ripensato dopo le prossime primarie (qualunque sia il risultato).

Il punto è riscoprire la differenza tra partito e governo. In questo spazio c’è la riserva democratica di partecipazione e di innovazione, che oggi manca alla politica. Certo, il governo è una cosa seria. Il governo è importante anche quando, come in questo tempo, il suo potere è scarso, spesso addirittura resi- duale. Stiamo assistendo a un divorzio tra politica e potere: la finanza, le tecnocrazie, i poteri esterni limitano tremendamente il campo d’azione degli organismi democratici nazionali. Tuttavia, operare bene in quegli spazi stretti è un indice di moralità. Guai se il partito rinunciasse a giocare la sua partita nei campi in cui le scelte sono possibili, gli ordinamenti incidono sui diritti dei cittadini, l’intervento pubblico può temperare il mercato con principi di redistribuzione e di uguaglianza.

Ma il partito deve coltivare anche il futuro, il cambiamento di domani. Se il governo impone vincoli di ogni natura, il partito deve essere capace di raccogliere energie che guarda- no, pensano, discutono oltre quei vincoli. Non è una comoda, o astratta, divisione di ruoli: è in gioco il destino, la credibilità stessa della democrazia. Si guardi bene cosa sta accadendo oggi: da un lato c’è la «governabilità», co- stretta a contendersi le scarse risorse e a giocarsi la faccia su riforme parziali, che magari indicano una direzione di marcia; dall’altro lato c’è una domanda di innovazione radicale, di rottura delle compatibilità esistenti, che facilmente sfocia in movimenti anti-sistema. Ma così le speranze di cambiamento rischiano di scontrarsi, senza mediazione, contro ogni opzione riformista.

Si dirà: per evitare la contrapposizione basterà un leader di partito con grandi capacità evocative e comunicative. Ciò che dovrebbe fare il partito, può farlo lui, con il carisma personale. Ci permettiamo di dubitare. È stata l’illusione di questo ventennio: e ne abbiamo visto il fallimento. Bisogna ricostruire i partiti, rinnovandone forma e organizzazione. La ricostruzione, tuttavia, sarà impossibile dentro la dottrina dominante della seconda Repubblica e dentro lo schema istituzionale che privilegia governi e coalizioni alla soggettività di partiti con vocazione sociale. La filosofia del partito schiacciato sulla funzione di governo è la stessa che riduce la società ad un insieme di individui, che polarizza Stato e cittadini annullando i corpi intermedi. Il partito invece è funzione della democrazia di indirizzo: così la volevano i nostri costituenti. Poi qualcuno ci ha spiegato che la modernità imponeva la semplificazione: il risultato è stato l’espatrio del potere e la servitù accresciuta delle classi più deboli.

L’Unità 10.09.13