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“La barzelletta del lampione spiega la crisi”, di Jean-Paul Fitoussi

Viviamo in tempi irragionevoli, nei quali la più grande miseria vive accanto alla più grande ricchezza e ciascun Paese è un modello in scala del mondo, diviso in diversi livelli di povertà. Una parte della popolazione dei Paesi sviluppati, ancora piccola ma crescente, è in pericolo. Trova difficile accedere alla sanità e dipende dalla carità altrui per nutrirsi, vestirsi o dormire. Il numero di lavoratori poveri continua ad aumentare: vivono in auto, oppure occupano alloggi malsani. Significa che i nostri sistemi non sono più in grado di garantire la sopravvivenza di tutta la popolazione? […] È dunque tutto irragionevole quel che accade al mondo oggi: il livello di disuguaglianza e quello di disoccupazione, la massa delle carriere interrotte, il numero incredibile di persone che non riescono nemmeno ad avviarne una o di quanti si arenano a qualche anno dalla pensione, l’enormità delle fortune accumulate, l’oscenità di alcune remunerazioni, l’insicurezza generalizzata che regna nei Paesi ricchi. Siamo diventati più egoisti, o ci siamo abituati a questa evoluzione del nostro ambiente avendo perso la speranza di poterlo cambiare? Ci sono un po’ tutte e due le cose nel nostro nuovo contratto sociale. Ma se oggi accettiamo quel che ieri ci sembrava inaccettabile, è anche perché ci viene ripetuto all’infinito che non esiste altra strada possibile.
Il culmine dell’irragionevolezza è la razionalizzazione di questi avvenimenti. […] Da dove viene questa irragionevolezza, e perché l’accettiamo? Forse non si vuole vedere niente di ciò che si trama lontano dalle luci dei luoghi di potere. Quasi tutti conoscono la storia del tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì, ma perché quello era l’unico punto illuminato della strada. Di solito le barzellette non sono immediatamente comprensibili ovunque. È raro che l’umorismo attraverso le frontiere e in genere resta connotato a livello nazionale. Ma in questo caso potrebbe avere a che fare con una caratteristica inerente alla natura umana: cercare di vederci chiaro, che si parli di vista o di riflessione. […] «Più la scienza progredisce, meglio comprende perché non può venire a capo dei problemi», scriveva Claude Lévi-Strauss. Perché la penombra rimane confusa e l’oscurità è impenetrabile. Siamo noi a scegliere cosa occorre illuminare, i fenomeni da analizzare, i sistemi
di misurazione che conviene utilizzare, gli obiettivi da perseguire. Ma se compaiono fenomeni nuovi, o se ne riemergono altri che pensavamo appartenere al passato e i nostri sistemi non sono più adatti a misurarli, allora perdiamo qualunque possibilità di vederci chiaro. Ed è quando non capiamo più cosa succede che le nostre decisioni sono più spesso errate.
Se gli obiettivi che la politica economica porta sotto i riflettori non sono davvero importanti per le società, non avremo alcuna possibilità di comprendere perché il fatto di averli raggiunti non risolva in alcun modo il problema iniziale. Quello che chiamo teorema del lampione esprime esattamente questo tipo di impossibilità. Ma il teorema va un po’ oltre: possiamo scegliere cosa vogliamo illuminare, siamo noi che decidiamo il posizionamento dei lampioni. E se le nostre scelte non sono pertinenti, le nostre ricerche saranno infruttuose. Nell’ambito dell’agire politico questo può avere conseguenze gravi, perché gli errori possono accumularsi: errori nella definizione dell’obiettivo, nella sua valutazione, nella scelta degli strumenti utilizzati in funzione dei fini ricercati, vale a dire nella teoria o dottrina che presiederà all’azione.
Da tempo, seguendo il pensiero dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica — che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil — e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione. Si sa quel che è accaduto. La stabilità dei prezzi si è rivelata compatibile con la massima instabilità economica e finanziaria. La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata
il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta. Non erano stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per le società. Come la luce delle stelle morte ci arriva ancora molto tempo dopo la loro fine, quella di teorie invalidate a più riprese dai fatti continua a espandersi. Una società composta di folli razionali sarebbe una società spietata, di diffidenza generalizzata e di continua paura. […]
Le crisi europee sono un’allegoria dei problemi che fatichiamo a risolvere quando collochiamo i lampioni nei posti sbagliati. Si può risolvere un problema politico — di tipo costituzionale — per mezzo di misure essenzialmente economiche? Una moneta può rimanere a lungo senza sovrano? L’Europa è figlia dell’economia, ma è orfana della politica; da qui il suo smarrimento. Bisogna perseguire la sostenibilità del debito pubblico a spese della sostenibilità dello sviluppo, e in particolare dello sviluppo dell’uomo? Un’unione monetaria può reggere a lungo strategie di svalutazione (reale) competitiva?
Un’allegoria, dicevo, che mette in evidenza tutte le azioni che si possono intraprendere, che sono state intraprese e che si continuano a intraprendere alla luce di una stella morta. John Quiggin parla di «teoria economica zombie» per descrivere questo strano insieme di idee morte che vagano sempre tra noi. Ma esiste qualcosa di più profondo che ci impedisce di sbarazzarcene per esporle al museo delle scienze, qualcosa di fondamentalmente politico che continua ad animare implicitamente tutti i nostri dibattiti: la diffidenza verso la democrazia, la paura che il suffragio universale porti a un’uguaglianza troppo grande. Se il pensiero dominante è convinto che l’autoregolamentazione dei mercati sia sempre superiore alla regolamentazione dello Stato, è proprio in ragione di questa diffidenza. Altrimenti, come spiegare perché continuiamo ad affidarci alle virtù del mercato anche quando veniamo edotti delle sue debolezze? La crisi finanziaria avrebbe dovuto farci comprendere a quali sventure possono condurci le sue disfunzioni. Non abbiamo imparato niente, per continuare ad affermare che l’unica cosa importante è la concorrenza e che mercati più liberi faranno il resto? […] Se non abbiamo colto la misura di questi cambiamenti, forse è perché manchiamo… di adeguati sistemi di misurazione. È fondata l’estrema attenzione che dedichiamo alla crescita del Pil per abitante quale misura di ogni cosa? Le cifre della crescita non ci dicono nulla di quel che accade alle società, se non altro perché si tratta di una media che non riflette la sorte dei più. Il nostro fine ultimo dovrebbe essere il benessere e non è perché non sappiamo ancora misurarlo correttamente che dobbiamo sacrificarlo agli obiettivi che crediamo di saper misurare.
È assolutamente evidente che quel che noi misuriamo, o scegliamo di misurare, esercita un’influenza decisiva sulle nostre azioni. L’aritmetica è politica, come diceva William Petty tanto tempo fa. […] È giunto il momento di valutare le conseguenze delle politiche che i nostri governi portano avanti riguardo a questi due obiettivi maggiori: il benessere e la sostenibilità. […] Mi sembra che le politiche di austerità condotte attualmente in Europa influiscano negativamente sia sul benessere sia sulla sostenibilità. L’irragionevolezza e la cecità hanno progressivamente costruito il mondo poco ospitale nel quale viviamo oggi. Tranne qualche eccezione, continuiamo ciò nonostante ad agire come se ci trovassimo nel mondo di prima, come se le crisi che abbiamo attraversato una dopo l’altra non fossero che parentesi destinate a richiudersi al piú presto. Onestamente, possiamo ancora credere a questa chimera?
Traduzione di Maria Lorenza Chiesara
Anticipiamo un brano del nuovo libro di Il Teorema del Lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale

La Repubblica 02.09.13