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“Chi crede ai trucchi del Cavaliere”, di Curzio Maltese

La minaccia di far cadere il governo era un bluff, come prevedibile, ed è durato ancora meno del previsto. Berlusconi in persona ha dato il contrordine, falchi e colombe sono rientrati nel pollaio. È andata male. Qualcuno del resto poteva credere che si facesse sul serio? La permanenza del governo Letta è l’unico salvacondotto possibile rimasto a Berlusconi.
Un’ancora alla quale si è aggrappato con forza. Le ipotesi alternative sarebbero state una follia. Da un lato, c’era la prospettiva di un Letta bis senza i voti decisivi del Cavaliere. Dall’altro, l’avventura di elezioni anticipate in autunno, che sarebbero state drammatiche per il Paese e probabilmente catastrofiche per il centrodestra. In entrambi i casi, per Berlusconi avrebbe significato la condanna all’irrilevanza politica. Come sempre, ha scelto la soluzione migliore per i propri interessi. Non senza aver inflitto al Paese l’ennesimo trucco. Per settimane i media sono corsi dietro al bestiario di falchi e colombe e pitonesse, prima di rendersi conto che era il solito teatrino di cortigiani dove il padrone passa ogni tanto a distribuire le parti in commedia.
La recita è finita secondo la logica. Il governo va avanti e il Parlamento voterà la decadenza di Berlusconi da senatore. La guerra o la guerricciola istituzionale è finita. Peccato che la destra si sia dimenticata di avvisare qualche amico del Pd. Nessuno per esempio ha avvertito Luciano Violante, che continua a combattere nella jungla come un soldato giapponese la sua battaglia contro il nemico che più l’ossessiona: l’antiberlusconismo. Per la verità sono molte le cose delle quali il senatore sembra rimasto all’oscuro, almeno a giudicare dalla sortita di ieri. Il senatore Violante ha ricordato il diritto alla difesa di Berlusconi contro le tentazioni del Pd di trasformarlo in un nemico assoluto e ha esortato il proprio partito ad ascoltare le ragioni dell’avversario.
Violante non è stato informato che Berlusconi oggi non è più il nemico assoluto e tecnicamente neppure un avversario del Pd, ma il suo principale alleato di governo. Come tale le sue ragioni sono ascoltate tutti i giorni dal partito di Violante e anzi, secondo molti elettori del centrosinistra, perfino un po’ troppo. Altra informazione non pervenuta al senatore è che il processo a Berlusconi si è già celebrato in questi anni, in cui l’imputato ha potuto largamente usare e anche abusare del diritto alla difesa dentro e fuori le aule, nel processo e dal processo. Ormai non rimane, secondo Costituzione, che prendere atto della sentenza definitiva. Berlusconi non intende farlo, ma ci vuole un bel coraggio per definire un simile atteggiamento «diritto alla difesa».
Ancora una volta il Pd riesce a trasformare un problema della destra in uno proprio. Alla fine la destra ha compiuto la scelta più raziocinante, la più conveniente. Ha evitato il voto anticipato e lo spettro di un’esclusione dalla maggioranza. La scelta più conveniente per il Pd, una volta svanita la minaccia e il bluff della destra, sarebbe stata di chiudere la vicenda in fretta, archiviare il caso Berlusconi e tornare a occuparsi dei problemi seri del Paese. Ecco che invece il partito riprende a lacerarsi con una discussione assurda e fuori tempo. È davvero difficile capirne la necessità. Chissà, forse siamo noi a non essere bene informati. Dal ’96 in poi ci siamo chiesti perché il governo di centrosinistra non avesse approvato in Parlamento una legge sul conflitto d’interessi e sul sistema televisivo. Prima di apprendere un giorno, anni dopo, dalla voce dello stesso Violante in Parlamento che c’era un accordo sottobanco fra i dirigenti della sinistra e Berlusconi per «non toccare le televisioni e le aziende ». Se anche stavolta esistono «patti della crostata» fra vertici di centrosinistra e Berlusconi, i cittadini dovranno aspettare altri
nove anni per saperlo?

La Repubblica 02.09.13

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“Senato e corte d’Appello i giudizi paralleli sull’ex premier con l’incognita del sorpasso”, di LIANA MILELLA

Avete presente il gioco delle tre carte? Pare proprio che Berlusconi, i suoi legali e i suoi consiglieri si stiano esercitando con le carte dell’interdizione, della Consulta e della Corte di Strasburgo, muovendole in tutta fretta per scoprire dove si può nascondere la pedina dov’è scritto “rinvio della decadenza”, alias congelamento della legge Severino. Con conseguente salvataggio del Cavaliere e del governo. Ogni giorno c’è una trovata che puntualmente s’infrange contro le regole e contro il niet di chi ha la maggioranza nella giunta per le immunità del Senato (Pd, M5S, Sel, Sc) ed è deciso a votare rispettando la legge che parla di procedura
«immediata».
La giunta si può fermare per aspettare che la Corte di appello di Milano decida prima sull’interdizione?
Sarebbe una procedura del tutto anomala. La legge Severino e l’interdizione dai pubblici uffici sono istituti differenti. La prima raccomanda rapidità di procedura per evitare che il condannato resti in Parlamento nonostante la sua nuova condizione, per la quali altri, già condannati prima del voto, sono stati esclusi a monte dalle liste. Se la Cassazione avesse fissato la misura contestualmente alla pena, la giunta e l’aula ne avrebbero preso atto prima. Si sarebbe scatenata lo stesso la bagarre. Ma il rinvio dell’interdizione ha lasciato il passo alla Severino e se la giunta aspettasse si creerebbe un singolare precedente.
In caso di rinvio quanto tempo deve aspettare la giunta?
Parliamo di molti mesi, ma tutto dipende da cosa faranno i legali di Berlusconi e la Cassazione. Bisogna tener conto che sull’interdizione, a Milano, si farà un vero processo, anche se stimabile in un paio di udienze. A metà settembre, in Corte di appello sarà individuata la sezione, probabilmente la terza, e qui il presidente dovrà formare il collegio, scegliere il relatore, avvisare le parti. C’è un calendario già fissato e la causa di Berlusconi andrà in coda, non ci saranno né accelerazioni né scavalchi. È ipotizzabile che il processo possa tenersi tra fine ottobre e inizio novembre.
Quanti anni di interdizione rischia?
In primo e secondo grado aveva avuto 5 anni perché i giudici avevano scelto la misura massima vista la gravità del reato di frode fiscale. Il pg della Cassazione Antonello Mura ha proposto 3 anni, il parametro previsto dal codice per i reati tributari. Il collegio gli ha dato ragione.
L’ultima parola spetta di nuovo alla Cassazione?
È scontato che gli avvocati del Cavaliere vi ricorreranno dopo la nuova pronuncia della Corte di appello, ma la Cassazione potrebbe anche dichiarare il ricorso inammissibile. In tal caso i tempi sarebbero più brevi. Se si fa il processo alla Suprema corte i tempi si allungano e l’interdizione definitiva non si avrà prima di gennaiofebbraio 2014.
Berlusconi interdetto cosa non potrà fare?
Dovrà lasciare il Parlamento, non potrà candidarsi e non potrà neppure votare, la sua “agibilità politica” sarà tagliata a monte.
La giunta può ricorrere alla Consulta per chiarire il rapporto tra legge Severino e interdizione?
Per la maggioranza della giunta la legge è chiara e il ricorso alla Corte non è neppure possibile perché la giunta non possiede i requisiti per fare questo passo. Per la legge elettorale ha già rinunciato. Gli eventuali dubbi sulla Severino potrebbero essere chiariti con una leggina interpretativa.
Berlusconi ricorrerà a Strasburgo contro la sentenza e contro la Severino. La giunta si può fermare in attesa del responso?
Le regole della Corte dei diritti dell’uomo stabiliscono che i ricorsi sono possibili qualora siano state esperite tutte le procedure interne. Qui, invece, nulla di ciò è ancora avvenuto perché, nell’ordine, il processo è aperto, la giunta non ha ancora deciso su Berlusconi, non c’è stato un ricorso alla Consulta. Quindi è praticamente certo che Strasburgo respingerà la richiesta come inammissibile».
La casistica della Corte dà chance al Cavaliere?
All’opposto, ci sono tre precedenti — uno italiano, uno francese, uno lituano — in cui si stabilisce che le limitazioni all’elettorato attivo e passivo in caso di condanna sono compatibili con le norme
Cedu perché non si tratta di conseguenze penali, ma di valutazioni sui criteri di ammissibilità alle liste.
Cosa può fermare la discussione in giunta sulla decadenza?
Tecnicamente non c’è nulla. Politicamente ci sarebbe solo un voto per dire che Berlusconi, in quanto Berlusconi, non può essere oggetto di decadenza. Ma è evidente che si tratta di un’ipotesi non suffragata da ragioni e quindi improponibile.

La Repubblica 02.09.13

“Dietro il caos in Siria l’ombra dell’Iraq e i regni dell’oro nero”, di Gilles Kepel

La cronaca di un attacco annunciato contro la Siria di Bashar al-Assad coincide più o meno con il dodicesimo anniversario dell’11 settembre. L’ostentata volontà franco-americana di bombardare un Medio Oriente in cui si moltiplicano le spaccature dopo le rivoluzioni del 2011 non è che l’ultima replica del big bang che ha aperto il XXI secolo. Ma le esplosioni ricorrenti del vulcano arabo liberano delle forze irreprimibili, protagoniste impreviste del mondo di domani. Le rivoluzioni arabe sono in primo luogo il prodotto della decomposizione di un sistema politico concepito per resistere alla paura della proliferazione terroristica dopo la «doppia razzia benedetta su New York e Washington» perpetrata da bin Laden e dai suoi accoliti. Contro Al Qaeda, avevamo eretto un baluardo di regimi autoritari e corrotti, ma dotati di servizi di sicurezza efficienti. L’esigenza della democrazia era stata sacrificata sull’altare della dittatura, ma Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e altri come Ali Saleh, non sono stati altro che dei despoti patetici che hanno cristallizzato contro se stessi il malcontento popolare, portando a delle rivoluzioni che sono dilagate da Tunisi al Cairo e da Bengasi a Sana’a nella primavera del 2011.
Nel frattempo, Al Qaeda aveva investito le sue energie per creare un improbabile «Emirato islamico di Mesopotamia» nell’Iraq occupato dagli Usa dopo il marzo del 2003. Si è infranta nella sua corsa folle agli attentati suicidi, sognando invano di infliggere all’America un Vietnam jihadista. Nei suoi confronti, i neoconservatori americani, credendo di riscattare il loro onore militare con il dispiegamento di un arsenale invincibile contro uno «Stato canaglia», si prendevano una rivincita simbolica contro gli aerei lanciati contro le Torri Gemelle. Speravano di raggiungere un duplice obiettivo. Rovesciando Saddam Hussein, punivano un dittatore sunnita sospettato di avere creato bin Laden. E portavano al potere la maggioranza sciita in Iraq, che credevano filo-americana, amica di Israele, e perfino capace di far vacillare il regime dei mullah di Teheran. Questi ideologi imbevuti di guerra fredda si sono rivelati degli apprendisti stregoni. Lungi dal vacillare, Teheran è rapidamente diventata la fornitrice di armi e la finanziatrice dello sciismo iracheno. E sono questi sciiti che hanno spezzato le reni all’organizzazione terroristica sunnita, finanziata dai petrodollari provenienti dalla riva araba del Golfo Persico. Infine, sotto gli auspici di Maliki, Bagdad è diventata la migliore alleata di Teheran.
La guerra in Iraq ha dunque avuto due conseguenze paradossali. Ha rafforzato l’asse sciita diretto da Teheran, che ora ha un forte sostegno a Bagdad, e, inoltre, Damasco, gli Hezbollah libanesi e (fino al 2012) il movimento Hamas palestinese, unico partner sunnita della coalizione. E ha disintegrato Al Qaeda, così le dittature sono apparse inutili o addirittura dannose. Soprattutto, Teheran, fornendo via Damasco le armi ai suoi debitori di Hezbollah e di Hamas, ha
proiettato la sua frontiera militare sui confini dello stato ebraico, tramite gli alleati interposti. Di fronte al rafforzamento di questo asse sciita, il cui controllo dell’arma nucleare sconvolgerebbe la geopolitica globale dell’energia, perché trasformerebbe il Golfo Persico in un lago iraniano, il mondo sunnita subisce una prima scossa con le rivoluzioni arabe. Le «primavere arabe» sono state accolte con benevolenza in Occidente, ma hanno comunicato un’ondata di panico nella spina dorsale delle monarchie petrolifere del Golfo.
La prospettiva di un «contagio democratico » ha terrorizzato queste dinastie i cui membri monopolizzano i proventi del petrolio e del gas. Il pericolo toccava ormai la penisola arabica stessa, mentre la comunità internazionale guardava da un’altra parte lasciando prevalere gli idrocarburi in pericolo sui diritti umani a rischio. Eppure, il Consiglio di cooperazione del Golfo si è diviso profondamente rispetto alle rivoluzioni arabe. Il Qatar, seconda potenza produttrice di gas al mondo, si è impegnato a dare un massiccio sostegno materiale e mediatico, attraverso la Al Jazeera, ai Fratelli Musulmani. Ha visto in questo islamismo socialmente conservatore la massa umana critica capace di farlo diventare la potenza egemonica del mondo arabo sunnita. Per contro, l’Arabia Saudita e gli altri emirati hanno fatto blocco contro i Fratelli, che fanno concorrenza alla loro intenzione di controllare l’Islam mondiale. L’Arabia ha sostenuto ovunque i salafiti, rivali dei Fratelli. Tuttavia, parte di questi elementi sono finiti nell’attività jihadista violenta. È in questo contesto che si è sviluppata la rivoluzione siriana. All’inizio, aveva lo stesso profilo che in Tunisia o in Egitto: una gioventù istruita si metteva a capo delle rivendicazioni democratiche contro un potere autoritario. Ma l’intensità della repressione e la sua trasformazione graduale in guerra civile a carattere confessionale ha impedito il sollevamento delle forze armate contro il presidente. Il finanziamento in petrodollari e la distribuzione di armi provenienti dai Paesi del Golfo — uniti per sostenere i sunniti che avrebbero scardinato l’asse sciita se Damasco fosse caduta — ha cambiato la situazione sul terreno, favorendo la penetrazione militare dei gruppi islamisti e rendendo più difficile il sostegno alle forze democratiche
della resistenza.
La Siria diventa dunque l’epicentro dello scontro tra l’asse sciita e i suoi avversari sunniti, ostaggio di una guerra per procura fatta prima di tutto per controllare gli idrocarburi del Golfo. La vittoria di Assad rafforzerebbe Teheran e, dietro all’Iran, la Russia, messa da parte in Medio Oriente. È su questa mappa contrastata che si è aperto nel 2013 il «terzo tempo» della dialettica delle rivoluzioni arabe: la reazione contro i Fratelli musulmani. A quel punto, si è prodotto un importante riallineamento nella regione, di cui hanno immediatamente tratto profitto i dirigenti siriani, iraniani e russi: l’esplosione del blocco sunnita in due fazioni rispetto al sostegno o all’ostilità verso i Fratelli Musulmani. Questa spaccatura profonda separa la Turchia e il Qatar, da una parte, e gli altri paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa.
Questo è il contesto in cui sono state usate le armi chimiche nella periferia di Damasco. Se si scoprisse che il regime è l’autore di questo bombardamento sarebbe una provocazione per la comunità internazionale, per la quale questa rappresenta, come ha detto Obama, una «linea rossa». È la violazione di questa norma morale che i presidenti americano e francese invocano per agire in nome dell’umanità contro la barbarie. Tuttavia, l’invocazione di questi principi riscuote poco successo tanto nell’opinione pubblica dei paesi coinvolti che tra gli alleati, dagli altri paesi europei alla Lega Araba. Soprattutto, la riaffermazione russa cambia profondamente la situazione rispetto a un’operazione militare. Mosca non vuole subire un nuovo Afghanistan. La paradossale accoppiata francoamericana ha i mezzi per prolungare l’unilateralismo che è prevalso dopo la caduta del muro di Berlino? Oppure l’Occidente, diviso, è costretto ad agire nel quadro di un nuovo multipolarismo?
(traduzione di Luis E. Moriones)

La Repubblica 02.09.13

“La città degli schiavi dei pomodori”, di Elisa Baffoni

Da lontano non si vede. Campi sterrati, campi appena piantati, campi in maturazione. Campi dietro campi: devi arrivare a cinquanta metri per vedere le prime «case», accolte in una leggera infossatura del terreno che le nasconde alla vista, ombelico della terra: il Ghetto. Lo chiama così chi ci abita: il Ghetto. Non «il ghetto di Foggia», il Ghetto. Un nome, non un giudizio. È una città: con le sue strade, gli assi ortogonali che di notte diventano «il corso», le piazze là dove ci sono i bidoni dell’acqua potabile, i rubinetti di quella non potabile per lavarsi. Una città che ospita in questi giorni mille e trecento persone, in larga parte giovani maschi africani che di giorno vanno a fare i braccianti nei campi in Capitanata, la seconda pianura d’Italia dopo la val Padana.
Il primo impatto è straniante. Baracche, nient’altro. Un lusso le pareti di bandone o lamiera. Di regola le colonne portanti sono di assi di legno su cui viene inchiodato compensato di risulta e vecchi cartelloni pubblicitari. All’esterno grandi plastiche a fasciare le strutture, solidamente fermate dai tubi dell’irrigazione inchiodati sul legno. Vecchi infissi ripescati in discarica, rare e piccole le finestre, la luce entra dalla porta, a volte protetta da un porticato; gran uso di tapparelle come staccionata.
È cominciato così: qualche casa colonica abbandona, occupata e riattata per la stagione. L’anno dopo accanto alle case, ecco le prime baracche, che l’inverno venivano smontate, ma già qualcuno si fermava nelle case. Poi le baracche si sono moltiplicate, molte sono abitate anche d’inverno. Dopo i fatti di Rosarno, vi si sono rifugiate 150 persone. Lo scorso dicembre c’erano 250 abitanti e, dopo la chiusura di «Emergenza Nordafrica», in maggio c’erano già 500 persone. L’anno scorso erano 900, quest’anno 1.300.
Baracche. Eppure l’uniformità del sistema di costruzione dà uno stile, una riconoscibilità a queste abitazioni molto diverse dalle baracche degli immigrati campani o abruzzesi alle porte di Roma fino agli anni ‘80 affogati nel degrado. Qui grazie alla Regione Puglia c’è l’acqua, potabile e no. I bagni chimici. La raccolta dei rifiuti; se qualche plastica viene portata per i campi via dal vento battente è perché i sacchi accuratamente chiusi non vengono tutti raccolti, e i randagi li lacerano a morsi nella notte. Due volte a settimana c’è il furgone di Emergency che fa ambulatorio (ma la Asl?). C’è persino Radio Ghetto, affiancato dalle Brigate di solidarietà attiva, che trasmette nelle moltissime lingue che si parlano in Senegal, Mali, Guinea Bissau, Costa d’Avorio, Guinea Conakry. Non c’è luce: di notte sono i punti di ritrovo a colorare di neon la strada principale. Da luglio a settembre c’è il campo di lavoro di «Io ci sto», ragazzi e non che dalle 17 alle 21 insegnano italiano e insieme ai ragazzi senegalesi e maliani riparano le biciclette, indispensabile strumento di mobilità. Due volte a settimana ci sono gli «avvocati di strada» che informano su diritti del lavoro e permessi di soggiorno. Ogni tanto compare qualche sindacalista, ma senza un luogo attrezzato, una postazione, un appuntamento fisso.
È vero, non c’è solo il Ghetto. In Capitanata sono 22mila residenti, a cui si aggiungono per la stagione della raccolta altre 16mila braccianti. Oltre agli africani. Sono gli europei (rumeni, polacchi, albanesi) che occupano i ruderi delle case coloniche o trovano altri ricoveri di necessità e a volte vengono segretari e schiavizzati. Ma il Ghetto è un’altra cosa. Un bel libro, «L’urbanistica del disprezzo», descrive come vivono in Italia i rom, e perché. Più che il disprezzo, per il Ghetto c’è invece «l’urbanistica dell’esclusione», dello sfruttamento. Lontani dalla città quando c’è scuola un pullman garantisce almeno il collegamento con Rignano, d’estate c’è solo una corsa alle 7.40 con ritorno verso le 10 nemmeno visibili, chi sta al Ghetto non ha che da lavorare, dormire, mangiare. C’è qualche «ristorante» che funziona anche da bar e a volte da bordello, frequentato anche da italiani c’è un barbiere, uno spaccio, il mercato: qualche ambulante che vende abiti usati e stoffe: soprattutto tende, grandi tende da interni che vengono drappeggiate nelle stanze per nascondere le pareti e abbellirle con cura. C’è un mercato informale, a volte illegale. Ma c’è anche solidarietà, nessuno rimane digiuno anche se non ha trovato lavoro.
Ora c’è chi vorrebbe cancellarlo. Una vergogna, dicono: buttiamolo giù. Meglio una tendopoli, ingressi controllati, mensa e polizia (e magari qualche nuovo posto di lavoro per italiani). Ma chi non ha il permesso di soggiorno sarebbe escluso, di nuovo. Di nuovo dovrebbe costruirsi una baracca nascosta. Il Ghetto è una vergogna. Sotto però c’è un’altra vergogna: quella dello sfruttamento, del caporalato che, nonostante la legge lo vieti, è più vivo che mai. Una vergogna le paghe da fame, 3.50 euro l’ora contro le 7.36 del contratto. E c’è qualche azienda che si spinge anche più in basso: domenica scorsa una squadra di undici braccianti si è sentita proporre una paga di 2.50 euro. Hanno rifiutato, e ci vuole coraggio, sono tornati al Ghetto.
Alla grettezza delle aziende si aggiunge il giogo del caporalato. I caporali, o i «capineri» (africani che ormai li hanno quasi sostituiti), tengono i contatti con le aziende, organizzano le squadre e le portano sul posto di lavoro riscuotendo 5 euro a testa, contrattano e ritirano le paghe e ci fanno una congrua cresta. Di norma strappano alle aziende 5 euro l’ora, ma al bracciante ne arriveranno 3.50. Meccanismo perfettamente descritto dal corto Caponero Capobianco (http://www.iocisto. eu/i-media/video-2/162-caponero-capobianco.html).
Se un bracciante avesse un contratto normale, potrebbe pagare un affitto e vivere a Foggia. Questo è il modo giusto per distruggere il Ghetto. Qualcuno ce la fa, una sessantina di persone almeno tornano al Ghetto solo per ritrovare gli amici. Giacché il ciclo delle culture si è ampliato (si comincia con l’orzo e il grano, poi pomodoro, zucchine e melanzane, cipolle e zucche, uva e olive, broccoletti e finocchi e carote) qualche rara azienda ha scelto di dare un contratto. Ma sotto molti dei contratti registrati all’Inps c’è un inganno: si assumono parenti e amici che non andranno mai nei campi ma riscuoteranno contributi e cassintegrazione invernale, così chi lavora davvero è truffato 2 volte.
Lavoro pulito e dignità, questo è il piccone che può distruggere il Ghetto. Ogni alternativa lascia intatto il problema e lo nasconde sotto un tappeto diverso. In quella città negata c’è «un serbatoio prezioso dice Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano con un lungo percorso da migrante e missionario, direttore di Migrantes per la diocesi Manfredonia-Vieste-s.Giovanni Rotondo e animatore di Io ci sto di energie e speranze per questi ragazzi migranti. E ci sono piccole azioni positive. Come la scuola di italiano, che dà uno strumenti indispensabile di cittadinanza. Come la ciclofficina, che mantiene in efficienza un mezzo di trasporto economico così da bypassare il caponero e andare direttamente a contrattare la giornata di lavoro. Ma soprattutto l’incontro tra giovani italiani e giovani braccianti, i cui contatti con gli italiani si limitano spesso a poliziotti, caporali, mafiosi e sfruttatori. L’incontro produce rapporti, fermenti, fiducia. I braccianti hanno l’obiettivo di mandare 50 euro al mese a casa, per i loro villaggi è uno stipendio rispettabile. Ma se avessero più giustizia, una paga decente, una casa, una famiglia, magari investirebbero qui. Trent’anni fa noi italiani raccoglievamo pomodori per 12.000 lire l’ora, 6 euro. Oggi i braccianti ne prendono 3.50 e nei mercati il pomodoro costa tre volte di più. Perché il bracciante prende la metà e il consumatore paga il triplo?». La colpa è dell’ago della bilancia, la grande distribuzione che determina il prezzo, decide quanto comprare e da chi. I loro nomi non circolano, ma le loro azioni, qui nel Tavoliere, si vedono chiaramente.
Intanto sotto il tendalino della scuola di italiano, vicino alla bandiera della pace, si impara a scrivere, la testa china sui fogli, l’emozione di sentirsi capaci, sorrisi e risate. E, alla fine, tutti in cerchio a spizzicare taralli e fare conversazione, dalla poligamia al cibo, dalla moda a come si lavora nei campi. Su quel che è avvenuto, ad esempio, qualche settimana fa: lo scorso anno 287 braccianti hanno lavorato due mesi per la stessa azienda che, alla fine, non li ha liquidati. «Alcuni non si sono arresi dice Arcangelo Maira hanno deciso di fare vertenza, di combattere per i loro diritti. Abbiamo cercato i loro compagni, ormai dispersi per l’Italia, in cinquanta hanno chiamato in causa una grande azienda. Un bel segno di speranza».

L’Unità 01.09.13

“Il leader Pdl ha firmato i referendum radicali”, di Mattia Feltri

Se ci fosse un filo conduttore, sarebbe un groviglio. Se fossero due punti, Silvio Berlusconi e Marco Pannella sarebbero uniti da un arabesco. Se c’è uno schema logico per raccontare i rapporti fra i due, non è ancora stato scoperto: lo si può forse rappresentare come il tracciato di un elettrocardiogramma, ma di un paziente malmesso. Appaiati da due pazzie completamente diverse, Silvio e Marco si prendono e si lasciano, secondo un’antica simpatia e secondo i calcoli di rispettiva convenienza, ma soprattutto secondo un’incomunicabilità irrimediabile. Si mettevano lì, venti anni fa, quando il leader radicale ancora credeva (come mezza Italia) che il collega di centrodestra avesse l’intenzione e la forza di inventare qualcosa di rivoluzionariamente liberale. Si mettevano lì e Marco cominciava con Ernesto Rossi, con Gaetano Salvemini, il cattolicesimo liberale di Romolo Murri, e andava avanti per ore e quell’altro, che ha una capacità d’attenzione pari alla durata di uno spot televisivo – e forse aveva qualche amica che lo aspettava o forse cominciava il Milan – cadeva disperato in narcolessia. E nemmeno poteva liquidare l’interlocutore, poiché non è di quelli che gli danno ragione e lo chiamano dottore, ma piuttosto dei pochissimi che lo mandano bellamente al diavolo, o anche altrove.
Fu in quelle condizioni che nacque l’intesa del 1994. Preceduta da qualche incontro qua e là, quando Berlusconi arrivava in via degli Uffici del Vicario, al gruppo radicale, e se c’erano i giornalisti si incipriava in ascensore. E soprattutto da un episodio che avrebbe dovuto far intuire come sarebbero andate le cose. A fine ’93 i radicali si radunarono sotto la sede della stampa estera (dove Berlusconi doveva parlare ai giornalisti) per protestare contro il suo appoggio al «clerico-fascista» Gianfranco Fini contro il laico-progressista Francesco Rutelli nella gara al Campidoglio. Si risolse tutto a baci e abbracci, naturalmente, perché Silvio ignorò i consigli della scorta, andò verso Marco passando in mezzo ai militanti, e queste cose, si sa, al Grande Capo Bianco piacciono da morire. Il problema per entrambi è che le cose finiscono lì. A un’affezione istintiva, nata ai tempi in cui Bettino Craxi teneva le fila del gruppo. Per il resto stop. Uno si tiene le sue idee, quell’altro si tiene i suoi voti, in una relazione clamorosamente infeconda. Una diceria spiega bene – che sia vera o no – il concetto: nel ’94 pare che Pannella chiedesse per sé il ministero della Giustizia; Berlusconi, che alla Giustizia voleva piazzare Cesare Previti, e poi non ci riuscì per l’opposizione di Oscar Luigi Scalfaro, rilanciò col ministero degli Esteri, anche da girare a Emma Bonino. Ma Pannella rifiutò. Ecco, sono trascorsi diciannove anni abbondanti, la Bonino è agli Esteri e, al culmine di una clamorosa serie di fallimenti, in tema di giustizia Silvio torna da Marco (e dai suoi referendum).
Valutato come sono andate le cose, sarebbe stato bello vedere se Pannella alla Giustizia avrebbe cambiato la storia del Paese. E come sarebbe cambiata se, nel 1994, Berlusconi avesse seguito il consiglio del suo ministro Giuliano Ferrara e nominato commissario europeo Giorgio Napolitano. Pochi mesi prima, a Montecitorio, il premier di Forza Italia aveva lasciato i banchi del governo per raggiungere il capogruppo del Pds, reduce da un discorso duro ma sincero, e stringergli la mano; doveva essere l’inizio della pacificazione, già allora. Quando per Napolitano in Europa sembrava tutto fatto, piombò Pannella che seppellì Berlusconi sotto una montagna di parole. Dopo qualche ora, il presidente del Consiglio cedette per sfinimento: che sia la Bonino. Andandosene, Pannella passò davanti all’ufficio di Ferrara e lo salutò col gesto dell’ombrello.
A un certo punto Berlusconi si stancò. Le trattative per l’alleanza alle elezioni del 1996, durate le classiche sette ore, si chiusero bruscamente. Scocciato, Pannella mollò il consesso. Fu Rocco Buttiglione a inseguirlo. Lo cercò fino a notte, ristorante dopo ristorante, e infine lo trovò: «Marco, scusa, hai preso il mio cappotto».

La Stampa 01.09.13

“Docenti di sostegno ecco cosa cambia per le famiglie”, di Melania Di Giacomo

«Da quattro anni con i tagli alla spesa pubblica si è cercato di ridurre il numero delle ore di sostegno a scuola, le famiglie si sono coalizzate, hanno fatto vari ricorsi al Tar e li stanno vincendo. Quindi è necessario che il ministero corra ai ripari». Salvatore Nocera, vicepresidente di Fish, una delle due grandi federazioni delle associazioni di disabili inquadra così la situazione. Ora che si parla di un piano di stabilizzazione, per portare gli insegnanti di sostegno da 65 a 90 mila, le famiglie rivendicano di più. Oltre a un numero adeguato occorre un aggiornamento continuo sulla disabilità per tutti i docenti. Mentre è al lavoro sul decreto che dovrebbe prevedere il piano per l’immissione in ruolo di insegnanti, il ministero dell’Istruzione dovrà anche pensare a come risolvere la questione bonus maturità (assegnato in base al voto di diploma e utile per l’accesso alle facoltà a numero chiuso), dopo che le tabelle ufficiali hanno evidenziato le enormi differenze tra scuole. «Abbiamo rispettato la legge», ha detto il ministro Maria Chiara Carrozza, e «ci stiamo impegnando per una revisione per il prossimo anno accademico».
La stabilizzazione l’hanno già attenuto 1.648 insegnanti di sostegno, una parte degli 11.268 docenti per i quali il ministro Carrozza ha annunciato l’assunzione. Una goccia nel mare, se si considera che l’anno scorso, per coprire le esigenze, il ministero ha assegnato altre 38 mila supplenze. Inoltre, degli insegnanti di ruolo censiti dal Miur nel 2011-2012 solo il 60,4% nella scuola primarie a il 65,9 nella secondarie è impegnato a tempo pieno nello stesso plesso scolastico. Tra scuola elementare e media, dice l’Istat nell’ultima rilevazione disponibile (quella per l’anno scolastico 2011-2012), sono 145 mila gli alunni con disabilità. Di questi, uno su cinque non è in grado di fare attività quotidiane, non è cioè autonomo nel mangiare, spostarsi o andare in bagno, il 7,8% non è capace di fare nessuna delle tre cose e bisogna seguirlo costantemente. In questi casi più gravi hanno bisogno di un’insegnante che li segua nelle 22 ore curricolari, e il risultato è che in molti casi, per gli altri bambini il sostegno è un «collage» di ore. Quando questo accade si crea un rapporto critico con le famiglie che si sentono private di un loro diritto. «È capitato che mio figlio vagasse per la scuola, rincorso da bidelli. Perché il professore non poteva andare a riprenderlo lasciando la classe scoperta», racconta ridendo amaro Gianpaolo Celani dell’associazione italiana persone down (Aidp), papà di un ragazzino che va alle medie. A febbraio al momento dell’iscrizione le famiglie presentano le certificazioni con il grado di disabilità dell’alunno. In base a quante certificazioni sono state presentate vengono stanziati i fondi per la copertura delle ore di sostegno. Il monte ore necessario è poi diviso, scuola per scuola, tra gli insegnanti di ruolo, il resto lo coprono con delle nomine annuali, se è possibile, o con delle supplenze brevi. Ecco perché — misura sempre l’Istat — il 14,8% alle elementari e il 10% alle medie hanno cambiato insegnante durante l’anno scolastico. E non è solo una questione di numeri: «Gli insegnanti “normali” — aggiunge Celani — non hanno una strategia educativa per i disabili. L’insegnante di sostegno dovrebbe fare da fulcro, se non c’è una persona di riferimento è il caos». Stessa cosa la dice Nocera: «Abbiamo sull’inclusione dei disabili una legge che sulla carta è bellissima. Ma si è creata una deriva. I docenti curriculari delegano a quelli di sostegno, in contrasto con quella che era l’impostazione originaria. Vogliamo che riprendano in mano la situazione come per tutti gli altri alunni».

Il Corriere della Sera 01.09.13

“Sulla Casa Bianca il fantasma di Saddam”, di Alexander Stille

Certamente l’elemento sorpresa non sarà il pezzo forte di un eventuale attacco militare americano alla Siria come rappresaglia per i presunti attacchi chimici perpetrati dal governo di Bashar al-Assad. Il presidente Obama chiederà l’autorizzazione del Congresso.
Cercherà così di creare consenso attorno ad un’azione della cui opportunità lui stesso non sembra del tutto convinto. E alla cui eventualità il pubblico americano ha reagito in modo molto tiepido.
Diciamo la verit à: Obama ha davanti a sé in Siria una serie di pessime opzioni. 1. Un pieno intervento militare con l’intento di rovesciare il regime di Bashar al-Assad. 2. Un intervento limitato e inconcludente con conseguenze imprevedibili 3. Non fare nulla.
Obama sembra convinto che la seconda opzione sia la meno peggio. Ma la logica sottesa a questa scelta sembra una logica negativa: non si può non fare qualcosa. Anziché avere un’idea chiara su cosa si vuole fare e su ciò che si vuole ottenere con un attacco militare che potrebbe aggiungere morti civili a questa guerra e avere conseguenze militari e politiche imprevedibili.
Curiosamente l’opinione pubblica americana – disincantata da dieci anni di esperienza in Iraq e dodici in Afghanistan – è molto meno entusiasta della scelta militare.
Spiegando le ragioni degli USA, il ministro degli esteri americano, John Kerry, ha fatto di tutto per distinguere un possibile intervento in Siria dal caso Iraq. Ma i suoi sforzi si sono limitati soprattutto a dimostrare che le prove dell’uso delle armi chimiche da parte del governo siriano sono solidissime e presentate al pubblico in modo trasparente, a differenza delle prove truccate dell’esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq. E Obama, nel suo discorso di ieri, ha voluto coinvolgere il Congresso nel processo decisionale per attenuare la sensazione di una decisione imposta al Paese.
Ma i ragionamenti di fondo per giustificare l’intervento – che sono soprattutto morali – sono molto simili da quelli usati per l’intervento in Iraq. Ormai da vent’anni – dai tempi dal mancato intervento in Rwanda e degli attacchi aerei contro la Serbia per far cessare la pulizia etnica – si è sviluppato un nuovo filone nella politica estera – quella dei cosiddetti “falchi-umanitari.” Ovvero la convinzione che la forza americana, se mirata bene, possa essere una grande forza del bene.
Ecco perché quasi tutte le giustificazioni che sentiamo sono di tipo morale. «La storia ci giudicherebbe aspramente se chiudessimo l’occhio davanti all’uso indiscriminato delle armi di distruzione di massa da parte di un dittatore spietato, contro ogni senso di decenza», ha detto Kerry.
Roger Cohen, commentatore del New York Times, pur di origine inglese, ha scritto: «La credibilità degli Usa, già erosa, è un bene prezioso. Perderla del tutto ci porterebbe verso un mondo molto pericoloso».
Ciò che mi preoccupa è che le ragioni che sentiamo sono tutte esterne alla situazione siriana. Ho paura che il governo americano agirà solo per mantenere la propria credibilità presso gli altri Paesi, o, peggio, come risposta a pressioni di politica interna (i repubblicani cercano di dipingere Obama come un indeciso pavido, tipo Jimmy Carter).
Sentendo Kerry si ha quasi l’impressione che gli Usa sentano il bisogno di agire per ragioni identitarie. «Questo ci importa – ha detto Kerry – per determinare chi siamo, per la nostra credibilità nel mondo. Qui, è in ballo Hezbollah, è in ballo la Corea del Nord, ogni gruppo terroristico».
Sentiamo di tutto tranne quello che dovrebbe pesare di più nel processo decisionale: avrà un effetto positivo in Siria?
L’opinione pubblica americana sente molto meno le sirene dell’idealismo dei falchiumanitari e i ragionamenti identitari. Ed è curioso che il pubblico americano dimentichi molto meno l’esperienza irachena rispetto ai nostri politici.
È facile manipolare l’opinione pubblica quando non sa niente. Ma quando ha un’esperienza consolidata è molto difficile smuoverla dalle proprie certezze. Così George Bush ha avuto gioco facile convincendo gli americani che invadere l’Iraq era una priorit à assoluta. Ma dopo due o tre anni di caos totale, l’opinione pubblica si è convinta in massa che quella guerra fosse un enorme errore e da lì non si è più mossa.
Non è molto sofisticata, ma l’opinione pubblica americana ha capito alcune cose essenziali: questi Paesi sono molto complessi e gli interventi militari hanno effetti imprevedibili e spesso assai poco desiderabili. In Afghanistan abbiamo armato i mujahidin per combattere i russi e sono diventati Osama bin Laden e Al Qaeda. Abbiamo cacciato i talebani e dopo dodici anni di sangue trattiamo con i talebani. Abbiamo rovesciato Saddam e abbiamo creato Al Qaeda in Mesopotamia. E in Siria la miscela di etnie e religioni è forse ancora complessa che in Iraq e in Afghanistan.
«Il nostro problema principale è l’ignoranza, siamo piuttosto ignoranti per quanto riguarda la Siria», ha detto l’exambasciatore americano in Siria Ryan C. Crocker in un’intervista al New York Times.
Dopo quasi quindici di guerra e spese militari costosissime, si sarebbe portati a pensare che abbiamo imparato un po’ di umiltà. In politica estera, come in medicina: prima di tutto, non fare del male. Siamo sicuri che il nostro intervento produrrà un risultato positivo? In Libia era piuttosto evidente che con un impegno militare non grande avremmo fatto cadere Gheddafi – e, nonostante la confusione che ne è seguita, rimane un bene per quel Paese. Nel caso siriano la situazione è ben più complessa: l’appoggio ad Assad è molto radicato e non è chiaro che quelli che verranno dopo saranno più democratici.
Preoccupa molto che l’amministrazione Obama non abbia articolato un chiaro obiettivo strategico in Siria. Vogliamo rovesciare Assad? Siamo sicuri che i suoi avversari siano meglio di lui? Se l’attacco non produce il risultato desiderato e Assad non cambia il suo comportamento, siamo pronti ad altre azioni? Quali? Speriamo almeno che nel dibattito al Congresso ci si ponga queste domande e si cominci a rispondere.

La Repubblica 01.09.13

“È il momento di restituire risorse per le pensioni”, di Cesare Damiano

Ho sostenuto, passo dopo passo, le scelte dell’esecutivo. Dal plauso per la restituzione dei debiti della PA alle imprese, alla iniziativa di Letta in Europa che ci ha ridato dignità e risolto qualche problema, a partire dall’uscita dalla procedura di infrazione. Ho considerato un avanzamento le misure di parziale rifinanziamento della cassa integrazione in deroga e il sostegno all’occupazione giovanile. Ora però la partita si fa pesante perché i ricatti del centrodestra nei confronti del governo non cessano, nonostante il compromesso raggiunto sull’Imu. Spero che, in una coalizione con comportamenti politici asimmetrici, che vanno a tutto svantaggio del Pd (gli ultimi sondaggi Swg sono rivelatori), il nostro partito faccia sentire con più forza quali sono le sue priorità irrinunciabili, altrimenti saremo costantemente sotto scacco.
Parliamo dell’Imu: non ritengo che l’abolizione di questa tassa anche per i più ricchi sia una soluzione politicamente corretta e socialmente giusta. C’è un evidente squilibrio tra le risorse (potenzialmente?) impegnate per togliere la tassa sulla prima casa, oltre 4 miliardi, e quanto viene destinato per la cassa integrazione in deroga e gli esodati. Compensare questo squilibrio nella legge di Stabilità sarà problematico, a meno che non si metta in discussione la cancellazione totale della seconda rata dell’Imu o si percorra la strada dell’aumento della pressione fiscale, non escludendo l’Iva o le accise. Altrimenti le risorse non saranno sufficienti per affrontare tutte le misure. Noi siamo contrari a classificare gli interventi in due grandi categorie: quelli per i quali è lecito impegnare ingenti risorse (l’Imu) e quelli che devono essere realizzati a costo zero (le pensioni). Non a caso la proposta del ministro Giovannini di un «acconto-pensione» non ci convince. Si tratta, dice il ministro, di «uno schema per cui chi è a 2-3 anni dal pensionamento e lascia il lavoro potrebbe per tale periodo ricevere un sostegno economico, che poi dovrà ripagare negli anni successivi: si tratterebbe di una sorta di prestito, senza costi aggiuntivi sul sistema pensionistico». La mia contrarietà si basa sul fatto che si trasforma un futuro diritto previdenziale in un mero intervento di tipo assistenziale; che si pretende addirittura la restituzione di questo acconto quando il lavoratore percepirà la pensione, sapendo che mediamente si tratta di assegni da 1.200 euro netti mensili. Infine, ancora una volta, diventa dirimente nella proposta non prevedere costi aggiuntivi al sistema previdenziale. Su quest’ultimo punto vorrei osservare che con la riforma Fornero abbiamo fatto pagare il conto salato del risana- mento prevalentemente ai pensionati: la Ragioneria dello Stato ha certificato un risparmio superiore ai 300 miliardi di euro tra il 2020 e il 2060.

Forse è giunto il tempo di restituire qualche risorsa alle pensioni senza che questo significhi varare alcuna controriforma. La proposta del Pd di introdurre un criterio di flessibilità nel sistema pensionistico, tra i 62 e i 70 anni, non è nient’altro che una correzione alla riforma voluta dal governo Monti che ha abolito qualsiasi gradualità producendo il dramma sociale degli esodati. Il governo obietta che questo intervento costa: noi rispondiamo che tutte le riforme costano, anche quelle discutibili sotto il profilo dell’equità come l’Imu. Vale per il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, per diminuire la pressione fiscale su imprese e lavoro, perché non dovrebbe valere per le pensioni? Inoltre, quando parliamo di previdenza dobbiamo sapere che i capitoli da affrontare sono molti. Per quanto riguarda i cosiddetti esodati, l’ultima misura che allarga la platea dei salvaguardati di altri 6.500 lavoratori, ha il pregio di risolvere il problema dei licenziati invisibili delle piccole aziende, ma è insufficiente. Non facciamo più numeri, ma parliamo delle famiglie di lavoratori da mandare in pensione con le vecchie regole (chi è in mobilità, prosecutori volontari, Fondi speciali) tutti compresi nella proposta di legge del Pd e di altri partiti attualmente in discussione in Commissione Lavoro della Camera. C’è il problema delle ricongiunzioni, per le quali occorre porre riparo a un errore, riconosciuto, del governo Berlusconi che costringe molti lavoratori a versare due volte i contributi per avere una unica pensione.

Infine, non dobbiamo dimenticare le pensioni in essere. Sappiamo qual è la sperequazione esistente tra pensioni medie e pensioni d’oro e i guasti al potere d’acquisto provocati dal blocco della indicizzazione voluto dall’ex ministra Fornero, che ha riguardato le pensioni superiori a tre volte il minimo (poco meno di 1.400 euro lordi mensili), le quali non hanno avuto il congela- mento della sola rivalutazione superiore a tre volte, ma di tutto l’importo. Grazie alla battaglia del Pd nella passata legislatura fu cancellato questo meccanismo perverso ripristinando dal primo gennaio 2014 l’indicizzazione per le pensioni fino a sei volte il minimo, circa tremila euro lordi mensili, consentendo a chi ha importi superiori di percepire comunque la rivalutazione fino a questa soglia di sei volte. Il congelamento riguarda, con questa soluzione, solo la parte eccedente. Guai se a qualcuno venisse in mente di rimettere in discussione questo meccanismo, tornando al modello del governo Monti. Faremmo opposizione frontale.

L’Unitò 01.09.13