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“Un nuovo partito per la destra italiana”, di Eugenio Scalfari

Due notizie meritano una breve anteprima. La prima è la volatilità di Berlusconi che l’altro ieri ha dato per certa la caduta del governo Letta se gli sarà tolto lo scranno di senatore, ma ieri ha detto esattamente il contrario affermando l’incrollabile fiducia nel suddetto governo indipendentemente dalle sue vicende giudiziarie. La seconda notizia è la nomina di quattro senatori a vita da parte di Napolitano alle persone di Abbado, Piano, Rubbia ed Elena Cattaneo.
La volatilità mentale è a volte un dono di natura, altre volte è una sciagura. Quando può influire sui destini di un Paese può arrecare gravi danni e questo è il caso. Resta da capire se nel caso specifico si tratti d’un elemento caratteriale o d’un sopravvenuto disturbo mentale. L’unico rimedio è di non dargli alcuna importanza.
La scelta dei quattro senatori è in perfetta linea con i requisiti previsti dalla Costituzione. Le reazioni del centrodestra, dei giornali berlusconiani e della Lega sono state di motivare quella scelta con ragioni politiche volte a rafforzare al Senato il centrosinistra. La stessa reazione ha manifestato Travaglio. La comunanza non è casuale: si tratta di fango che imbratta le mani di chi lo maneggia.
Fine dell’anteprima.
In un mondo sempre pi ù interdipendente gli elementi negativi e quelli positivi si intrecciano senza posa e il termometro che ne misura l’andamento ne registra ogni giorno l’intensità e le aspettative che ne derivano.
Nella settimana appena trascorsa l’alternarsi degli eventi e gli effetti che hanno prodotto hanno toccato il culmine della confusione tra timori e speranze, ottimismo e pessimismo. Pensate all’Egitto, ai venti di guerra in Siria che potrebbero incendiare tutto il Medio Oriente, ai sintomi di crisi nell’economia dei Paesi emergenti, ma anche alle buone notizie sulla ripresa dell’economia americana e ai segnali – timidi ma visibili – d’un miglioramento dell’economia europea.
I mercati, sempre molto sensibili a queste diverse sollecitazioni, hanno registrato fedelmente quanto accadeva. Alla fine il bilancio della settimana è moderatamente positivo anche se il circuito mediatico tende a mettere in evidenza le cattive notizie che producono più sensazione delle buone.
Per quanto riguarda l’Italia i temi che hanno tenuto banco sono stati: la sorte politica e giudiziaria di Berlusconi, le conseguenze sul suo partito e sul governo, la questione dell’Imu, dell’Iva, dei rapporti con l’Europa, le attese prevalenti dell’opinione pubblica. Senza dimenticare l’imminenza delle elezioni politiche tedesche che avranno influenza su tutto il continente e anche fuori di esso.
Dalla settimana che ora comincia le agenzie di sondaggio riprenderanno il loro lavoro ma fin d’ora sappiamo che l’opinione più diffusa, al di là delle diverse posizioni politiche, è in favore della stabilità. L’ipotesi di imminenti elezioni politiche o di crisi di governo prive di alternative credibili, creano timore e rifiuto. Questo sentimento è comune al 70-80 per cento dei cittadini e rappresenta quindi una condizione che determina l’intera nostra situazione politica ed economica.
La cosiddetta abolizione dell’Imu è un effetto di quella condizione determinante. La stabilità ne è uscita rafforzata ed è destinata a reggere nonostante le bizze, le rivalità e la faziosità del piccolo mondo politico che stenta a recuperare consapevolezza e dignità di comportamenti.
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Berlusconi si sente perso e fa di tutto per non abbandonare il proscenio dove da vent’anni e più recita la parte del protagonista. Voleva e vuole dominare il governo, logorarlo, ricattandolo e ingraziandosi il favore del pubblico con proposte che possono riscuotere favore popolare. L’abolizione dell’Imu era una di queste. In realtà a lui e ai suoi fedeli importa assai poco dell’Imu. Del resto fu lui a introdurre l’Ici, poi ad abolirla, poi a ripresentarla sotto altra forma. Ma oggi lo slogan di abolirla definitivamente gli avrebbe fatto gioco, era il modo per puntellare la sua presenza sul proscenio nonostante la sentenza di condanna definitiva. «Se io resto l’Imu sarà cancellata»: questo è stato lo spot dell’ultimo mese. Adesso questo spot è caduto e resta in piedi la sola questione che veramente interessa il protagonista: non uscire di scena. Si direbbe che, risolta la questione Imu, il re è nudo. Inutile dire che quel nudo offende al tempo stesso la morale e l’estetica, non dei moralisti e giustizialisti ma dei milioni di persone perbene che hanno assistito con indignazione e disgusto alla corruzione dilagante, al prevalere degli interessi privati, al degrado della società e della dignità del Paese.
Il re è nudo e un regime è finito. Questo tema diventerà in un prossimo futuro dominante per tutti i moderati italiani che dovranno trovare nuove forme di rappresentanza, lontane dal populismo e dall’uomo della Provvidenza. È un tema che non interessa soltanto i moderati ma anche la sinistra democratica e riformatrice. Va dunque discusso con consapevole responsabilità.
Il tema dell’Imu merita tuttavia ancora qualche parola per chiarirne la portata che a mio avviso non è stata spiegata secondo realtà.
Nel suo discorso di investitura di qualche mese fa in Parlamento Enrico Letta aveva detto che l’Imu sarebbe stata “rimodulata”. In che modo? Sostituendola con un’altra imposta comunale sugli immobili, come esiste in tutti i Paesi europei.
Ci volevano alcuni mesi di tempo per effettuare questa rimodulazione; nel frattempo il pagamento delle rate dell’Imu sarebbe stato sospeso. Così è ora avvenuto. L’Imu 2012 (già pagata) non è stata rimborsata come aveva promesso Berlusconi, ma la prima rata 2013 è stata cancellata con decreto e una copertura certa e approvata dalla Ragioneria dello Stato. L’abolizione del saldo è un impegno politico che prenderà forma di decreto a metà ottobre insieme alla legge finanziaria e al disegno della nuova “service tax” che sostituirà l’Imu rimodulandola.
Questo è avvenuto e avverrà e non si vede in che cosa tradisca gli impresi presi da Letta quando ottenne la fiducia. Le poche risorse disponibili potevano essere utilizzate per altri e più importanti scopi sociali? Credo di sì, ma il governo sarebbe stato battuto con lo spot sull’Imu e il re non sarebbe stato denudato di fronte alle sue private responsabilità. Senza governo è evidente che nessun’altra decisione poteva esser presa. Si sarebbe aperta quella crisi politica che il grosso dei cittadini non gradisce ed anzi
rifiuta.
Infine: per quanto riguarda il saldo dell’Imu, la copertura nelle sue grandi linee c’è già ma il decreto non c’è ancora ed è una delle necessarie astuzie della politica. Soltanto a metà ottobre Berlusconi sarà definitivamente decaduto dagli incarichi pubblici; se il suo partito e lui stesso perdessero la testa e i ministri si dimettessero dal governo, la rata dell’Imu dovrebbe essere pagata dai contribuenti, la rimodulazione non avverrebbe e l’intera responsabilità cadrebbe sulle spalle del Pdl.
Questa è la realtà di quanto è avvenuto. Restano ovviamente aperte le questioni delle risorse, dell’Iva, della crescita e dell’occupazione; questioni in parte di pertinenza europea ed in parte italiana. Le possibilità non mancano. Saranno indicate a fine ottobre con la legge finanziaria. Complessivamente occorrono circa 15 miliardi, fermo restando l’impegno a contenere il deficit entro il 3 per cento. Abbiamo più volte affrontato questa risolvibile questione. Tra due mesi dagli annunci si passerà ai fatti. Se così non fosse, allora sì, il governo verrebbe meno ai suoi scopi e non meriterebbe più la fiducia.
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Nel frattempo – lo ripeto – i moderati debbono costruire una forma di rappresentanza politica che abbandoni totalmente il populismo e si configuri come una destra democratica ed europea rendendo possibile l’alternanza con una sinistra democratica e riformista. È interesse di tutti che questa trasformazione avvenga e non mancano nel Pdl persone che stanno già lavorando a quel progetto: Quagliariello, Lupi, Cicchitto e molti altri. Vanno incoraggiati, ma il loro compito è molto difficile; la sua riuscita presuppone infatti che in Italia esista una borghesia moderata che dia lo sfondo sociale ad una simile operazione.
Purtroppo in Italia una borghesia moderata non c’è, anzi – per essere ancora più chiari – in Italia non esiste una borghesia se con questa parola s’intende una classe generale che abbia al tempo stesso un ruolo economico, sociale, politico. E purtroppo non esiste più una classe operaia che sia anch’essa una classe generale con ruoli economici, sociali e politici.
Classe generale significa un ceto sociale che coltivi al tempo stesso i suoi propri interessi nel quadro dell’interesse di tutti. I partiti rappresentano (dovrebbero rappresentare) l’articolazione politica di queste classi che si contrappongono e si alternano nel governo del Paese, divise nelle rispettive visioni del bene comune ma accomunate dal rispetto della democrazia, dello Stato di diritto e dello spirito liberale che tutto consente a tutti nel rispetto dell’eguaglianza di fronte alle legge, delle pari opportunità e del principio di difendere la libertà altrui come la propria.
Sono principi elementari, affermati da molti a parole ma praticati da pochissimi nei fatti e questo è il vero male italiano. Ne ho molte volte esposto le cause originarie e non starò qui a ripetermi. Ma un fatto è certo: l’ultimo in ordine di tempo (con molti predecessori) a danneggiare gravemente questi principi e questi valori è stato Silvio Berlusconi. Il compito dei suoi successori è arduo ma necessario e se anche il risultato fosse parziale sarebbe pur sempre un avvio. Il tempo è venuto, hanno pochi mesi a disposizione. Perciò si muovano subito altrimenti si troveranno di fronte soltanto alle rovine prodotte dall’implosione del regime che hanno consentito a Berlusconi di costruire con la loro complicità.

La Repubblica 01.09.13

“E ora i Cinquestelle il «vaffa» se lo dicono tra loro…”, di Andrea Carugati

C’era una volta il «Vaffa» destinato alla Casta, a Pd e Pdl, ai giornalisti e a tutti i nemici veri o presunti del Movimento 5 stelle. Quel grido era partito da piazza Maggiore a Bologna l’8 settembre del lontano 2007 e ieri, per la prima volta in pubblico, si è sprigionato dentro lo stesso movimento.

L’autrice è Laura Bottici, pugnace questore del Senato, considerata uno dei falchi. Ma il messaggio, appunto il «Vaffa» destinato ai colleghi «aperturisti», «dialoganti», o comunque più morbidi, è stato prontamente rilanciato via Facebook da Claudio Messora, responsabile della comunicazione dei grillini al Senato.

Ecco il Bottici pensiero: «Oggi abbiamo un governo Pd che protegge il pregiudicato Berlusconi in accordo con il Pdl e alcuni senatori del M5S escono sui giornali affermando che sarebbero disposti ad appoggiare un governo Letta bis per fare la legge elettorale nuova…». «Pensate veramente che il Pd possa ascoltare i vostri consigli? Se le risposte sono positive vi invito a unirvi a loro e trasferire il virus della buona politica anche a loro, per il resto vaffanculo…».

Una chiosa decisamente poco consona a una signora elegante quale è la Bottici, ma tant’è. Casus belli, se così si può dire, le parole del senatore Luis Alberto Orellana, già candidato dei grillini alla presidenza del Senato. «Ora credo sia necessario dialogare con tutte le forze politiche», ha detto ieri Orellana al Corriere, in un’intervista in cui sposa la linea dei frondisti: «Non siamo soldatini di Grillo. Non si può tornare al voto con il Porcellum, facciamo un referendum tra i militanti».

Una tesi che ha già visto schierati alcuni parlamentari, tra cui Lorenzo Battista, Francesco Campanella e Francesco Molinari. Ieri la discussione si è nuovamente arroventata. «Esprimi il tuo punto di vista? Ti sfanculano», si sfoga su Facebook il deputato Alessio Tacconi. Che aggiunge: «Io sto con Luis Orellana per un paese migliore. Gli altri continuino la campagna elettorale». Mentre Tancredi Turco si schiera contro la filastrocca di Paola Taverna, postata alcuni giorni fa sul blog di Grillo e destinata sempre ai dialoganti: «Perché non ve ne andata felici e contenti?». Ecco la replica di Turco: «La trovo inutilmente offensiva e spero che si torni il prima possibile a fare squadra invece che insultarsi a vicenda. Credo non convenga a nessuno che ci siano altre fuoriuscite».

E il punto è proprio questo.Il clima di queste ore disegna un ritorno ai giorni di roventi di giugno, quando fu espulsa Adele Gambaro (rea di aver criticato Grillo per il flop alle amministrative) e tra i grillini impazzava il tema della scissione. In queste ore sembra riapparire la conta tra i fedelissimi e le colombe, sempre meno inclini al silenzio. Sui social network anche i commenti sono divisi in due, tra chi esulta per i «vaffa» e chi invita a fare squadra.

Ma il Capo sta preparando una campagna d’autunno molto aggressiva e non intende tollerare altre voci fuori dal coro. «Sono stanco di essere gandhiano », ha scritto ieri sul suo blog, e di «osservare leggi fatte per favorire i delinquenti ». «Sono stanco di farmi prendere per il culo da questi incapaci, spocchiosi, intellettualmente depravati che hanno distrutto l’Italia. Sono stanco, ma di quella stanchezza che matura un’ incazzatura formidabile».

Sembra il preludio di un’ulteriore svolta. Che potrebbe partire dalla piazze convocate per il 7 e 8 settembre, i giorni in cui la Camera voterà la riforma dell’articolo 138 della Costituzione. A luglio i grillini avevano fatto un duro ostruzionismo contro il cambio della Costituzione. Lanciando una manifestazione per settembre. Ma l’idea è stata derubricata a una serie di banchetti in giro per l’Italia.

Grillo intanto sfoga la sua rabbia contro l’accensione dell’inceneritore di Parma. «Chi mangerà in futuro parmigiano e prosciutti imbottiti di diossina?». Parole che suscitano l’imbarazzo del sindaco grillino di Parma Pizzarotti: «L’impegno sarà quello di controllare in modo sistematico le emissioni prodotte dall’inceneritore, al fine di tutelare la salute delle persone ed i prodotti della nostra terra».

Reagisce anche il ministro dell’Agricoltura Nunzia De Girolamo: «Grillo è un incosciente, le sue affermazioni sulla Food Valley e su due dei principali prodotti del Made in Italy come il Parmigiano reggiano e il Prosciutto di Parma sono gravissime e prive di ogni fondamento». Il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano Giuseppe Alai parla di un «atto di terrorismo nei confronti dei consumatori, originato da affermazioni gratuite e prive di qualsiasi fondamento scientifico».

L’Unità 31.08.13

“Anticipare al 2013 la Service tax sulle case di pregio” di Massimo D’Antoni

Chi ha vinto e chi ha perso sull’Imu? L’uso delle metafore bellico-sportive in questi casi non aiuta. La negoziazione nell’ambito di un governo di grande coalizione prevede necessariamente che ciascuna delle parti sia disposta a cedere qualcosa. Il fatto è che larga parte del centrosinistra non ha ancora elaborato la mancata vittoria di febbraio e la decisione di dar vita ad un governo di compromesso, ogni decisione del quale rinnova le ferite aperte. Si aggiunga che anni di retorica sull’elezione diretta del governo rendono difficile accettare un dato di realtà ovvio di una repubblica parlamentare: governo e partiti che lo sostengono non sono tra loro identificabili.

Solo così possiamo spiegarci il senso di frustrazione diffuso tra gli elettori di centro sinistra, e una certa difficoltà a riconoscere, tra il bianco e il nero, la gamma dei grigi. Va detto che nella vicenda dell’Imu Berlusconi partiva da una situazione di obiettivo vantaggio: l’accoglimento della sua richiesta di abolire l’imposta sulle abitazioni principali può essere presentato oggi come una vittoria, ma il mancato accoglimento gli avrebbe consentito domani di sventolare ancora una volta la carta dell’abrogazione dell’imposta, o magari farne il casus belli per distogliere l’attenzione dal tema della decadenza.

Esaminando la questione con obiettività ci accorgeremo tuttavia che la posizione del Pdl è stata accolta solo a metà. A fronte della richiesta di esclusione totale e definitiva dell’imposizione sull’abitazione principale, il governo ha deciso per una ridefinizione dell’imposta esistente che assumerà dal prossimo anno le caratteristiche di una cosiddetta imposta sui servizi o Service tax. Il gettito di tale imposta garantirà ai comuni circa la metà del gettito dell’attuale Imu sulle prime case (il resto sarà coperto da un aumento dei trasferimenti erariali) e la base di riferimento continuerà ad essere presumibilmente la rendita catastale dell’immobile. Soggetti passivi saranno sia i proprietari che gli inquilini, anche se questi ultimi saranno colpiti in misura minore, e sono allo studio soluzioni compensative dei possibili effetti più regressivi che potrebbero derivarne. L’imposta sui servizi vedrà ampi spazi di autonomia da parte dei Comuni, in modo da realizzare quel nesso virtuoso tra imposta e benefici ricevuti che è alla base di una corretta nozione di decentramento fiscale. Si terrà infine conto delle caratteristiche del nucleo familiare, per favorire le famiglie numerose conviventi.

La soluzione a regime non sarà dunque molto diversa da quanto indicato anche dal Pd, che aveva espresso già in campagna elettorale l’intenzione di rendere l’imposta sugli immobili meno gravosa per le famiglie meno abbienti e più coerente con il disegno del federalismo fiscale. Altri provvedimenti in tema di immobili, come il sostegno ai mutui per l’acquisto della prima abitazione e la riduzione dell’imposta sugli affitti a canone concordato, vanno in direzione di una maggiore garanzia del diritto alla casa e vanno dunque salutate anch’esse con soddisfazione. Tutto bene dunque? Non proprio. La versione finale del decreto legge non ha accolto la richiesta, espressa con forza dal Pd, di alleggerire il carico Imu sugli immobili strumentali delle imprese. Ma è soprattutto la scelta di azzerare per intero l’Imu su tutte le abitazioni principali già nel 2013 a destare preoccupazione. Il Consiglio dei ministri ha sancito la cancellazione della prima rata e ha trovato un accordo politico sulla cancellazione della rata di saldo di dicembre. Ma tale accordo costerà ben 2,1 miliardi, che il governo si è impegnato a trovare nell’ambito della legge di stabilità da presentare nel mese di ottobre. Difficile immaginare che le relative coperture possano derivare da riduzioni di spesa, considerando che siamo ormai a settembre e qualsiasi voce si decida di tagliare produrrà effetti limitati al solo ultimo trimestre 2013. Sarebbe peraltro una sciagura se si andasse a colpire spesa per investimenti o degli altri interventi di rilancio dell’economia e di sostegno alle ampie aree di sofferenza sociale. Inoltre, a meno di trovare una soluzione una tantum che fornisca le risorse per un ulteriore rinvio di tre mesi (un altro miliardo ), è probabile che dobbiamo rassegnarci all’aumento Iva del 21 al 22% previsto dal primo ottobre. Di tale aumento il Pdl, che ha tanto insistito per l’abolizione integrale dell’Imu 2013, porterebbe la responsabilità.

Un rimedio tuttavia ci sarebbe: il governo dovrebbe considerare seriamente la possibilità di anticipare già al 2013 la Service tax, o una sua versione provvisoria limitata per quest’anno agli immobili di maggiore pregio. Per evitare l’aumento dell’Iva o la riduzione di spese essenziali ne varrebbe certamente la pena.

L’Unità 31.08.13

“Maturità, al Sud i voti più generosi”, di Leonard Berberi

Le polemiche, attese, non sono mancate. Le curiosità nemmeno. Così come le conferme, stavolta supportate da migliaia di informazioni. La prima, su tutte: al Sud è molto più «facile» diplomarsi con un voto alto. Altissimo, in certi casi. E se non ci fosse stato quel vincolo dell’«ottantesimo percentile» — aggiunto dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza — forse ora avremmo migliaia di studenti del Mezzogiorno con in tasca già 8, 9, 10 punti di bonus ancora prima di effettuare il test d’ammissione all’università. Staccando così i colleghi del Nord che da tempo accusano di essere penalizzati dal punteggio finale perché al Settentrione «le commissioni danno voti più bassi». La preoccupazione è legittima. Due o tre punti in più alla prova d’ingresso nelle facoltà a numero chiuso potrebbero far avanzare nella graduatoria finale anche di mille o duemila posti.
A confermare il divario sul voto del diploma tra i due estremi geografici dell’Italia — dopo le indagini e i risultati Invalsi — sono i dati pubblicati ieri dal ministero dell’Istruzione sul sito www.universitaly.it che tengono conto di tutti i voti della Maturità 2012/2013. Migliaia di tabelle, suddivise per provincia, scuola, commissione e tipologia di diploma che dicono alle aspiranti matricole se avranno diritto o no al «bonus maturità». Sono quei punti extra (da uno a dieci) da sommare a quelli che gli studenti — circa 115 mila — otterranno nei test d’ingresso in calendario la prossima settimana. Per avere diritto al «bonus» bisogna essersi diplomati con almeno 80/100 e, allo stesso tempo, rientrare nel 20% dei voti migliori assegnati dalla commissione d’esame.
Le tabelle del Miur, quindi. Spiegano, indirettamente, che più è alto il voto minimo per accedere al sistema dei «bonus», più le commissioni d’esame sono state di «manica larga». Così, leggendole, si scopre che se a Milano, a livello provinciale, si accede al «bonus maturità» con almeno 87 (per i diplomi al liceo classico) e 84 (allo scientifico), più giù, a Catanzaro, si prendono «bonus» soltanto se diplomati con, rispettivamente, 97 e 96. Dieci e dodici punti di differenza. Nella provincia di Bari servono almeno 97 (classico) e 94 (scientifico). Va peggio — o meglio, a seconda dei punti di vista — a Brindisi, Crotone, Vibo Valentia ed Enna: qui il «bonus» al classico è previsto soltanto per chi si è diplomato addirittura con 100, il massimo. Risultati che spiegherebbero, ancora una volta, come al Sud le commissioni abbiano dato a tanti maturandi voti altissimi.
Il «bonus», in realtà, scontenta anche per le distorsioni. Tanto che, a parità di diploma e di scuola, uno guadagna punti, l’altro no. Bisogna spulciare tra le tabelle dei singoli istituti per scoprire le differenze. Il sito skuola.net, per esempio, ha notato che al liceo scientifico «Avogadro» di Roma uno studente della sezione C diplomato con 93/100 non ha diritto a nessun punto extra da sommare al risultato del test universitario perché capitato in una commissione che, mediamente, ha attribuito punteggi elevati. L’esatto opposto di quello che succede a un suo compagno della sezione F che, con lo stesso risultato, ha diritto a sei punti di vantaggio. Stessa storia, ma destini diversi, per chi si è diplomato con 82 al liceo scientifico «Cremona» di Milano: chi è stato interrogato dalla 43esima commissione ora può aggiungere al test universitario un altro punto. Chi, invece, ha avuto lo stesso voto, ma con la 44esima commissione, non prende nulla. Il minimo per accedere al bonus, in quest’ultimo caso, è 90.
Il sistema non piace del tutto anche al ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. «La votazione non è omogenea — ha spiegato — perché ci sono scuole in cui è più facile prendere voti alti. È complicato, poi, avere un metodo obiettivo per equiparare le valutazioni tra gli istituti perché le commissioni sono diverse».
Nel frattempo, mentre c’è anche chi pensa di fare ricorso al Tar, la prossima settimana si parte con i test universitari. Martedì tocca agli aspiranti veterinari (10.812 iscritti). Il giorno dopo alle professioni sanitarie. Quindi il 9 a Medicina e Odontoiatria, il 10 ad Architettura.

Il Corriere della Sera 31.08.13

“Lavoro, reddito, tempo libero È il Piemonte la regione rosa Lombardia e Veneto scivolano sotto la media nazionale”, di Corinna De Cesare

Se state decidendo in quale parte d’Italia vivere, pensateci bene. Perché a seconda della Regione, essere uomo o donna può cambiare radicalmente le cose: si possono avere più possibilità in tema di lavoro, reddito, potere decisionale e tempo.
Mentre il governo sembra ormai aver rinunciato a un ministero per le Pari opportunità, Banca d’Italia pubblica un’analisi che svela quanto pesa il cosiddetto «gender gap». Il rapporto, firmato da Monica Amici e Maria Lucia Stefani, applica il «gender equality index» a livello locale: partendo da uno studio europeo, l’indice calcola l’uguaglianza di genere nelle varie Regioni. Le studiose lo hanno applicato per la prima volta (scala da zero a uno) da Nord a Sud elaborandolo sui quattro temi di cui sopra. Il risultato? Se l’Italia ha ancora molto lavoro da fare in tema di pari opportunità, alle Regioni non basta lo straordinario.
Fermo a un punteggio di 0,30 nel 2005, nel 2010 il nostro Paese è migliorato di poco arrivando a un indice di uguaglianza di genere di 0,36. Più virtuoso il Nord Ovest (0,43), seguito dal Nord Est (0,40), il Centro (0,41) e infine il Sud con le isole (0,27). «L’indice viene calcolato elaborando i dati Istat, del ministero dell’Interno e i dati regionali in tema di differenze tra uomo e donna sull’accesso al lavoro, sulla possibilità di far carriera, sulla remunerazione e sull’uso del tempo — precisano le autrici nello studio —. Perché anche in quest’ultimo caso esiste un gap nell’uso del tempo libero e della cura per la casa».
L’archivio Istat lo conferma: il divario di genere nei lavori domestici raggiunge con i figli piccoli anche le 40 ore alla settimana, contro le 11 ore della Svezia e le 20 ore di Francia e Stati Uniti.
Dalla mappa di Bankitalia è il Piemonte a occupare il gradino più alto del podio dei virtuosi in tema di pari opportunità. Secondo e terzo posto a Emilia Romagna e Liguria. In fondo alla classifica il Sud con la Calabria, che dal 2005 al 2010, è riuscita addirittura a peggiorare la sua performance. «Il Sud è senza ombra di dubbio più indietro su questi temi rispetto al resto d’Italia — conferma Paola Profeta, docente di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi ed esperta di Economia di genere — le variabili culturali contano, ma bisogna anche considerare che nel Mezzogiorno c’è molto lavoro nero, fenomeno che coinvolge in particolar modo le donne e che nelle statistiche non viene considerato».
Ma se, come ci si aspetta, i posti più alti nella graduatoria Bankitalia spettano al Nord, non mancano alcune sorprese. Lombardia e Veneto, che nel 2005 superavano l’indice di uguaglianza di genere a livello nazionale, nel 2010 hanno tirato il freno a mano posizionandosi sotto la media italiana. «Significa che non sono riuscite a sfruttare il vantaggio che avevano e hanno tirato i remi in barca — continua Profeta —. Non è un bel segnale perché almeno in teoria sono considerate Regioni più vicine all’Europa in tema di lavoro e pari opportunità». Nella pratica evidentemente qualcosa non va. «Oltre alla divisione sbilanciata del tempo, le donne italiane continuano ad essere ampiamente sottorappresentate nella politica e nelle istituzioni» precisa il rapporto Bankitalia. E il concetto, al netto dei risultati delle elezioni di febbraio 2013 (quando le donne in parlamento sono passate dal 20,2% al 30,8% del totale) e della legge sulle «quote rosa», è ribadito anche dal «gender equality index» dell’Eige. L’European Institute for Gender Equality ha da poco pubblicato la classifica sull’uguaglianza di genere i cui risultati non si discostano molto da quanto pubblicato da Palazzo Koch: l’Italia è al quartultimo posto nell’Ue a 27.

Il Sole 24 Ore 31.08.13

“Siria, i timori della Bonino”, di Antonella Rampino

Con i fantasmi dell’Iraq che agitano sul proscenio tutto il carico di marchiani errori e vergognose bugie ancora vivo nella coscienza delle opinioni pubbliche europee, l’intervento in Siria sembra ormai certo, anche se la guerra americana si derubrica a strike. Le Grandi Potenze, dopo la spettacolare débâcle di David Cameron che ai Comuni non trova né il consenso tory né quello labour, sembrano -come disse Emma Bonino- pulci di fronte alle emergenti potenze arabe e ai loro inesauribili petrodollari. Ad averla vista giusta, più della Francia di Hollande mossa ancora dall’idea di riscattare il proprio onore dall’antico atto mancato di Léon Blum in difesa della Spagna repubblicana dai franchisti, sembra essere una «potenza intermedia», secondo l’eufemismo che si usa per l’Italia -un peso leggerino- nel contesto internazionale.

Le cause, saranno pure tutte arcinote e necessitate da intrinseca debolezza, ma sono state maneggiate con lungimiranza geo-strategica. Emma Bonino, ministro da poco più di cento giorni, conosce dal vivo e come pochi altri politici quella regione del mondo e ha subito avvertito il rischio che una guerra a Damasco esploda, e diventi vincolo globale. Altro che Iraq: se si attacca la Siria, tanto vale puntare direttamente sull’Iran. Il suo ottimo rapporto col russo Lavrov e con il turco Davutoglü, due ministri degli Esteri di lunga navigazione, le ha consentito di verificare rischi e prospettive. Anzitutto di sondare la granitica volontà di veto che Mosca avrebbe esercitato all’Onu, clamorosamente sottovalutata da Cameron e Hague. Da interlocutore affidabile degli americani, Bonino sapeva da mesi delle divergenze Kerry/Obama, quanto fosse interventista il primo e quanto riluttante l’altro. Obama oggi «prigioniero delle red line da lui stesso stabilite sulla Siria, ma pronunciate a fini di politica interna», come ci dice un’alta fonte diplomatica. E non a caso, Bonino l’ha scandito, «i più contrari all’intervento in Siria sono al Pentagono».

Poi c’è la posizione necessitata: il dibattito pubblico di Roma, mentre Londra Washington Parigi discutevano di Siria, era ipnotizzato dal solito problema-Berlusconi e, a cascata, dall’Imu. Il Paese vive la peggiore stagione della sua economia reale, temendo un autunno bollente. Le casse sono vuote, e l’impegno nelle missioni militari stanti i tagli alla Difesa non è espandibile oltre Libano, Afghanistan, Libia. Saremmo in quelle regioni particolarmente esposti al terrorismo. Tutte ottime ragione collaterali.

Ma la compattezza che si è verificata nella war room di Palazzo Chigi attorno alla proposta di Bonino -dopo una discussione, ovvio- e la coralità simmetricamente prodottasi in Parlamento, dimostra che una politica estera diversa si può fare, se si ha il coraggio di spiegarla con trasparenza alla pubblica opinione e agli alleati anche transatlantici.

Le ragioni sono poche e semplici, e vengono esposte dal ministro -parli con Hollande o con Amanpour su CNN- con la consueta bruciante chiarezza: «A volte ci vuole più coraggio a non fare, che a fare peggio», perché le conseguenze involontarie di un intervento in Siria sono incalcolabili «e potrebbero arrivare sino a una guerra mondiale». E poi Bonino, nutrendo in cuor suo un neanche malcelato disincanto per quei paesi che propugnano l’ «intervento umanitario», mettendo in chiaro però «no boots on the ground», ha riconnesso le parole «multilaterale» e «democrazia parlamentare» ai loro significati: nessuna partecipazione italiana senza un via libera del Consiglio di Sicurezza Onu, da sottoporre poi al vaglio del Parlamento. I prossimi giorni ci diranno valore e risultati di una politica internazionale non di discontinuità, ma condotta attraverso la forza delle idee, e dunque decisamente .

La Stampa 31..08.13

“La bella Italia che vorremmo”, di Michele Serra

Una ricercatrice, un Nobel per la fisica, un direttore d’orchestra, un architetto. Tutti e quattro di fama mondiale. Per dare lustro alle istituzioni il presidente della Repubblica non ha scelto neppure un politico. Come se il solo possibile antidoto all’idea depressa che l’Italia ha di se stessa fosse cambiare radicalmente prospettiva.
Volgere le spalle ai palazzi del potere e cercare il valore nelle avventure individuali di italiani operosi ed eccellenti.
Artisti e scienziati spesso capiti e apprezzati prima all’estero che in patria.
Al di là dei nomi dei quattro senatori a vita (il cui calibro è comunque cento volte maggiore di molti degli esponenti politici che ne commentano la nomina), nella scelta di Napolitano ciò che colpisce è questo compatto rivolgersi “altrove”, a un’Italia cosmopolita e dunque sprovincializzata, che ha vissuto, lavorato, avuto fama e successo a distanza siderale dalle beghe miserabili che paralizzano la vita nazionale, e che cento metri oltre i nostri confini paiono insignificanti, penosi dettagli rispetto al battito del mondo. Che magari sa cosa accade a Parigi o a Londra o a Tokyo, meno che cosa succede a Roma, specie quando ciò che succede a Roma è così poco intellegibile. La sproporzione tra la fama e il peso culturale dei nuovi senatori e la media della rappresentanza parlamentare (anch’essa “nominata”, grazie al Porcellum: ma con quanto merito in meno!) assume, indirettamente, quasi il significato di una denuncia. La denuncia della crisi paurosa della politica, dell’incepparsi patologico dei meccanismi di selezione della classe dirigente attraverso la via più diretta, che è o meglio sarebbe quella elettorale.
Molti dei commenti politici di ieri rimandano, purtroppo, a questa mediocrità. Quasi incredibili, nella loro pochezza da ragionierino astioso, le parole del senatore delle Cinquestelle Alberto Airola, molto seccato perché i quattro neo-nominati «saranno stipendiati a vita senza essere stati eletti da nessuno e saranno i lacché delle larghe intese». Come se Piano e Abbado avessero bisogno, per vivere, di uno stipendio pubblico; e come se il tragitto che ha condotto all’elezione la quasi totalità dei grillini, spesso poche decine di voti cliccati su un sito web ben controllato e filtrato, avesse un qualunque, percepibile significato di democrazia diretta. Chissà se chiederanno gli scontrini del cappuccino, i cinquestellati, anche a Renzo Piano, per altro buon amico di Beppe Grillo.
Stendiamo un velo pietoso sulla dichiarazione della signora Santanché («il solo che doveva essere nominato senatore a vita è Berlusconi»: poco più, anzi poco meno di una battuta di spirito). Ma è impossibile tacere della ciancia meschina, da angiporto della politica, capace di leggere in quelle quattro nomine (e in quei quattro profili italiani) il tentativo di offrire una stampella alle larghe intese. Bisognerebbe spiegare ai tanti parlamentari abituati al piccolo cabotaggio tattico, e qualcuno purtroppo anche alla messa all’asta del proprio voto, che esiste anche un mondo normale. Dove i loro discorsi, i loro sospetti, i loro calcoli paiono trascurabile fanghiglia, e contano zero. Immaginare un Rubbia o una Cattaneo che tramano pro o contro il governo Letta (o pro o contro chicchessia) equivale ad avere perduto il vaglio delle cose, la misura della realtà.
Certo, come accaduto anche in passato, è rintracciabile, nei profili dei nuovi senatori a vita, specie Abbado e Piano, “qualcosa di sinistra”. Ma questo rimanda a una annosa, penosissima questione, che è la gran fatica con la quale “la destra”, genericamente intesa, produce i suoi intellettuali, i suoi artisti, i suoi personaggi illustri. In attesa di udire la solita solfa contro “i comunisti” Abbado e Piano, o le velenose insolenze che colpirono un gigante come la Montalcini, è più serio e più proficuo registrare l’enorme difficoltà che qualunque presidente italiano avrebbe nello scovare e nominare senatori a vita francamente di destra. Non è questo lo spirito con il quale si procede a quelle nomine; ma si può capire che un poco di par condicio in più aiuterebbe a rendere ancora più limpida, ancora più condivisa l’investitura dei senatori a vita. La battuta della signora Santanché ci fa capire quanto manchi, al nostro Paese, una destra di alto profilo.

La Repubblica 31.08.13