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«I have a dream» M. Luther King. Un sogno che compie 50 anni, di Alessandro Portelli

Cinquant’anni fa, 250mila persone si raccolsero a Washington nella grande manifestazione “For Jobs and Freedom” – per il lavoro e la libertà – organizzata da Philip A. Randolph, storico sindacalista militante nero e da Bayard Rusting, pacifista nero, gay, in odore di comunismo. Intervennero sindacalisti, leader religiosi, protagonisti dei movimenti, artisti. Il tutto culminò con lo storico discorso di Martin Luther King, e la sua celebre perorazione: «Ho un sogno…».
Sono parole memorabili e in un certo senso sfortunate perché la loro eloquenza ha finito quasi per farci dimenticare le centinaia di migliaia di persone senza le quali quel discorso sarebbe rimasto solo un grande esercizio di retorica, e ridurre questa realtà di massa all’icona di una persona sola. E, riciclata e avvilita in tanti modi (dal caffè Kimbo ad Anna Oxa, da Silvio Berlusconi a Quagliarella) la frase del sogno ha finito per cancellare dalla memoria tutto il resto del discorso e la sua radicale politicità.

«Ho un sogno, un sogno profondamente radicato nel sogno americano. Ho un sogno, che questa nazione un giorno sorgerà e vivrà il vero significato del suo credo: Riteniamo che certe verità non abbiano bisogno di dimostrazioni: che tutti gli uomini sono creati uguali… Ho un sogno, che le mie quattro bambine un giorno vivranno in una nazione dove saranno giudicate non dal colore della pelle ma dal contenuto del carattere. Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà elevata, ogni colle e ogni monte sarà abbassato, gli spazi ruvidi saranno levigati e i luoghi distorti saranno raddrizzati, e la gloria del Signore sarà rivelata e tutti i mortali la vedranno insieme».

Il sogno dunque riveste di familiari metafore bibliche (il faro della speranza, le fiamme dell’ingiustizia, l’alba della liberazione, le catene della segregazione…) Una rivendicazione morale ma soprattutto politica: l’uguaglianza come significato originario della democrazia americana. King si colloca nella tradizione americana che fonda la denuncia degli errori e le ingiustizie del presente sul recupero dei valori fondanti del paese, evocando esplicitamente i padri fondatori e Lincoln. L’impalcatura del suo discorso sta dunque nella relazione fra il passato concreto della storia, il futuro immaginifico del sogno, e la domanda inevasa: come si fa a far entrare il sogno nella storia?
Ma poi scatta un cambio di registro: «Siamo venuti qui», dice, «per riscuotere un assegno». E si apre una insistita sequenza di termini bancari: la Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione sono «una tratta, un pagherò», che estende a tutti, bianchi e neri, l’«eredità» dei diritti inalienabili di vita, libertà e ricerca della felicità. «Invece di onorare questa sacra obbligazione», continua, «l’America ha dato ai suoi cittadini di colore un assegno a vuoto, che è tornato indietro con il timbro “scoperto”. Noi rifiutiamo di credere che la banca della giustizia abbia fatto fallimento, di credere che non ci siano fondi sufficienti nei grandi forzieri di opportunità di questa nazione. Così siamo venuti a incassare quell’assegno – un assegno pagabile a vista che ci darà le
ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia».
Apparentemente, in questa prosaica allegoria bancaria, siamo molto lontani dalla poetica del sogno. Ma c’è nulla di volgare o irriverente: le figure economiche non mancano nella Bibbia e nel Vangelo; e la poetica del protestantesimo americano sa attribuire significati spirituali ai più ordinari oggetti quotidiani; soprattutto, l’America, fondata da illuministi consapevoli della natura contrattuale del patto sociale, non si vergogna di parlare di denaro. Così, King ancora la rivendicazione morale dell’uguaglianza alla nascita stessa del suo paese: se di diritti civili parliamo, è nella sua storia civile che dobbiamo cercarne le basi.
Anche per questo King insiste che queste promesse sono state fatte ai cittadini americani, che gli americani ne sono gli eredi, che quelli che rivendicano sono diritti americani: «Non ci sarà tranquillità in America finché ai Negri non saranno riconosciuti i loro diritti di cittadinanza». Così, sposa la radicalità dell’ammonimento all’America («i turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondazioni della nostra nazione») con l’ammonimento alla moderazione rivolto ai suoi («Dobbiamo condurre sempre la nostra lotta sull’elevato piano della dignità, della disciplina e del sacrificio. Non dobbiamo permettere che la nostra creative protesta degeneri in violenza fisica. Sempre più dobbiamo elevarci alle maestose altezze di chi affronta la forza fisica con la forza dell’anima» perché «la sofferenza immeritata è redenzione»). È dopo queste concrete argomentazioni politiche che il discorso prende il volo. Ce ne accorgiamo dall’irruzione di un altro procedimento poetico: la ripetizione cumulativa, accompagnata dal crescere ispirato della voce e dal ritorno alle grandi metafore bibliche. «Ci chiedono: quando sarete soddisfatti? Non saremo mai soddisfatti», risponde; e ripete: non saremo mai soddisfatti, finché saremo soggetti agli orrori della brutalità poliziesca; non saremo mai soddisfatti finché non potremo riposare negli alberghi e nei motel, non saremo mai soddisfatti finché la nostra mobilità sociale sarà solo da un ghetto a un ghetto più grande, finché i nostri figli saranno umiliati dalle scritte «solo per bianchi», finché i neri in Mississippi non potranno votare e a New York penseranno di non avere nulla per cui votare. «No, no, non siamo soddisfatti, e non saremo soddisfatti finché la giustizia scorrerà a valle come le acque e il diritto come un fiume possente».
In queste parole c’è anche qualcosa del Martin Luther King futuro, capace di estendere la lotta dalle ingiustizie di diritto al Sud alle ingiustizie economiche di fatto al Nord. Troppo spesso dimentichiamo che la manifestazione del 28 agosto era convocata «per il lavoro e per la libertà», che i suoi promotori sono innanzitutto sindacalisti, che tra le sue rivendicazioni dichiarate erano la parità universale nella formazione e dignità del lavoro e l’aumento dei minimi salariali. E che nel suo discorso John Lewis, dello Student Non Violent Coordinating Committee (l’organizzazione da cui poto tempo dopo scaturirà il grido «Black power») aveva gridato: «Oggi manifestiamo per il lavoro e la libertà, ma non abbiamo niente di cui essere orgogliosi. Centinaia e migliaia di nostri fratelli non sono qui perché sono pagati con paghe di fame o non sono pagati affatto, mezzadri nel Mississippi che lavorano per meno di tre dollari al giorno, 12 ore al giorno… Ci dicono di essere pazienti e aspettare, ma non possiamo essere pazienti…. Fino a quando possiamo essere pazienti? Vogliamo la libertà e la vogliamo adesso» (e bisogna ascoltare le registrazioni per rendersi conto dell’ovazione possente che accoglie quel «now!»).
Qui sta il passaggio più fragile e più potente del discorso. Da un lato, a chi grida freedom now!, King offre un generico ottimismo: «Tornate al Mississippi, tornate all’Alabama, tornare alla Sud Carolina, tornate alla Georgia. Tornate alla Louisiana, tornate allo squallore e ai ghetti delle città del nord, sapendo che in qualche modo (somehow) questa situazione può essere cambiata e lo sarà». In quale modo? Con che strumenti, con che potere? Ma intrecciando la retorica delle origini democratiche con la Bibbia e gli spiritual, King fonda questa vaga speranza sul potere immateriale ma irresistibile della visione: è il momento indimenticabile del suo ribadito «I have a dream». Per cambiare la situazione è decisiva la forza morale, la indomata soggettività e la ritrovata dignità di un movimento che si è dato una visione. Senza il sogno la realtà non cambierà mai. TUtto il resto, le politiche e le strategie, viene dopo.
Di qui la potenza e l’ambiguità di questa figura. Certo, il sogno rinvia a un futuro senza data – «One day», un giorno («che succede a un sogno differito?» aveva scritto Langston Hughes: «avvizzisce con un grappolo al sole, imputridisce come una piaga? Marcisce, si affloscia come un carico pesante? O invece esplode?»). Eppure, il sogno è la più alta delle possibilità umane, la capacità di vedere l’invisibile, dargli forma, cominciare a cercarlo.
Il «sogno americano» è infine questo: non che gli americani sognino di più o sognino tutti lo stesso sogno o abbiano dei sogni tanto diversi dai normali sogni del genere umano. È che, nel momento in cui parole come «ricerca della felicità» o come «sogno» entrano nel lessico politico, il futuro è affidato all’umanità profonda di ciascun cittadino. Nel suo sogno, King intreccia l’ideologia liberale della rivoluzione americana, che attribuisce i diritti alla sfera individuale, con l’etica della controcultura, che fa nascere la rivoluzione dall’interno di ciascuno di noi.
Anche noi abbiamo un nostro sogno differito, un contratto non soddisfatto: quell’articolo 3 della Costituzione che va anche oltre il «sogno americano», perché proclama che realizzare la ricerca dell’uguaglianza è soprattutto «compito della Repubblica». La cattiva politica di oggi non si limita a differire il sogno: lo azzera, lo annulla, lo nega. Perciò il sogno americano di Martin Luther King ricorda anche a noi che la possibilità di un futuro comincia nell’immaginare un altro mondo, cercare di dargli forma, e provare a realizzarlo.

L’Unità 25.08.13

“Pompei ritorna alla gestione duale”, di Francesco Prisco

Qualcuno disse che gli italiani partono incendiari e fieri, ma quando arrivano sono tutti pompieri. A Pompei, nell’area archeologica meglio nota e peggio conservata del mondo, gli “incendiari” non hanno lasciato assolutamente buoni ricordi – si veda la stagione decisionista dei commissari di protezione civile, oggi al vaglio dei magistrati – ma i “pompieri”, quelli che smorzano le polemiche e si concedono sempre un po’ di tempo in più prima di prendere una decisione, hanno fatto comunque danni.
Il decreto “Valore Cultura”, l’atto con cui il ministro dei Beni culturali Massimo Bray ha inteso imporre una svolta per il superamento dei problemi del sito, nella sua prima stesura appariva incendiario, con l’istituzione della figura del direttore generale di progetto «stazione appaltante» e «responsabile unico» del Grande progetto da 105 milioni di euro cofinanziato dall’Unione europea. In quella definitiva, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 9 agosto, le funzioni conferite al dg arrivano lui «ferme restando le funzioni, i compiti e le attribuzioni della Soprintendenza competente in ordine alla gestione ordinaria del sito e quale beneficiario finale degli interventi ordinari e straordinari attuati nell’ambito del sito medesimo».
Tre righe che a un livello superficiale potrebbero essere intese come pura formalità tra istituzioni, ma applicate a Pompei rischiano di stemperare le facoltà della nuova figura, fino a proporre il remake di film già visti, come l’epoca dei city manager apertasi nel 1998 o il ben più avventuroso feuilleton dei commissari di protezione civile, culminato al Tribunale di Torre Annunziata. Si rivede insomma all’orizzonte il vecchio problema di convivenza tra la nuova figura dirigenziale e la Soprintendenza che, sempre dal Dl 91 dell’8 agosto 2013, viene scorporata da quella di Napoli, com’era prima del 2008. Fu il problema di convivenza in questione a logorare tutti i city manager degli scavi, con gli archeologi che mal tolleravano l’intraprendenza di uomini esterni agli apparati dei Beni culturali.
Succederà anche stavolta? Per scongiurare il pericolo, si punta tutto su una figura interna al Mibac: «Il Governo non ha ancora affrontato il tema. Di sicuro sarà un professionista con una grande esperienza all’interno del ministero, perché Pompei è davvero il tesoro su cui misureremo la nostra capacità di dare una svolta, di cambiare la politica culturale del Paese» ha detto il ministro Bray.
Le informazioni raccolte dal Sole 24 Ore sembrano portare nella direzione di Gino Famiglietti, attuale direttore generale dei Beni culturali e paesaggistici del Molise con un importante curriculum romano. Per capirci: tra il 2003 e il 2004 è stato vicecapo dell’Ufficio legislativo di via del Collegio Romano, tra i principali artefici del Codice dei Beni culturali. È un giurista dotato di capacità amministrative, profilo in linea con le funzioni manageriali che il decreto attribuisce al direttore. In più, risulta vicino a Salvatore Settis, intellettuale molto stimato dal ministro Bray.
Perde invece quota l’ipotesi circolata nelle scorse settimane della nomina di Giampiero Marchesi, figura, esterna al Mibac, di studioso di economia dei beni culturali, con una lunga esperienza in seno al Dps.
Altra incognita sono i tempi di nomina del dg: la prima versione del Dl fissava l’assegnazione dell’incarico «entro trenta giorni dalla data di conversione in legge», quella definitiva «entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto». Da indiscrezioni di ambienti ministeriali, pare che comunque si attenderà la conversione del testo, così da mettersi a riparo da ulteriori modifiche al testo. Per l’approvazione c’è tempo fino al 9 ottobre, ma aspettare troppo, per individuare la figura che avrà il compito di velocizzare il Grande progetto, sarebbe un controsenso.
Scenario in evoluzione pure in soprintendenza. Lo scorporo da Napoli ridisegnerà il perimetro dell’area archeologica vesuviana che dà lavoro a 468 persone di cui 187 nel sito principale. Teresa Elena Cinquantaquattro, attuale soprintendente, potrebbe spostarsi a Napoli. Da chiarire chi prenderà le redini di Pompei. «Chiunque sia – commenta Antonio Pepe di Cisl Beni culturali – dovrà ricostruire il rapporto con i dipendenti, dopo anni di scarsa disponibilità al dialogo». Trovare in seno al ministero soprintendenti all’altezza di Pompei non si preannuncia affatto un’operazione semplice.

Il Sole 24 Ore 25.08.13

“Scuola, assunzioni a metà. Mancano le graduatorie”, di Valentina Santarpia

Solo meno della metà delle graduatorie del «Concorsone» è definitiva: a sette giorni dal termine ultimo stabilito perché i nuovi docenti entrino in ruolo per l’anno scolastico 2013-2014, le commissioni regionali ancora arrancano: a rivelarlo è il monitoraggio che, giorno per giorno, sta effettuando Orizzontescuola.it sulla base dei dati degli uffici scolastici regionali. Ad oggi, esclusivamente le province autonome di Bolzano e Trento e la Valle d’Aosta hanno le graduatorie finali, mentre Lazio e Toscana hanno gettato la spugna. La regione Lazio ha comunicato, il 21 agosto, che «non sarà in grado di pubblicare alcuna graduatoria definitiva entro il 31 agosto», mentre la Toscana ha specificato che potrà fornire i vincitori solo per tre classi di concorso. E ci sono molte altre Regioni, come la Campania o l’Emilia Romagna, che hanno fino ad ora graduatorie provvisorie in tutte le categorie. In base ad una prima stima, questo significa che appena 3200 vincitori del nuovo concorso potranno realisticamente prendere servizio: non solo perché in molti casi le procedure per le prove orali sono state rallentate oltre misura, complici le fughe dei commissari. Ma anche perché in molte classi di concorso ci sono meno posti disponibili rispetto alle stime.
Il ministero dell’Istruzione assicura: il 75% delle procedure si concluderà entro il 31 agosto, e tutti gli altri docenti abilitati entro il 15 ottobre entreranno in servizio il prossimo anno scolastico, 2014-2015, oppure quello successivo, 2015-2016. Ma l’Anief, il sindacato dei precari della scuola, non ci sta: e annuncia un ricorso al Tar del Lazio per contestare la validità pluriennale delle graduatorie del concorso a cattedra. Secondo il segretario, Marcello Pacifico, il bando sarebbe «illegittimo perché ha violato il testo unico sulla scuola», che prevede che i concorsi diano immediato accesso ai posti vacanti. Ma questo è un altro capitolo spinoso: perché, come rileva sempre l’Anief, le cattedre disponibili non sono quelle previste un anno fa, quando è stato bandito il concorsone per 11.524 docenti perché ne mancano 2032 all’appello.
Chi andrà quindi a ricoprire quelle 11.268 assunzioni autorizzate venerdì dal Consiglio dei ministri? Si pescherà per il 50% dalle graduatorie ad esaurimento e, per la restante metà, dal concorso, ma visto che per il 1° settembre non ci saranno abbastanza vincitori ufficiali da coprire 5634 posizioni, si attingerà alla vecchia graduatoria del concorso del ‘99. Con la desolante conseguenza che quello che l’ex ministro Francesco Profumo immaginava come uno strumento per svecchiare la scuola, il primo concorso pubblico dopo 13 anni, rischia di partorire l’ennesimo compromesso burocratico all’italiana. Senza parlare della questione degli Ausiliari tecnici amministrativi della scuola, gli Ata, un altro nodo spinoso che il nuovo ministro Maria Chiara Carrozza dovrà affrontare nel decreto scuola annunciato per settembre: sono infatti state sospese per ora le 3730 immissioni in ruolo richieste, in attesa dei chiarimenti del Tesoro.

Corriere della Sera 25.08.13

“Il governo oltre i ricatti”, di Claudio Sardo

E’ inaccettabile che Silvio Berlusconi, condan nato in via definitiva per frode fiscale, cerchi di trasformare la sentenza che lo riguarda in una questione di Stato, pretendendo che principi fondamentali della Costituzione diventino oggetto di baratto. Ma non meno vergognoso è questo dibattito pubblico, che sembra dimenticare le sofferenze dell’Italia in carne e ossa, i problemi e le domande di famiglie, imprese, lavoratori che rischiano di perdere o hanno già perso il posto. Un dibattito pubblico nel quale il governo viene usato come arma di ricatto, o come leva di improbabili scenari politici, senza mai dedicare al merito delle scelte, alle opportunità, alle questioni legate alla ripresa o alle strategie europee, la considerazione che si dovrebbe in un Paese normale.
C’è la politica capovolta nel disperato tentativo di Berlusconi di sottrarsi alla condanna per un (grave) reato comune. C’è la politica capovolta nella spregiudicatezza di Grillo, che difende persino il Porcellum pur di ottenere le elezioni subito e che auspica le macerie del Paese per continuare ad alzare la bandiera di una vittoria totalitaria (e dunque di un potere totalitario). Ma c’è la politica capovolta anche nella sinistra che si accanisce sulle regole, sulle date del congresso o delle primarie: come può il Pd, sulle cui spalle grava la responsabilità maggiore del governo e della tenuta istituzionale, immaginare un confronto interno sulla propria leadership e sul proprio rinnovamento che non faccia perno sull’Italia reale, sulla strada per uscire dalla crisi, sul futuro del nostro modello sociale? Il congresso del Pd va fatto, e presto. Ma non può sfuggire che le procedure statutarie interessano una quota sempre più ristretta del suo stesso popolo.
Anche Berlusconi sbaglia i calcoli, se pensa davvero che l’elettorato si appassioni alle sue vicende giudiziarie come in passato. I sondaggisti di corte gli assicurano una crescita di consensi, legata al suo ruolo di «vittima». Ma è lecito dubitare. L’impressione è contraria: che mai come questa volta le preoccupazioni prevalenti siano altre. La crisi che ci attanaglia. Il futuro tremendamente incerto dei nostri figli. Mentre le speranze inseguono questi primi segnali di ripresa e le misure finora più efficaci del governo, a partire dai primi pagamenti dei debiti della Pubblica amministrazione.
Stia attento Berlusconi nel minacciare la caduta del governo Letta, se non riceverà alcun salvacondotto. Molti dubitano che abbia davvero la forza per aprire una crisi. In ogni caso, nessuna persona di buon senso potrebbe accettare che l’assurda pretesa di bypassare una sentenza possa condizionare l’azione del governo, in un frangente così delicato della crisi economica, quando è in gioco il destino stesso dell’Italia in Europa. Berlusconi potrebbe forse reagire a questa sua debolezza con una strategia un po’ più articolata: anziché far saltare subito il banco, adottare una tattica di logoramento, in modo che fra qualche settimana nello stesso Pd crescano le insoddisfazioni e, complice il congresso, si possa aprire la strada ad elezioni anticipate consensuali (nella primavera del 2014).
Ma, ad una simile insidia, non si può che rispondere con fermezza. Innanzitutto, facendo rispetta- re la legge. Nessun cedimento a culture forcaiole, come accusano i fan del Cavaliere: semplicemente l’affermazione dello Stato di diritto, del principio di separazione dei poteri. La legge Severino è stata votata anche dal Pdl: va dunque applicata. Del resto, l’infondatezza delle richieste della destra è testimoniata dalla loro confusione e contraddittorietà: la grazia (che presuppone la piena accettazione della sentenza), l’amnistia (impensabile per reati come quelli commessi da Berlusconi), un nuovo indulto, un rinvio purchessia, nuove e fantasiose norme ad personam… Non c’è soluzione politica diversa dalle dimissioni di Berlusconi da senatore e da un suo passo indietro nel Pdl (o Forza Italia, che dir si voglia). Tutto il resto è impossibile, prima che sconcio. Il paragone con l’amnistia di Togliatti è a dir poco grottesco. Sembra una barzelletta. Ed è offensivo anche tirare in ballo oggi l’emergenza carceri, proprio da parte di quella destra che nel 2006 organizzò sull’indulto la più ingiusta e feroce campagna contro il governo Prodi (ironia della sorte: proprio di quell’indulto Berlusconi si è ora avvantaggiato per ridurre la pena a suo carico). Una sinistra che si rispetti, tuttavia, non si può limitare a compiere questo dovere istituzionale. Deve trovare la forza per rimettere al centro non Berlusconi e i suoi guai, ma le questioni legate all’uscita dalla crisi. Il governo non è un accidente, né una tregua. Non è il governo che il Pd avrebbe voluto e che ha proposto agli elettori. Ma, dopo aver commesso tanti errori, ora non può aggiunge- re quello di abbandonare il governo Letta. Al contrario, il Pd deve chiedere di più, incalzarlo, metterci dentro idee. Deve dargli una missione che sia congeniale ad un cambiamento futuro. Solo così, del resto, il governo Letta può vivere e dare il meglio di sé. Ci sono emergenze da affrontare: gli esodati, il rifinanziamento della Cassa in deroga, la nuova tassazione sulla casa (che deve aiutare i più poveri e i ceti medi, non esonerare i più ricchi), l’annullamento dell’aumento dell’Iva. Ci sono progetti di medio periodo per le politiche industriali, per l’occupazione, per un migliore utilizzo dei Fondi europei. E poi ci sono le riforme: quella elettorale anzitutto, ma non solo. Senza un superamento del bicameralismo paritario, dunque senza alcune riforme costituzionali, anche le prossime elezioni rischiano di produrre uno stallo.
Investire sul governo non vuol dire affatto santificare le larghe intese o piegarsi all’insopportabile favola della «pacificazione». Vuol dire rimettere l’Italia in cima all’agenda. Aver dato vita a questo governo, politico e non tecnico, è stata una scelta coraggiosa. Se il Pd non l’avesse fatta, non avrebbe vinto le amministrative. Probabilmente non sarebbe neppure sopravvissuto alle lacerazioni del- le presidenziali. Avrebbe lasciato campo libero a Berlusconi e Grillo. Il governo non è nato per redimere il Pd dagli errori compiuti. Ma può aiutarlo a riscoprire la propria vocazione per il Paese. Tanti politicismi, che oggi vanno per la maggiore, so- no oggi adatti agli italiani che hanno la pancia pie-na. Invece chi non arriva alla fine del mese pretende dalla politica risposte concrete, pur nella scarsità di risorse. La domanda di governo è più forte proprio nei ceti sociali che pagano di più la crisi. E se un Berlusconi disperato dovesse infine colpire il governo Letta, il Pd dovrà reagire tentando ancora di dare una risposta di cambiamento in questa legislatura, per portare l’Italia e le sue istituzioni in una zona di maggior sicurezza.

L’Unità 25.08.13

“Contro la violenza sulle donne il decreto comincia a camminare”, di Luisa Pronzato

Era uno dei punti novità del decreto legge del governo contro la violenza di genere: «l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare». Ieri i carabinieri di Tricase (Napoli) lo hanno applicato. La misura è scattata per un imprenditore 51enne. Aveva picchiato moglie e figlia; si sono presentate ai militari. Il pronto soccorso ha confermato le lesioni, il pm ha dato l’autorizzazione. In questi 60 giorni in cui il decreto governativo è attivo, prima che il Parlamento lo converta in legge, l’attenzione è obbligo.
Si nota nella cronaca. Il 21 agosto un 24enne di Morbegno (So) è stato «allontanato» dopo che la fidanzata era arrivata in caserma con ecchimosi al volto e al braccio. Una telefonata dei carabinieri al pm di turno che ha dato l’ok. Lo stesso il 23 agosto per un 49enne di Terni. E sempre il 23 agosto, a Baranzate (Mi), un 40enne è stato arrestato dopo che la moglie ha chiesto aiuto urlando dalla finestra mentre lui la picchiava. Le botte duravano da anni, lei non aveva mai denunciato temendo ritorsioni.
Un cambio radicale rispetto ai giorni, non lontani, in cui se una donna arrivava a chiedere aiuto per le botte si sentiva dire dal piantone: «Signora gli faccia un piatto di pasta col ragù e tutto andrà a posto». Un cambio radicale rispetto alla disattenzione con cui si seguiva il vecchio codice che consigliava di mettere pace tra moglie e marito. Agire era facoltativo. Hanno pagato donne come Rosy Bonanno che aveva persino denunciato l’ex compagno. O Michela Fioretti a cui il magistrato aveva negato l’arresto del marito. Uccise.
Ormai si sa, 7 donne uccise su 10 avevano chiesto aiuto. Ora c’è un decreto, criticato per la velocità con cui è stato approntato, contestato di incosti- tuzionalità, che a quelle richieste dovrebbe rispondere. Ma quanto tempo quegli uomini staranno lontani da casa? Quanto quegli obblighi rispettano l’autodeterminazione di una donna? Come evitare le ritorsioni? E ancora chi si occupa di quegli uomini? Chi li ascolta? A queste risposte il decreto non sembra dare risposte. Il 27 settembre arriverà in Commissione in Parlamento. C’è ancora una possibilità. Fate presto.

Il corriere della Sera 25.08.13

“La democrazia sotto ricatto”, di Chiara Saraceno

Il vertice di Arcore ha confermato il ricatto, rafforzandolo. Non solo ci si aspetta dal Pd che trovi una soluzione alla decadenza di Berlusconi, ma si rilancia il contenzioso su tutto il resto. Con questo vertice, e le attese che ha suscitato, il Pdl ribadisce che le sorti del governo dipendono da ciò che Berlusconi ritiene più conveniente per sé. Ciò che conviene al paese è solo strumento di ricatto. Se il Pd non esce da questa strettoia il marasma politico che da mesi ormai attanaglia l’Italia peggiorerà ulteriormente. La pezza messa da Napolitano (accettazione di una rielezione a patto di formare un governo di “larghe intese”) ha certamente avuto buone ragioni e motivazioni generose; ma sta rivelando tutta la sua fragilità. Non solo, fin dall’inizio, il Pdl si è comportato da partito insieme di governo e di opposizione, costringendo il Pd in un ruolo di sempre più acritico difensore della “stabilità a tutti i costi”, costretto a rimangiarsi ogni, per altro timidissima, resistenza (si veda la vicenda dell’Imu e le altalenanti dichiarazioni dei ministri Pd). Dopo la condanna definitiva di Berlusconi, lui stesso e il suo partito hanno messo in chiaro, per chi non lo avesse capito, quale era per loro la vera posta in gioco nel partecipare al “governo delle larghe intese”: il salvataggio di Berlusconi, nel processo o fuori dal processo (e dalla legge). In nessun altro paese democratico sarebbe possibile che un governo fosse tenuto sotto ricatto da un leader politico (e dal suo partito) condannato in via definitiva. In Germania un ministro degli esteri molto popolare e amatissimo dovette dimettersi, perché si era scoperto che aveva copiato gran parte della tesi di dottorato. E un presidente della Repubblica si dimise perché accusato (non ancora messo sotto processo) di aver ricevuto favori da un industriale quando era governatore di una regione. Entrambi facevano parte del partito di maggioranza. Ma né il loro partito, né la stampa “amica” fecero nulla per difenderli, al contrario. Ed anche Merkel, di cui entrambi erano “pupilli”, dopo un debole tentativo di difesa, li lasciò al loro destino, anche a motivo della pressione dell’opinione pubblica. Perché in Italia, al contrario, è possibile che il Paese rimanga appeso ad un ricatto chiaramente irricevibile? Al di là delle questioni giuridiche ampiamente di-
scusse su questo giornale, proprio le ragioni avanzate da Berlusconi e i suoi per chiedere, di fatto, l’impunità – l’importanza della sua figura politica – rendono se possibile più odioso e insopportabile il reato di frode fiscale, più inaccettabile che possa sedere in Parlamento chi se ne è macchiato, ed è stato per questo condannato in via definitiva.
Berlusconi ha, certo, enormi responsabilità in questa situazione. Ma non è da solo. Il suo
partito e i suoi mezzi di comunicazione gli danno manforte – che si tratti di falchi o di colombe non importa. Sarebbe facile sostenere che sono tutti al soldo di Berlusconi e senza di lui non esisterebbero. In parte, per molti o pochi, è probabilmente vero. È disarmante vedere una intera classe politica e giornalistica occupata a costruire una narrativa pubblica in cui Berlusconi, nonostante il suo denaro, i suoi avvocati/parlamentari, le innumerevoli leggi
ad personam, è una vittima della giustizia ed un eroe della libertà, senza la cui presenza in Parlamento il partito non avrebbe futuro. Non sembrano accorgersi che in questa narrativa emerge un partito inesistente, una classe politica che in più di un ventennio non è riuscita davvero ad autonomizzarsi dal proprio leader. Al punto che, alle brutte, non disdegnerebbe una successione dinastica. Eppure, faccio fatica a pensare che siano tutti semplicemente dei servitori imbelli e impauriti. C’è un irridente cinismo, un’operazione sistematica di delegittimazione dei capisaldi della democrazia – a partire dalla divisione dei poteri – in direzione di qualche cosa che assomigli ad un populismo plebiscitario. Anche se fa un po’ specie sentire manipoli di nominati evocare la legittimità derivante dalle elezioni come l’unica forma di legittimità riconosciuta.
Il ricatto, tuttavia, ha trovato sponda anche nel timore del Pd di andare alle elezioni e nella tenace difesa della stabilità a tutti i costi. Incapace (o forse neppure tanto voglioso) di modificare il Porcellum, timoroso di un nuovo tsunami elettorale dopo le prove di questi mesi, bloccato su un esasperante dibattito interno, indebolito da comportamenti non sempre lineari nei confronti di propri rappresentanti sotto processo, il Pd è direttamente responsabile della propria ricattabilità – da parte del Pdl, ma anche rispetto alla ferma ed esplicita
moral suasion
di Napoletano in nome della stabilità.
Oggi vediamo che il governo delle larghe intese, come era logico aspettarsi, più che su un compromesso era fondato su una buona dose di ambiguità e su aspettative politicamente e civilmente inaccettabili. Possibile che il Pd, Letta, Napolitano non le abbiano messe in conto e non abbiano chiarito subito la posizione che avrebbero assunto nel caso le cose fossero andate come poi sono andate? Se non lo hanno fatto, forse perché ritenevano di poter gestire la rabbia di Berlusconi e dei suoi, sono stati per lo meno ingenui. Comunque vada a finire, questa vicenda ha consegnato ai cittadini l’immagine non solo di un governo debolissimo, ma di una classe politica disponibile ad ogni compromesso per salvare se stessa. Dove i potenti sono più uguali degli altri.

La Repubblica 25.08.13

“I Sindacati in pressing subito risposte per i precari”, di Giuseppe Caruso

La lunga guerra. Combattuta sulla pelle dei precari. È quella che sembrano aver deciso di affrontare i ministri berlusconiani: nella riunione del Consiglio dei ministri di venerdì scorso hanno di fatto bloccato il via libera alla soluzione del problema dei precari nell’amministrazione pubblica. Nonostante, dal punto di vista ufficiale, lo stop al provvedimento sia arrivato per una questione di natura formale, vale a dire una richiesta di maggior approfondimento sul tema avanzata dai ministri del Pdl, è parso evidente che il vero motivo del tergiversare avesse un nome e cognome: Silvio Berlusconi. Il centro-destra continua così la sua pressione sull’esecutivo per ottenere l’agibilità politica (ma sarebbe meglio definirla impunità) del suo leader. Adesso si attende la nuova riunione del Consiglio dei ministri, fissata per domani. Lì si capirà fino a quanto è disposto a spingersi il Pdl. Un atteggiamento, quello del partito di Berlusconi, che non piace per niente ai sindacati. Che ricordano a più riprese come in ballo ci siano la bellezza di 150mila precari, che garantiscono di fatto il funzionamento della macchina statale e degli enti locali. «Se il governo lunedì (domani, ndr) non presenterà una soluzione certa per tutti i precari della pubblica amministrazione, la Cgil a settembre valuterà con la Cisl e la Uil un’immediata mobilitazione, per far capire a ministri ed ex ministri che spesso parlano senza conoscere il problema» spiega Rossana Dettori, segretario generale della Fp Cgil. «In un Paese che è già in profonda crisi economica» continua la Dettori «corriamo il rischio di aumentare l’esercito dei disperati. Sarebbe insopportabile non dare risposte a precari che da anni contribuiscono al funzionamento di servizi primari, dalle scuole ai pronto soccorso. Al di là di quel che dice Elsa Fornero, questi lavoratori non sono dei privilegiati, sono persone che da anni lavorano con contratti non definitivi. È inaccettabile che il Pdl usi questa vicenda per aumentare la tensione nella compagine governativa e per alzare il tiro su questioni che riguardano equilibri interni allo stesso Pdl e non certo i precari».

VIGILANZA Sulla stessa linea della Cgil sono Cisl e Uil. Giovanni Faverin, segretario generale della Fp Cisl, spiega di aspettarsi «una risposta importante sul tema dei precari della pubblica amministrazione e per le prossime settimane attendiamo una convocazione per discutere della calendarizzazione delle stabilizzazioni. Vigileremo sulle soluzioni, ma è già molto utile che il governo abbia deciso di affrontare la questione sapendo che dietro ci sono uomini e donne che fanno un lavoro utile per la comunità. Dobbiamo avviare un meccanismo che consentirà a enti grandi e piccoli di stabilizzare il personale precario, rispettando il patto di stabilità». Benedetto Attili, segretario generale della Uil per la Pubblica amministrazione, sottolinea che «se il provvedimento allo studio del Governo riguarderà solo 50mila precari, vuol dire che almeno 100mila persone rischiano di non vedersi rinnovato il contratto di lavoro che scadrà a dicembre. Ci risulta strano che dopo aver discusso ed esaminato diversi testi, ancora non si sappia quale soluzione sarà adottata. È un governo che non decide».

Giuseppe Caruso