Latest Posts

“Indesit, Mirafiori e Ilva: niente soluzioni senza governo”, di Massimo Franchi

Sono i primi ad attendersi risposte. E sarebbero i primi a pagare a caro prezzo una crisi di governo. Sono le centinaia di migliaia di lavoratori coinvolti in una crisi aziendale. L’elenco è lungo una quaresima e, accanto ai nomi noti, conta di centinaia di piccole fabbriche di provincia che non fanno notizia. Al ministero dello Sviluppo economico ogni giorno ci sono tavoli (spesso più di uno al giorno) per cercare di risolvere le centinaia di crisi aperte, per evitare licenziamenti, delocalizzazioni, mobilità e assicurare continuità alle produzioni e ammortizzatori sociali ai lavoratori. Se il governo dovesse cadere, come già successo quando si dimise il governo Monti a fine 2012, il potere di pressione del ministero sulle aziende calerebbe immediatamente e a pagare sarebbero i lavoratori. Alla riapertura di settembre la prima patata bollente per il dicastero di via Molise è certamente quella dell’Indesit. La multinazionale dell’elettrodomestico di proprietà della famiglia Merloni e sede a Fabriano il 4 giugno ha presentato un piano industriale che prevedeva 1.435 esuberi (un altro migliaio colpirebbero l’indotto), la chiusura degli stabilimenti di Melano (Fabriano) e Teverola (Caserta) e lo spostamento della produzione di lavatrici in Turchia e Polonia. La mobilitazione dei sindacati ha prodotto già un risultato e, dopo molti incontri al ministero con l’amministratore delegato Marco Milani, il 26 luglio l’azienda si è presa un mese di tempo per modificare il piano industriale. Il nuovo tavolo al ministero è fissato per il 17 settembre. Una scadenza molto vicina è quella che riguarda Mirafiori. A fine settembre scadrà l’ennesima cassa integrazione per i 5.500 operai delle storiche carrozzerie della Fiat. La culla della Lingotto è appesa ormai da due anni, con la maggior parte degli operai che hanno lavorato tre giorni al mese, ai nuovi modelli e investimenti che Sergio Marchionne dovrebbe annunciare. Ma prima la 500L (spostata in Serbia), poi il nuovo piccolo Suv Jeep (spostato a Melfi) sono stati sfilati a Mirafiori. La botta ricevuta dalla Corte costituzionale, che ha riportato la Fiom in fabbrica, ha costretto Marchionne a chiedere certezze normative come condizione per nuovi investimenti in Italia, al momento dunque congelati. Con il fiato sul collo anche di Fim e Uilm, l’unica via di uscita pare essere quella della cassa in deroga (a rigor di legge poco praticabile) per prendere ulteriore tempo. Ma anche qui il governo si è mosso. E proprio a l’Unità il ministro Flavio Zanonato ha annunciato per settembre la convocazione di un tavolo su tutto il settore auto con priorità per Mirafiori. Un altro appuntamento (quasi storico) che potrebbe saltare per colpa della crisi. L’acciaieria è invece il settore più in crisi in Italia. Ilva e Lucchini sono le due aziende più in difficoltà per ragioni diverse. Anche qui il governo aveva battuto un colpo lanciando l’idea di una sinergia tra i gruppi per non spegnere l’altoforno di Piombino: visto che l’Ilva dovrà chiudere l’altoforno per ottemperare alla bonifica e visto che è prevista una ripresa del mercato dell’acciaio, i ministri Zanonato e Andrea Orlando stanno lavorando alla possibilità che per sei mesi l’acciaio che si dovrebbe produrre a Taranto possa essere prodotto temporaneamente a Piombino. La caduta del governo farebbe saltare anche quest’ultima idea. Dando il via ad una serie interminabile di chiusure di fabbriche e di posti di lavoro.

L’Unità 26.08.13

“Economia ed etica. La corruzione fa male due volte”, di Carlo Buttaroni

Si stima che, nel mondo, ogni anno siano pagati più di 1000 miliardi di dollari sotto forma di tangenti. Una cifra che corrisponde circa al 3% del Pil mondiale. In Italia, la Corte dei Conti ha quantificato i costi della corruzione in 60 miliardi di euro. Una stima che rappresenta solo un’approssimazione perché, come ha spiegato il presidente Luigi Giampaolino, i reati di corruzione sono caratterizzati da una rilevante difficoltà di emersione ed esiste una scarsa propensione alla denuncia. Non solo perché si tratta di comportamenti che nascono da un accordo fra corruttore e corrotto ma anche perché, nell’ambiente in cui sorgono, le persone, anche quelle estranee al fatto ma partecipi all’organizzazione, non dimostrano disponibilità a denunciare i fenomeni corruttivi. Tanto che la corruzione è considerata una tassa occulta, un elemento assodato quanto impalpabile del sistema, come fosse un’atmosfera dalla quale è impossibile tirarsi fuori. Che incide, però, negli andamenti economici generali. E non solo in termini di risorse sottratte alla comunità.

Il peggioramento della percezione della corruzione ha, infatti, un impatto rilevante su misure economiche come il Pil, la produttività, l’attrattività degli investimenti. In Italia, l’elevato livello di percezione di corruzione del sistema si tradurrebbe, secondo alcune stime, in una perdita di circa 10 miliardi di euro annui di ricchezza, di 170 euro di Pil pro-capite e di oltre il 6% in termini di produttività. Senza contare che la percezione di un Paese corrotto allontana gli investitori esteri. Transparency International, organismo che studia la percezione del livello di corruzione in oltre 170 Paesi, ha stimato che la di- scesa di un posto nella speciale classifica sul livello di corruzione percepita si traduce nel 16% in meno d’investimenti. Al contrario, scalando qualche gradino, si attraggono risorse preziose per rilanciare l’economia. Quasi superfluo ricordare che l’Italia, negli ultimi anni, ha disceso la classifica di Transparency fino a raggiungere, nell’ultima indagine, il 72° posto, collocandosi in fondo alla classifica europea della trasparenza in compagnia di Bulgaria e Grecia. Anche per Eurobarometro l’Italia arretra in quanto a percezione della corruzione. E peggiora su tutti e tre i livelli oggetto della sua indagine: istituzioni nazionali, regionali e locali.

Ci sono, poi, gli altri fenomeni che alimentano l’economia dell’illegalità. Secondo la commissione parlamentare antimafia, il fatturato delle mafie è stimabile in 150 miliardi di euro, con 70 miliardi di utili al netto degli investimenti. Per quanto riguar- da l’evasione, invece, si stima che nel nostro Paese i redditi evasi ammontino a 270 miliardi di euro e che il mancato gettito sia di 120 miliardi, di cui 60 relativi all’Iva non dichiarata. Stiamo complessiva- mente parlando di oltre 400 miliardi di euro che, in un modo o nell’altro, sono sottratti alla collettività, alla crescita, allo sviluppo, al welfare. Cifre impressionanti che rappresentano un costo insostenibile per qualsiasi Paese.

IL COSIDDETTO «FATTORE CONTINGENTE»

Nonostante l’intuitiva consapevolezza che la corruzione (e l’illegalità in generale) può deviare il fine dell’interesse pubblico, essa è considerata perlopiù una costante marginale (o un fattore contingente) di un processo economico. Sottraendo così, del tutto arbitrariamente, il costo che la corruzione e l’illegalità diffusa fanno pesare sull’intera collettività. Perché corruzione e malcomportamento amministrativo, collusione e abuso di potere, influiscono sull’efficienza, sull’efficacia e sull’equità delle politiche pubbliche. E, dunque, sul benessere collettivo. Purtroppo l’impressione registrata in molte ricerche, è che la corruzione (e
più in generale l’illegalità) sia entrata in circolo nel sistema, diventandone parte integrante. E che l’etica pubblica sia un deterrente ormai inefficacie. Un sentimento
che lascia trasparire uno scetticismo di fondo e un accomodamento strumentale con lo spirito del tempo che genera ulteriore indifferenza rispetto a ciò che è lecito e a ciò che è illecito.

Sembra diffondersi, nel nostro Paese, una smobilitazione delle coscienze, un clima sociale che porta molte persone all’assuefazione di fronte l’incalzare dei fenomeni di corruzione e malaffare. È come se molti avessero autonomamente «depenalizzato» certi reati, disposti sempre più a chiudere un occhio. Corrado Alvaro, scrittore della Locride, scriveva che «la disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile». Ci troviamo sempre più a fare i conti con una cultura che esalta una libertà slegata dalla responsabilità, una libertà degradata ad arbitrio, a scapito o addirittura contro gli altri. Ma, soprattutto, si sta delineando un clima che insidia le coscienze e l’idea stessa di legalità, inaugurando un nichilismo che avvolge in primo luogo la politica. A parte qualche concessione rituale e poche lodevoli eccezioni, negli ultimi anni è stata infatti proprio la politica a nutrire il disinteresse nei confronti della legalità, nonostante il crescente numero di casi che hanno progressivamente inquinato il sistema economico e sociale. Come a dire che un fisco tanto eccessivo da essere opprimente non possa essere riformato con gli strumenti della democrazia e della legalità, cioè della politica.

RIFONDAZIONE E LEGALITÀ

Forse anche per questo oggi si avverte con forza il bisogno di rifondare il Paese su una nuova cultura della legalità e dei valori civili. Una cultura che interpreti il diritto come espressione del patto sociale, premessa indispensabile per costruire relazioni consapevoli tra i cittadini e tra questi ultimi e le istituzioni. Il principio di legalità in democrazia rappresenta un mezzo di prevenzione a questi rischi, facilita la partecipazione responsabile alla vita sociale, sviluppando la concezione del diritto come espressione del patto di cittadinanza, valorizzando la nozione d’interesse comune. Le buone prassi sono quelle che incidono, scuotono le coscienze e stimolano all’impegno. In un contesto così deteriorato è essenziale non fermarsi alla forma e alla superficie, né accontentarsi dei «buoni propositi», ma andare al cuore dei problemi per affrontarli senza titubanze o paure. C’è bisogno di concretezza, di continuità e di uno spicchio di positività. Promuovere la cultura della legalità può diventare un reale sostegno operativo all’incalzare di fenomeni di deterioramento civile. Perché indignarsi non è più sufficiente. Bisogna tra- sformare questo sentimento in impegno, per recuperare e affermare il valore della pratica della legalità come fondamento della convivenza civile, promuovendo il concetto di cittadinanza fondato sulla coscienza di due principi essenziali: quello del «diritto» e quello del «dovere», sul rispetto dell’altro, delle regole e delle leggi.

L’Unità 26.08.13

“Con la crisi spread presto a quota 300 già da oggi i mercati possono punire l’Italia”, di Eugenio Occorsio

«Si sta rompendo a causa di Berlusconi il patto non ufficiale, una sorta di gentlemen agreement che doveva evitare qualsiasi sconvolgimento politico prima delle elezioni tedesche. Viviamo in una fase di “volatilità controllata”: ma se la situazione si avvita, come ormai sembra tutt’altro che impossibile, le conseguenze potrebbero essere molto pesanti per l’Italia». Questa volta Nouriel Roubini non vorrebbe abbandonarsi al pessimismo, ma poi analizzando le ipotesi possibili le speranze di una schiarita si dimostrano davvero poche. Sono ore febbrili negli uffici del centro studi Rge, che Roubini ha fondato a pochi isolati dalla New York University dove insegna. Da qui il professore segue minuto per minuto la partita- Italia con l’assistenza di Brunello Rosa, l’economista della London School of Economics che è direttore delle macro- strategie del think-tank. «La situazione — dice Roubini — potrebbe precipitare già domani alla riapertura (oggi per chi legge, ndr)».
Così presto?
«E’ una giornata in cui potrebbero accavallarsi diversi fenomeni negativi: le contrattazioni sono limitate perché è periodo di ferie, anche in America dove l’attività riprenderà a pieno regime dopo il Labor Day del 2 settembre, ed è chiuso il mercato di Londra per una festività. In ogni caso, se non si trova una soluzione, lo spread risalirà entro pochissimi giorni a quota 300, il buon momento del mercato azionario italiano si interromperà, i titoli bancari saranno particolarmente penalizzati e i costi del credito torneranno ancora una volta a salire. Quanto più le elezioni sono prossime, tanto maggiore è il danno per i Btp».
Tutto questo perché si è infranto il patto con l’Europa, e la fiducia che è stata riposta nel nostro Paese e che ha evitato finora traumi malgrado le tensioni, come ricordava nel suo editoriale domenicale Eugenio Scalfari, sarà stata ancora una volta tradita?
«Esattamente. Ed è un peccato, perché Enrico Letta, una persona seria e rispettata da tutti sul piano internazionale, sta con il suo governo facendo molte cose buone, a partire dall’accelerazione per i pagamenti dei crediti della pubblica amministrazione. Letta sta agendo bene con l’appoggio del governo tedesco, fondamentale che ci piaccia o no, nonché della Bce Mario Draghi, sostegno che non si può sapere se verrà conservato se la situazione precipita. Sull’Imu la soluzione che si sta profilando è quella giusta: una tassa da far gravare solo sui più abbienti. Con le risorse che ne verranno, si imposterà l’alleggerimento del carico sulle imprese e sui lavoratori. Una linea corretta, e i mercati la stavano apprezzando. Invece Berlusconi per un mero calcolo personale prende a pretesto proprio l’Imu per aprire la crisi. Anzi, per pretendere l’immunità personale, a costo di sfasciare tutto. Una posizione inaccettabile. Vedremo se Napolitano riuscirà ad evitare le elezioni prima della Finanziaria. Il nostro scenario più probabile è che si voti all’inizio del 2014 ma non escludiamo un’accelerazione.
I mercati stanno facendo un ragionamento simile».
Lei parlava del patto implicito, o diciamo riservato, verosimilmente raggiunto dalla Merkel direttamente con Napolitano come era avvenuto già nel 2011, che doveva evitare “incidenti” fino al 22 settembre. Ma questo significa che sotto la cenere cova comunque una certa preoccupazione sull’Italia?
«La domanda di fondo rimane: l’Italia ha un immane debito
pubblico, ce la farà a ripagarlo? Il problema è la crescita. Il Paese viaggia con un Pil più basso dell’8% rispetto a prima della crisi. Ammesso che si sia raggiunto il fondo, quale velocità avrà la ripresa? Gli indicatori mostrano un quadro di sviluppo assai limitato, quindi la questione della sostenibilità rimane. Con una prospettiva temporale decente questi problemi si possono affrontare con lucidità al pari degli altri casi europei. A partire dalla Grecia, che ha bisogno, come si è lasciato sfuggire lo stesso Schauble, di una nuova ristrutturazione finanziaria, e vedremo a chi saranno imposte le perdite. Altre sorprese potrebbero venire dagli altri Paesi sotto programma internazionale di assistenza. L’Italia per ora non ha avuto bisogno di interventi d’emergenza, ma non è escluso che un’operazione sul debito sia necessaria fra qualche tempo, magari un allungamento delle scadenze: swap di titoli a corto con altri a lungo dietro un piccolo mark-up (sconto,
ndr).
Sono normali misure di gestione delle passività condotte in un regime market-friendly, senza emergenze, da realizzare con gradualità in un quadro di stabilità nel prossimo anno e mezzo. Ecco, quest’equilibrio rischia di saltare. L’Italia è sotto osservazione perché tutti temono l’instabilità politica, che si conferma il punto debole: non ci sentiamo più di escludere misure più radicali di ristrutturazione del debito a
medio termine».
Ha rivisto le previsioni sulla crescita italiana per quest’anno?
«No, lo stiamo facendo adesso. Finora eravamo più ottimisti della media: per il secondo trimestre il mercato diceva – 0,4%, noi – 0,1%. Alla fine la perdita del Pil è stata dello 0,2. Per l’intero 2013 noi prevedevamo un -1,7%, il Fondo Monetario ha detto – 1,8 e la Banca d’Italia è arrivata quasi al 2%. Temo che dovremo rivedere anche le nostre previsioni al ribasso, e neanche di poco, se la situazione precipita».

La Repubblica 26.08.13

“Lavoratori e imprese: chi paga i ricatti del Cav”, di Andrea Bonzi

Chi pagherebbe la crisi di governo? La risposta è semplice e amara: gli italiani, specie i più poveri. Il ricatto dell’italiano più ricco (Berlusconi: o mi salvate o faccio cadere il governo) ricadrebbe sui milioni di italiani che sono in cassa integrazione, su quelli che con l’aumento dell’Iva dovranno tagliare ulteriormente sui generi alimentari, su quelli che fanno veramente fatica a pagare l’Imu sull’unica casa, figlia dei risparmi di una vita. Se il Pdl staccherà veramente la spina al governo Letta le conseguenze sull’economia italiana sono da far tremare i polsi. Un lunghissimo elenco che parte proprio dal cavallo di battaglia del Pdl. Quell’Imu per cui i berlusconiani chiedono l’abolizione totale su tutte le prime case. La crisi invece produrrebbe come prima risultato masochistico e illogico quello di far pagare a tutti gli italiani possessori di una casa la tassa più odiata dagli elettori della destra. Ad oggi infatti la situazione è questa: il 28 o 29 agosto il Consiglio dei ministri varerà il decreto per azzerare la prima rata Imu, (congelata il 17 maggio) e varare la nuova Servica Tax che entrerà in vigore dal 2014 e assorbirebbe anche la seconda rata dell’Imu del 2013. Alla copertura necessaria (2,4 milioni per la prima rata più 2 per la seconda) mancherebbe solo 1,5 miliardi con varie soluzioni allo studio, tutte vicine ad un compromesso più che probabile. Se anche il governo cadesse dopo il varo del decreto, difficilmente la ex maggioranza si accorderebbe sulla conversione con la clausola di salvaguardia prevista a maggio che scatterebbe a novembre: pagamento di entrambe le rate. Le emergenze finanziarie per il governo sono poi molte e riguardano le fasce più deboli della società. In primis c’è il rifinanziamento della cassa integrazione e mobilità in deroga. Già rimpinguata a maggio, è già di nuovo terminata. Le Regioni che la autorizzano hanno già lanciato il grido di dolore e le ultime verifiche quantificano in un miliardo (ma Regioni e sindacati parlano 1,2-1,5 miliardi) le necessità per arrivare a fine anno e garantire a tutti i lavoratori coinvolti (quelli non coperti dalla cassa ordinaria e straordinaria, i settori non industriali e le piccole imprese) un ammortizzatore sociale fondamentale per arrivare a fine mese. Il primo ottobre poi scadrà il congelamento dell’Iva. Per evitare l’aumento dal 21 al 22 per cento dell’imposta sul valore aggiunto il governo ha bisogno di un miliardo e lo avrebbe trovato aumentando la tassazione su sigarette e alcool, mentre sono vengono smentite le voci sulla riduzione di aliquota solo su alcuni beni con la rimodulazione del paniere («sarebbe un provvedimento ulteriormente regressivo che colpirebbe le fascie più deboli», dicono dal ministero dell’Economia). Ma con la crisi anche qui il provvedimento salterebbe con l’aumento che scatterebbe da ottobre, colpendo in primis le fasce più deboli e i consumi, con i conseguenti effetti depressivi sull’economia. Già oggi invece dovrebbe essere varato il decreto e il disegno di legge sul pubblico impiego con il progetto di stabilizzazione per i 150mila precari della Pa. L’idea del governo è quella di prevedere una quota riservata ai precari nei nuovi concorsi che riapriranno le assunzioni. Quote che i sindacati chiedono anche per chi ha lavorato in questi anni con contratti co.co.co e non solo con 36 mesi di tempo determinato negli ultimi cinque anni. Anche in questo caso lo tsunami della crisi butterebbe a mare la stabilizzazione e i precari stessi, per cui a fine anno sono previste le scadenze dei contratti. Altra norma che dovrebbe vedere la luce entro questa settimana è la riduzione della bolletta elettrica per tutti gli italiani. Il cosiddetto decreto Fare-2 messo a punto dal ministro Flavio Zanonato prevede un taglio del 7-8 per cento della bolletta tramite lo sfasamento di 2 anni degli incentivi per le energie rinnovabili (la voce A3 della bolletta) tramite emissione di bond. Anche il sogno di risparmiare sulla bolletta svanirebbe. L’unico decreto già approvato è quello sul pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione. Ma salterebbe la prevista accelerazione e le compensazioni fiscali per le piccole imprese che potevano auto abbonarsi le tasse in caso di crediti. ADDIO ALLENTAMENTO VINCOLI UE Sul medio periodo e dunque nei prossimi mesi cadrebbero infine due piani di azioni fondamentali e richiesti a gran voce da tutte le parti sociali (senza distinzione) e dall’intero arco costituzionale. Il primo riguarda il taglio del cuneo fiscale e del costo del lavoro che permetterebbe ai lavoratori dipendenti di avere qualche soldo in più in tasca per far ripartire i consumi interni, da un lato, e alle imprese di essere più competitive in rapporto con la concorrenza estera, dall’altro. L’altro è legato alle trattative europee sui vincoli di bilancio. La fine della procedura per deficit eccessivo spuntata dal governo Letta e la precondizione per chiedere all’Europa un allentamento dei vincoli di bilancio e liberare risorse pubbliche per la lotta alla disoccupazione e un rilancio della spesa pubblica e in servizi. Che potrebbe garantire la soluzione definitiva al dramma degli esodati e alla fine del blocco delle rivalutazioni delle pensioni. Ma l’effetto più nefasto della crisi di governo sulla nostra economia sarebbe sicuramente quello di una nuova escalation dello spread. Tutti i tassi, non solo il differenziale con il Bund tedesco, tornerebbero ad alzarsi annullando i miglioramenti di questi ultimi mesi per le casse dello Stato e facendo schizzare nuovamente il debito pubblico. «Sarebbe una perdita di credibilità incredibile sul piano internazionale», sintetizza il viceministro all’Economia Stefano Fassina. Che poi attacca: «C’è soltanto una cosa peggiore della crisi di governo: il chinare la testa davanti al ricatto di Silvio Berlusconi».

L’Unità 26.08.13

“Il Cavaliere è entrato in campagna elettorale”, di Ilvo Diamanti

Siamo in piena campagna elettorale. Anche se non è chiaro se e quando si voterà. Ma non importa. Tutte le scelte e i comportamenti di Silvio Berlusconi, dopo la condanna in Cassazione per evasione fiscale, assumono un chiaro significato, in questa prospettiva. Mirano, cioè, a creare un clima d’opinione favorevole: a Berlusconi e al centrodestra. In vista di una competizione elettorale che, se non imminente, appare, tuttavia, non lontana. Ed è, comunque, un’eventualità non prevedibile.
Perché nessuno, ormai, è in grado di controllare il corso della politica in Italia. Per questo a Berlusconi interessa imporre al centro dell’attenzione dei cittadini alcuni aspetti, alcune questioni che lo riguardano direttamente.
a. Anzitutto, il tema della giustizia. O meglio, dell’in-giustizia nei suoi riguardi. È il suo chiodo fisso. Da quando è sceso in campo e ha iniziato la sua contesa contro i magistrati. Anche se Berlusconi non è mai riuscito, fino ad oggi, a farne una priorità, intorno a cui aggregare una maggioranza ampia e solida. In Parlamento. Ma, soprattutto, nell’opinione pubblica. Un problema, per il Cavaliere, tanto più in questa fase. Perché oggi, per larghi settori sociali, le priorità sono, invece, legate alla recessione economica, alla disoccupazione, al reddito, al costo della vita.
Una crisi di governo aperta per i problemi giudiziari “personali” di Berlusconi, in questa situazione, rischierebbe di apparire inaccettabile, oltre che incomprensibile, per i cittadini. Per questo il Pdl ha trasformato l’agenda di governo in una corsa ad ostacoli. Disseminata di trappole. L’Imu, per prima. Poi il decreto sui precari della Pubblica amministrazione. Ma i motivi di tensione, nella maggioranza, sembrano destinati ad aumentare. Di numero e di intensità. E rischiano di rendere inevitabile la crisi di governo. Per auto-dissoluzione. Evitando responsabilità specifiche e dirette di un partito. In particolare, del Pdl.
b. Berlusconi, inoltre, cerca di imporre il proprio caso personale come caso esemplare – e se stesso come testimone
– di un’emergenza democratica. Il leader del secondo schieramento politico costretto all’esilio – a casa propria. Non è un’impresa facile, considerato il grado di “agibilità” politica reale di cui dispone l’imprenditore mediatico più importante d’Europa. Tuttavia, le polemiche di questi giorni appaiono, comunque, coerenti con un obiettivo fondamentale della campagna elettorale di Berlusconi. Sollevarsi dalla posizione periferica in cui, a dispetto di molte letture del risultato, era stato spinto alle elezioni di febbraio. Certo, anche allora è riuscito quasi a raggiungere il centrosinistra. Contrariamente alle previsioni. Ma a causa della “rismonta” del Pd più che della “rimonta” del Pdl. Il quale ha perduto 6 milioni e 300 mila voti e 16 punti, rispetto a 5 anni prima. Lo stesso Berlusconi, nei mesi scorsi, non è riuscito a migliorare gli indici di fiducia nei propri confronti. Troppo bassi, per restituirgli il ruolo di un tempo. Una crisi di governo prodotta, in modo implicito o esplicito, dalle attuali vicende giudiziarie rilancerebbe di nuovo Berlusconi come protagonista della vita politica e sociale. Nonostante tutto. Nel bene e nel male. (Come già sta avvenendo).
c. Cedere sulla questione dell’ineleggibilità, accettare la decadenza di Berlusconi da parlamentare, inoltre, significherebbe riconoscere e accelerare il declino di Berlusconi. Non solo sulla scena politica nazionale, ma anche nel centrodestra e nel Pdl. Aprirebbe, dunque, ufficialmente la “guerra di successione”, accentuando le divisioni fra i cosiddetti “falchi” e le sedicenti “colombe”. In realtà, correnti e leader del Pdl, che ambiscono ad assumere la guida e il controllo del partito. Anche se, oggi, nessuno è in grado di governare e unire il centrodestra al di fuori di Berlusconi. La determinazione del Cavaliere nel denunciare la propria indisponibilità a farsi da parte serve, dunque, a rendere la questione del tutto inattuale. Comunica – all’esterno e all’interno del Pdl – che Berlusconi non ha alcuna intenzione di farsi da parte. E se il suo declino dovesse avvenire, coinvolgerebbe tutto il centrodestra.
Dopo di lui, dunque, il diluvio. Per il centrodestra e per il Pdl, almeno.
d. Attraverso le polemiche e le minacce di questa fase, Berlusconi ha sottolineato, anzi, gridato che la propria esclusione dal Parlamento e dalla competizione elettorale potrebbe diventare politicamente rischiosa e costosa. Non solo per il centrodestra e per Berlusconi, ma anche per il Pd e per il centrosinistra. Perché proprio la sua “esclusione” potrebbe diventare un fattore di “inclusione”. Invece di spingerlo nella penombra, gli offrirebbe ulteriore visibilità. Di certo, diverrebbe un argomento importante, in campagna elettorale.
Fino a trasformarla in uno scontro istituzionale decisivo.
e. Infatti, se, dopo Enrico Letta, Giorgio Napolitano incaricasse ancora Enrico Letta. Se, in caso di impossibilità di trovare nuove maggioranze in Parlamento, Napolitano decidesse di dimettersi, affidando ad altri, dopo di lui, il compito di sciogliere le Camere. Per Berlusconi, in fondo, non cambierebbe molto. Anzi, potrebbe perfino rafforzare la propria centralità politica e sociale. Diverrebbe, infatti, il protagonista assoluto di uno scontro politico e – appunto – istituzionale irrimediabile e irresolubile. Lui, Berlusconi, da solo. Contro tutti. La Sinistra, Letta. Ma, soprattutto, Napolitano. Il Presidente. Garante della Repubblica. E di questo governo.
Così, Silvio Berlusconi conduce la consueta guerra contro i magistrati e i giudici – che pretendono di applicare le leggi anche nei suoi confronti. Per questo si serve, come sempre, di tutti i mezzi e gli strumenti – politici, economici e mediatici – a sua disposizione. Tuttavia, allo stesso tempo e nello stesso modo, fa campagna elettorale. In vista del voto che verrà. Quando verrà.
La posta in palio è alta. Non solo per Berlusconi. Perché la sua parabola è alla fine. Ma quel che sarà dopo è ancora da scrivere. E, dopo avere scritto la biografia della Seconda Repubblica, Berlusconi vorrebbe lasciare il segno
anche sulla Terza.

La Repubblica 26.08.13

“E’ necessario ribellarsi alla dittatura del presente”, di Claudio Sardo

La crisi consuma fiducia, e persino speranza. Basta guardarsi attorno: si allarga la forbice tra ricchi e poveri, il lavoro che manca restringe pure i diritti, la società dei due terzi è capovolta dallo scivolamento del ceto medio e dalla precarietà dei giovani. La politica, per parte sua, appare impotente: le istituzioni democratiche continuano a perdere la partita con poteri esterni più forti e i canali della rappresentanza sono spesso ostruiti, benché la domanda di partecipazione si manifesti in forme inedite, e talvolta impetuose. Ma, oltre le evidenze, c’è un lato oscuro della crisi. Che tocca l’uomo, le sue relazioni, la capacità stessa di pro- durre cambiamenti. Viviamo in una sorta di dittatura del presente.

E non è chiaro se questa condizione prece- da le emergenze sociali, o ne sia un velenoso prodotto. Il tempo ci cambia. La nostra sfida, però, sta nel fatto che anche noi possiamo cambiare il tempo. Abbiamo la libertà di incidere nella storia. È questo il fondamento, il senso della libertà. Ma c’è ancora oggi la consapevolezza del cambiamento possibile? Oppure siamo stati derubati dell’idea di futuro?

La dittatura del presente, dicevamo. Il consumo di oggi a scapito di quello di domani. Il debito di oggi pagato con nuovo debito a breve. Il desiderio di oggi invece dell’investimento per il futuro. Il leader carismatico di oggi (magari dopo aver gettato nel fosso il pifferaio osannato fino a ieri) a cui affidare i tanti risentimenti accumulati invece del- la faticosa costruzione di una democrazia partecipata, di una competizione attenta anche al bene comune. Torna alla mente l’enciclica Lumen Fidei, dove Papa Francesco parla di idolatria. «L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri: negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia». L’idolatria altro non è che un «movimento senza meta da un signore all’altro». L’idolatria non offre un cammino, «ma una molteplicità di sentieri che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto».

Se si leggono queste parole fuori dalla chiave teologica o pastorale, ne viene fuori una fotografia incredibilmente nitida della nostra afasia politica e della crisi democratica. La politica è in crisi perché slegata dalla promessa. Dall’idea di futuro. Dalla speranza che il cambiamento è possibile, che lo si può perseguire (soltanto) insieme, e che lo si può cominciare a costruire adesso. La politica è condannata al presente perché deve cercare consensi a breve. Perché è ridotta a mera governabilità. Anzi, per alcuni è solo la disciplinata applicazione di dottrine forni- te dalle tecnocrazie e/o dalle oligarchie. E già qualcuno dice che sono più competitivi i sistemi autoritari, perché più capaci di investimenti di medio o lungo termine, non subordinati al consenso elettorale.

L’eterno presente è una schiavitù. L’eterno presente ha il volto felice degli spot pub- blicitari. Dà un senso provvisorio di appaga- mento. Offre al supermarket della politica una batteria di salvatori della Patria, che vendono sogni ma non sanno promettere, cioè costruire comunità. Si dirada così il senso e il tessuto della solidarietà. L’idolatria del presente ci fa credere di stare in una piazza, e invece ci relega in un «labirinto». Il presente è l’altra faccia della solitudine. Dell’individualismo. «Non facciamoci rubare la speranza – è ancora un passo dell’ultima enciclica – non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che frammentano il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo invece proietta verso il futuro e spin- ge a camminare con speranza».

All’individuo fanno capo diritti fondamentali, conquiste di civiltà, risultati tra i migliori della storia dell’uomo. C’è dietro questa definizione la cultura greca, quella romana, quella cristiana, l’Illuminismo (e i loro conflitti, che hanno tuttavia prodotto pensiero, ordinamenti, civiltà). Ma il tema di oggi non è l’individuo in astratto: è l’individuo concreto, rimasto solo davanti allo Stato e al mercato. È l’individuo che perde la propria dimensione di persona, costruttore di comunità, legato ai propri mondi vitali come il tralcio alla vite. La persona capace di spendere la vita per i propri figli, per gli altri, per chi ha bisogno, per i compagni di lotta. Se non si è disposti a dare almeno un po’ della propria vita, il futuro resta fuori dall’orizzonte. E, se l’orizzonte si restringe, l’individuo resta solo anche quando si ribella insieme ad altri. Perché non è parte di un movimento, di una comunità, di un popolo, ma di una moltitudine. Ci vogliono invece i corpi intermedi, ci vuole fraternità, passioni comuni, per formulare una promessa e cambiare il futuro. Corpi intermedi: dal più piccolo, la famiglia, al più complesso perché proiettato fino dentro le istituzioni, il partito. Cosa resta della politica se tutto diventa competenza tecnica o governabilità, per di più costretta dentro binari strettissimi, disegnati da altri? La politica è rischio: il contrario della neutralità. Per questo può cambiare il corso degli eventi. Ma per farlo deve avere i suoi strumenti: le istituzioni e, prima ancora, la comunità organizzata. Il partito – come il sindacato, la cooperativa, il movimento, il comitato – non è un totem, ma è indispensabile per tentare di uscire dalla frantumazione, che è condizione di servitù.

Occorre lavorare con passione alle cose buone che si possono fare oggi, sapendo che non sono perfette e che il desiderio di una comunità è andare oltre, pensare ad un futuro migliore. Magari molto migliore. La profezia non è incompatibile con la politica. Purché non si crei una frattura tra il buon governo possibile e l’idea del cambiamento futuro. Una volta si chiamava «principio di non appagamento». Il governo non è il solo scopo della politica: quando lo diventa, allora comandano tecnocrazie e oligarchie. Il partito, i corpi intermedi sono i garanti del «non appagamento». Si misurano sempre con la promessa. Non ci sarà mai un leader carismatico capace da solo di ricomporre uno specchio finito in pezzi. La frattura di oggi, nel tempo della dittatura del presente, è causata da istanze di innovazione che si esprimono in modo radicale e del tutto contrapposto alla politica concreta, ai migliora- menti parziali e possibili nel governo dell’ esistente. Così, però, il conflitto non produce cambiamento e gli resta estraneo. Tocca ai partiti e all’autonomia dei corpi intermedi sanare la frattura.

L’Unità 26.08.13

“I politicamente scorretti che insultano la Kyenge”, di Michele Serra

Insultare Cecile Kyenge è diventato una forma di neoconformismo. Bastano una buona dose di razzismo volontario o involontario; una notevole mancanza di fantasia; e una pagina Facebook. Di suo il vicesindaco di Diano Marina, signor Cristiano Za Garibaldi (Pdl) ci ha messo un sovrappiù così surreale da risultare quasi divertente: scusandosi, ha spiegato di averlo fatto perché era stressato dalle tasse. A ben vedere, nella sua caotica autodifesa il vicesindaco dice anche qualcosa di più: è irritato perché il ministro Kyenge ha accennato (solo accennato) alla possibilità di usare qualche alloggio vuoto e inutilizzato per i senza tetto e per i nomadi. Si capisce che in una terra come la Liguria, scempiata dalle seconde case, buona parte delle quali sfitte e in vendita, l’argomento non sia molto popolare. Anche perché costringe gli amministratori liguri, compreso il vicesindaco Za Garibaldi, a riflettere sulla pluridecennale svendita del loro territorio, massacrato dal cemento.
Ma sono, questi, solo dettagli, minime variazioni di un ritornello davvero monotono, quello che ha fatto del primo ministro afroitaliano il bersaglio di ogni sconcezza e di ogni sberleffo.
È già stato detto e scritto molte volte, in circostanze identiche a questa, che il bersaglio finale di queste esternazioni è il politicamente corretto, cioè quell’insieme di consuetudini e di inibizioni linguistiche utili a non offendere le minoranze razziali e non solo. Nato non per caso negli Stati Uniti, Paese che prima e più di ogni altro ha dovuto fare i conti con una composizione sociale multietnica e multireligiosa, una colossale immigrazione, le difficili convivenze che ne conseguono, le incomprensioni, gli scontri di sensibilità. Per quanto ipocrita, e spesso foriero di neologismi davvero goffi, il politicamente corretto discende da un’intenzione virtuosa, che è quella di far convivere le diversità, di renderle governabili. È esattamente per questo — non certo per scrupoli lessicali ai quali in genere non sono aduse — che le destre populiste di mezzo mondo, quella italiana in primo luogo, lo odiano. Perché lo vedono come il sintomo più evidente di una volontà di convivenza che non condividono e non vogliono. E così come per Bossi chiamare gli africani “bingo bongo” non era solamente una manifestazione del suo razzismo privato, ma anche un modo per far sapere ai suoi elettori terrorizzati dall’immigrazione e dal “mondialismo” che finalmente in Italia si poteva dare libero sfogo a qualunque fobia sociale, e anzi farne uno strumento di consenso e di governo; allo stesso modo l’avvento sulla scena politica di Kyenge è stata un’occasione imperdibile per chiarire una volta per sempre che no, un ministro nero non fa parte delle cose tollerabili.
Più in generale, insieme al fragile tappo del politicamente corretto made in Italy, saltato ormai da tempo, sono le buone maniere nel loro insieme a risultare di impiccio alla destra populista. Come molte delle regole in vigore, sono imputate di imbrigliare i cosiddetti “umori popolari”. Rifarsi alla orgogliosa maleducazione fascista, turpiloquente e manganellatrice, è probabilmente congruo ma rimanda troppo indietro nel tempo. Bastino, come esempio corrente, le interruzioni e le urla nei talk-show, il sorriso di scherno e lo scuotimento della testa mentre parla l’avversario, la totale mancanza di contraddittorio politico nel ventennale (e rudimentale) soliloquio berlusconiano, la titolazione incredibilmente becera e aggressiva dei due principali quotidiani di destra, l’odio di classe per “gli intellettuali” che parlano difficile, per la cultura “che non dà da mangiare”, nonché (cito dalla pagina Facebook del vicesindaco di Diano Marina) per “i benpensanti”.
Parola che, usata in quel contesto, e da una persona che ha appena insultato Cecile Kyenge, colpisce molto. Il termine “benpensanti” tanti anni fa serviva per indicare i borghesucci timorati e baciapile, quelli che votavano per la Dc e per i suoi alleati, e che oggi probabilmente votano per il vicesindaco di Diano Marina, il Pdl e la Lega. Oggi la parola viene torta al punto da indicare quelli che non ritengono normale né giusto insultare “i negri”, e ancora si sforzano di chiamarli “neri” o “africani” o “afroitaliani” (è il caso della signora Kyenge). Vedi come mutano i tempi: l’antirazzismo è nato rivoluzionario e per tanti versi lo è ancora, dovendo risalire una potente corrente contraria. Ma oggi i suoi nemici di destra, per deriderlo, per liberarsene, per non farci i conti, lo liquidano come “benpensante”.

La Repubblica 26.08.13