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“L’industria senza politica”, di Massimo Mucchetti

L’Italia della politica si scervella sul destino di Silvio Berlusconi. L’economia passa in secondo piano. E, nel recinto dell’economia, scompare la politica industriale. Doveva essere, la politica industriale, un segno distintivo del governo Letta.Non se ne avverte ancora traccia sia nella definizione dei soggetti deputati a darle impulso, per esempio nella definizione della missione della Cassa depositi e prestiti, sia nell’assunzione di un ruolo di regia discreta nelle grandi ristrutturazioni in corso. Sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico si accavallano decine, se non centinaia, di crisi aziendali. Ma dov’è la nuova politica di ampio respiro per rilanciare la grande impresa italiana che non si può fare solo nel dicastero di via Veneto ma richiede anche l’impegno convergente dei ministeri dell’ Economia, delle Infrastrutture, dell’Ambiente e della stessa presidenza del Consiglio?
Automobile, trasporto aereo e ferroviario, telecomunicazioni, impiantistica per l’energia, distribuzione organizzata, televisione, il sistema residuo della grande impresa è variamente in difficoltà. Ma non se ne parla. O meglio si evoca la grande impresa come ideale astratto solo per dire che la piccola e la media che esistono, e combattono spesso bene, non sarebbero all’altezza delle sfide della modernità. Ma sulla grande impresa che c’è, sui suoi problemi e sulle sue prospettive, silenzio. Nel mondo cambiano le locomotive imprenditoriali e tecnologiche dell’innovazione, ma l’Italia sembra ferma alla politica de- gli anni Novanta quando si credeva che sarebbe bastato celebrare il funerale dello Stato imprenditore, aprendo le porte alle varie ThyssenKrupp e General Electric, spezzando le grandi filiere industriali e scommettendo sull’outsourcing e sul- la specializzazione, per avere imprese più grandi, più trasparenti e più competitive. E invece la storia ha preso un’altra piega. Con la quale facciamo fatica a connetterci.
Per stare alle cronache più recenti, ecco un Jeff Bezos che compra la Washington Post e noi crediamo che la Fiat al 20% del Corriere sia più o meno la stessa cosa. Ci disinteressiamo del futuro dell’automobile credendo sempre e comunque alla narrazione marchionnesca, quasi avessimo timore di vedere la realtà di una Fiat che non investe più cifre degne in questo Paese, quasi che avessimo un timore, addirittura il panico, di scoprire fin dove sia la burocrazia tricolore a tarpare le ali al gabbiano e da dove invece cominci il disegno degli Agnelli e del loro top manager. Pensiamo che il futuro del trasporto ferroviario passi dallo smantellamento di quel che resta di un’industria nazionale, l’Ansaldo Breda e l’Ansaldo Sts, e dal salvataggio degli azionisti di Ntv (Montezemolo, Della Valle, Punzo, Generali, Intesa Sanpaolo, ec- cetera) e non dal rilancio, anche nel trasporto locale, delle Fs e dalla costruzione di una Alstom italiana per il materiale rotabile. Assistiamo inerti all’Eni che dice di voler allontanare da sé la Saipem dopo uno scandalo tangentizio e alla Finmeccanica che, presto o tardi, darà via anche l’Ansaldo Energia.
Crediamo che il futuro sia tutto nelle mani del- le varie General Electric che ha sviluppato il Nuovo Pignone senza mai che ci chiedessimo se non fosse stato meglio, a suo tempo, sposarlo all’Ansaldo per porre le basi di una Siemens italiana. Abbiamo tributato un provinciale pedaggio a modelli anglosassoni senza capire che il passaggio delle nostre imprese maggiori in mani estere non è un bene sempre e comunque. C’è modo e modo di alzare il quoziente degli investimenti diretti esteri sul totale degli investimenti nazionali. Per esempio, aprendo nuovi insediamenti produttivi.
In questo Paese, che chiede la revisione radicale in stile Bad Godesberg solo agli ex comunisti (che fecero malissimo a sottrarvisi e tuttora paga- no pegno per quell’antica renitenza a fare i conti con la storia), il caso Telecom Italia viene ridotto a una questione di infrastrutture perché in troppi hanno paura di riconoscere che la madre di tutte le privatizzazioni è stata un disastro industriale. Si teme di porvi rimedio nel modo più razionale ed economico, ossia con il ritorno di Telecom nelle mani adatte, fatalmente pubbliche o similari, per pilotarla, se del caso, nelle future aggregazioni transnazionali nel quadro di una nuova politica della concorrenza.
Alcuni grandi imprenditori della distribuzione organizzata si accingono a passare la mano per raggiunti limiti di età, e tutto tace, non per il dovuto rispetto all’iniziativa privata, sul quale uomini come Bernardo Caprotti giustamente non farebbero sconti, ma per evidente mancanza di idee. C’è la grande distribuzione cooperativa che è grande a metà per legami con il territorio che sfumano non di rado nella difesa dei poteri costituiti locali. Abbiamo lasciato finire la Parmalat in mano ai francesi, non tanto perché Tremonti e Passera si siano mossi tardi immaginando improbabili interventi in extremis della Cassa o di Ferrero, ma perché il sistema bancario italiano è stato incapace di costituire un azionariato nazionale di riferimento quando le quotazioni lo consentivano e i governi, che pure esprimevano il commissario straordinario, si sono sempre disinteressati del tema.
In un precedete articolo abbiamo affrontato la questione dei soggetti pubblici che possono soste- nere una nuova e razionale politica industriale. In particolare, abbiamo scritto della Cassa. Chi volesse dare un respiro più ampio alla materia potrebbe rileggersi l’Economist sul capitalismo di Stato senza socialismo. Ma adesso è forse giunto il momento d riflettere sui nuovi paradigmi dell’innovazione che ci vengono da fuori e che sembrano ricostruire, in forme nuove, le antiche filiere della grande impresa. Giusto per memoria, per decenni un unico gruppo telefonico aveva aziende specializzate nella costruzione delle reti e nella loro gestione, nella produzione degli apparecchi e delle centraline e nella offerta dei servizi voce e dati fino agli elenchi degli abbonati e alla relativa pubblicità. Nel settore elettrico, c’era un rapporto intenso tra Enel, Ansaldo Nucleare, Ansaldo, Franco Tosi. Nel settore del gas e del petrolio, Eni voleva dire ricerca, estrazione, piattaforme, trasporto, reti, vendita al dettaglio. Abbiamo smontato tutto. E adesso? Non si tratta di tornare al passato remoto, ma nemmeno di difendere il passato prossimo. Certo è che oggi Siemens, Alstom, Areva sono due potenze industriali globali che portano gli interessi della Germania e della Francia nel mondo in quanto hanno un rapporto privilegiato con il proprio mercato interno del trasporto e dell’energia e sono fortemente sostenute dai governi. Ma l’esempio più nuovo e intrigante viene dal Paese che costituisce il modello per i teorici della specializzazione e dell’outsourcing, gli Usa. Alludo all’acquisizione della Washington Post da parte di Amazon.
L’ingresso del colosso guidato da Jeff Bezos nell’editoria costruisce l’inizio di una filiera proprietaria dentro una filiera aperta quanto aperto può comunque essere un ipermercato. Attraverso Kindle, Amazon già riaccentrava in sé le funzioni dell’editore, del libraio e dello stampatore. Ma ora, con l’acquisizione del prestigioso quotidiano americano, Amazon diventa anche un produttore di news. È uno straordinario salto di qualità. Gli esperti prevedono che Amazon userà la credibilità della testata per promuovere nuovi commerci on line e la forza della sua rete di vendita web per migliorare la diffusione pagata del giornale e per riprofilarne l’informazione sulla base del suo gigantesco customer data base. Bezos potrà anche essere raccontato come l’avatar moderno dello stampatore settecentesco che diventava editore per alimentare i suoi torni, ma la realtà è che sta destrutturando la figura dell’editore di giornali, fondata sulla distinzione professionale delle fun- zioni di redazione, raccolta pubblicitaria, stampa e distribuzione e sulla distinzione politica tra edi- tore puro e impuro. Se avrà successo, Bezos darà nuova vita a un’industria, come quella della carta stampata, che pareva non avere più un futuro. Al tempo stesso, avrà messo in crisi la politica della concorrenza e del pluralismo nel mondo dell’editoria e dell’informazione.
Questo accade senza che il governo Usa abbia dato ad Amazon gli incentivi della politica industriale. È vero. Ma è anche vero che, senza citare il salvataggio dell’auto dal quale potrebbe uscire a questo punto l’auto elettrica, Internet venne costituita dalla mano pubblica, per le Università e per la Difesa. E che, per una tradizione più forte della legge, negli Stati Uniti non ci sono signore Graham che vendano giornali alla Goldman Sachs. L’Italia non ha la taglia degli Usa né la sua struttura finanziaria. Dal caso Amazon (e da quel- li delle varie Siemens e Alstom) può e deve spremere il succo che le serve.

L’Unità 25.08.13

“Silvio il rais che porta al disastro il Paese”, di Eugenio Scalfari

La riunione ad Arcore di tutto lo stato maggiore berlusconiano, ministri compresi, è stata lunga e contrastata. Erano in tanti, ministri e non ministri. Non risulta invece la presenza di Gianni Letta, ormai in palese disgrazia agli occhi del capo. Il giorno prima c’era stato un consiglio di famiglia, orientato alla moderazione per evitare contraccolpi sfavorevoli sulle aziende e sulle partecipazioni azionarie berlusconiane.
La conclusione è stata una fumata nera come il carbone, che avrà come risultato assai probabile la caduta del governo Letta.
Valuteremo tra poco le conseguenze di questo concertone dove tanti strumenti hanno suonato spartiti diversi tra loro e con diverse tonalità, unificati però dalla sudditanza al Capo- padrone al quale non esistono nel partito da lui fondato e da lui posseduto alternative praticabili.
A titolo di premessa facciamo intanto un’osservazione: nonostante i rischi concreti che il governo Letta non riesca a continuare il suo lavoro e crolli tutta l’architettura costruita da Napolitano per far uscire l’Italia dalla recessione, i mercati hanno tenuto, sia le Borse sia i rendimenti e gli “spread”; quando qualche seduta borsistica ha avuto esiti negativi le cause non sono state determinate da questioni italiane ma piuttosto da alcuni squilibri nelle economie dei paesi emergenti: Cina, India, Brasile, Indonesia. O con ulteriori difficoltà della Grecia.Si direbbe che la situazione italiana sia considerata irrilevante o addirittura solida e capace di superare senza danni per l’Europa una tempesta politica. È così?
No, non è così. La verità è che l’Europa non crede possibile che la classe dirigente italiana sia talmente fragile da cedere agli eventuali colpi di testa d’un personaggio da tempo evitato e dileggiato da tutte le cancellerie europee.
Insomma l’Europa si fida. Ma se quella fiducia si manifestasse infondata, le ripercussioni purtroppo sarebbero inevitabili e molto pesanti. Non scordiamoci che l’ammontare del nostro debito pubblico è uno dei più alti del mondo e che in nostri titoli e quelli delle nostre banche che in larga misura li hanno in portafoglio, sono largamente diffusi nei sistemi bancari e nei fondi di investimento internazionali. E non ci scordiamo che lo stesso Mario Draghi cambierebbe atteggiamento e politica rispetto ad un’Italia senza più timone né timoniere.
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Nel corso del vertice di villa San Martino i ministri hanno manifestato l’intenzione di non abbandonare il governo ponendo tuttavia due condizioni agli altri membri della maggioranza: l’abolizione totale e immediata dell’Imu e la permanenza di Berlusconi nel suo seggio di senatore. Soffermiamoci per ora su questa seconda condizione che coinvolge la legge Severino già da tempo oggetto di dibattito e di polemiche.
La tesi berlusconiana è l’inapplicabilità retroattiva della predetta legge, ma affinché questa tesi abbia successo occorre che nella Giunta per le elezioni ed eventualmente anche nell’Aula del Senato ci sia la maggioranza dei voti.
Il Pd, per bocca del suo segretario Guglielmo Epifani, ha già preventivamente rifiutato questa richiesta la quale comunque cozza contro la sua evidente irricevibilità. La Giunta e l’Aula non hanno alcun potere di ricorrere alla Consulta e stupisce che un presidente emerito come Capotosti attribuisca a questi organi parlamentari un potere “occasionalmente” giurisdizionale. Capotosti sa benissimo che il potere giurisdizionale ha come requisito fondamentale la terzietà che nel caso specifico mancherebbe del tutto se la maggioranza parlamentare avesse preventivamente concordato il suo voto favorevole. Il giudice “occasionale” avrebbe cioè manifestato il suo giudizio prima ancora di averlo espresso nella sede ufficiale. Capotosti può pensarla come crede ma non può commettere errori così marchiani. Senza dire che comunque è attesa nei prossimi giorni la delibera della Corte d’Appello di
Milano sulla durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici prevista dalla Cassazione e non coperta neppure dalla eventuale grazia del Capo dello Stato qualora quella grazia fosse concessa dopo esser stata chiesta nelle forme di legge.
La posizione dei ministri del Pdl è dunque priva dei fondamenti necessari. Se vogliono far vivere il governo ci restino, altrimenti si dimettano. Il resto sono chiacchiere inutili anzi inaccettabili.
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Un’ultima premessa prima di valutare l’esito del vertice di Arcore: l’atteggiamento della pubblica opinione e in particolare dei dieci milioni che nello scorso febbraio hanno votato ancora per Berlusconi (il cui partito ne ha persi comunque sei milioni che hanno preferito astenersi).
I sondaggi, per quel che valgono, sono controversi. Dopo la sentenza di condanna definitiva secondo alcuni il Pdl sarebbe in leggera ripresa e supererebbe il Pd; secondo altri sarebbe invece in ulteriore caduta. Comunque i messaggi di Berlusconi sono ancora ascoltati da un 15-18 per cento di elettori. Non è molto, ma neanche poco se si considera che dopo sei elezioni (questa sarebbe la settima) il bilancio consuntivo dei risultati promessi è zero.
Qui subentra la diagnosi storica di Giovanni Orsina, autore di un libro di grande interesse intitolato “Il berlusconismo nella storia d’Italia”. È una diagnosi spietata, che del resto abbiamo più volte anticipato su queste pagine: un populismo congenito ad una parte rilevante di cittadini italiani, che per alcuni si tinge di moderatismo conservatore, per altri di “peronismo”, per tutti di disprezzo e indifferenza nei confronti della politica, delle istituzioni, dello Stato. L’uomo della Provvidenza rappresenta una sorta di ciambella di salvataggio. «Ci pensi lui, purché lasci a noi la libertà di arrangiarci come meglio ci pare, salvo darci una mano nei momenti di bisogno». Ma se la mano non gliela dà, allora la colpa non è sua ma di chi glielo ha impedito: le istituzioni, lo Stato, la politica, le toghe rosse, i comunisti.
La diagnosi di Orsina è impietosa. Gli esempi punteggiano la storia di questo Paese e ne spiegano la fragilità democratica. L’opposizione purtroppo ci ha messo del suo. Si spera che, almeno in questo passaggio così difficile, ritrovi compattezza e quel senso di servizio che dovrebbe essere l’essenza d’una forza politica consapevole della sua funzione.
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Abbiamo già visto che l’inapplicabilità della legge Severino voluta dai sudditi di Berlusconi non ha i presupposti giuridici prima ancora che politici. La richiesta tassativa di Alfano delto
l’abolizione dell’Imu manca dei presupposti economici.
Il progetto Letta-Saccomanni era un rinvio, già abbastanza oneroso, di quell’imposta ed una sua “rimodulazione” che favorisse i ceti più deboli dei proprietari di prima casa. Questo fu l’impegno assunto con queste precise parole dal presidente del Consiglio nel discorso sulla fiducia accordatagli dal Parlamento.
La richiesta di Alfano sovrappone all’impegno del governo un impegno preso dal Pdl con i suoi elettori lo scorso febbraio. Qual è l’ostacolo? La totale mancanza di copertura. Il rinvio e la rimodulazione costerebbero 4 miliardi e già trovarli sarebbe stato un problema, ma l’abolizione totale ne costerebbe più del doppio con effetti proiettati negli anni successivi, rendendo pertanto impossibile mantenere il deficit entro il 3 per cento e il pareggio del bilancio entro l’esercizio in corso.
Aggiungiamo che i veri beneficiari dell’abolizione dell’Imu sono i possessori di case di elevata consistenza patrimoniale. Se l’Imu fosse interamente abolita bisognerebbe infatti lasciare a terra tutti gli impegni per rilanciare l’occupazione, finanziare la Cassa integrazione in deroga, sostenere il precariato, la cultura, la scuola, i Comuni.
L’abolizione dell’Imu non mette cioè in pericolo soltanto gli impegni assunti con l’Europa, ma ha un contenuto socialmente regressivo che va respintale con assoluta decisione.
In queste condizioni il governo Letta è praticamente in crisi. Ma Letta non deve esser lui a dimettersi, debbono essere i ministri del Pdl ad andarsene. È facile prevedere che il Presidente della Repubblica rinvii Letta in Parlamento e, se sarà sfiduciato, ci sarà probabilmente un Letta-bis con un obiettivo teorico ed un altro politico; quello teorico è che si apra una “faglia” all’interno del Pdl e arrivino di lì i voti necessari ad avere in Senato una nuova anche se esile maggioranza.
L’obiettivo pratico è quello di un governo che riformi la legge elettorale sulla base dei rilievi già enunciati dalla Consulta: premio al 40 per cento e libertà di preferenza agli elettori.
A questo punto nasce il problema Grillo. Lui vuole andare al voto con la legge esistente sperando di vincere per poi rifare lui il Porcellum abolendo la libertà di mandato in modo da continuare a tener per la briglia i suoi parlamentari. Ma questa volta, se il Pd sarà compatto nella difesa dell’interesse generale e dello stato di diritto, è non solo auspicabile ma probabile che molti degli astenuti e degli elettori di sinistra emigrati nel febbraio scorso verso Grillo rientrino in linea nel Pd.
Questa è la posta in gioco. Il Paese è in gioco e la destra populista al comando del sire di Arcore se ne sta assumendo per la settima volta la responsabilità.

La Repubblica 25.08.13

“Il Porcellum a Cinque Stelle”, di Gian Antonio Stella

Il Porcellum è stato partorito dalle scrofe di destra con l’aiuto dei verri di sinistra», sentenziò tre mesi fa Beppe Grillo. Maiali di qua, maiali di là. Eppure, par di capire, quella legge sciagurata potrebbe restare in vigore anche alle prossime elezioni anche grazie ai grillini.
È difficile infatti interpretare in maniera diversa, per quanto qualche pentastellato sia accorso a randellare i commenti sulla «retromarcia», le parole scritte dal leader genovese contro «il Nipote dello Zio», Enrico Letta, e quanti vorrebbero accelerare sulla riforma della legge che a parole tutti detestano: «Improvvisamente, dopo quasi otto anni di letargo sul Porcellum hanno fretta, molta fretta di cambiarlo. Sanno che con il Porcellum il rischio che il M5S vinca le elezioni e vada al governo è altissimo». Nessun confronto: «La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E basta, «alle elezioni subito, con buona pace di Napolitano». Sottinteso, con la legge che c’è.

Ma come: è lo stesso Grillo che ad aprile diceva che «il Porcellum ha trasformato i parlamentari in yes men» e che «ci si può mettere d’accordo in un attimo: i tre gruppi principali si riuniscono, abroghiamo il Porcellum e poi andiamo a votare con la legge di prima»? Lo stesso che a luglio accusava gli altri («è ormai chiaro che vogliono tenersi il Porcellum ») e dettava l’agenda a Napolitano con le parole «imponga la cancellazione del Porcellum e sciolga il Parlamento»?
Quanto la svolta possa confermare i pregiudizi di chi già diffidava dell’ex comico, entusiasmare i fedelissimi ostili all’ipotesi di una riforma bollata «super Porcellum » o seminare perplessità tra gli elettori non si sa. Grillo, che un po’ tutti gli ultimi sondaggi prima della pausa estiva davano in rimonta dopo le flessioni primaverili, avrà fatto i suoi conti. Ma se è così si tratterebbe, appunto, dei «suoi conti»: cosa conviene al Movimento?

Gli stessi calcoli di bottega, piaccia o no il paragone, che spinsero nel 2005 la destra, decisa a boicottare una vittoria della sinistra data (a torto) per trionfante, a inventarsi il Porcellum . Il cui senso fu chiaro nel titolone di Libero : «Addio, caro Mortadella / Passa la riforma elettorale di Berlusconi. E per Prodi saranno guai». E ancora gli stessi calcoli che spinsero nel 2012 Pier Luigi Bersani, convinto d’avere la vittoria in tasca, a non scatenare l’iradiddio per cambiare l’odiata legge ma a «rassegnarsi» alla sua conferma fino a tirarsi addosso le ironie di uomini diversissimi come Cicchitto, Parisi, Casini o Ferrero.
Come sia andata nell’uno e nell’altro caso è noto: trionfi (drogati) alla Camera, caos al Senato. Perfino il boom nel 2008, quando per circostanze forse irripetibili riuscì a conquistare la maggioranza in 67 province (solo 17 a febbraio, contro le 40 del Pd e le 50 del M5S), bastò al Cavaliere a reggere faticosamente solo un paio di anni. Davvero Grillo pensa di poter fare meglio?
Auguri. Ma certo la sua scommessa su una vittoria grazie all’attuale legge elettorale che lui bollò come «contraria alla Costituzione» («Se la Corte costituzionale dovesse dichiararla illegittima avremmo un Parlamento di abusivi») è una scommessa già fatta da quelli che lui vorrebbe processare in piazza. Il guaio è che sul piatto non c’è solo il destino suo e dei suoi «boy scout». Ma molto di più.

Il Corriere della Sera 24.08.13

Pendolari, Ghizzoni “Porto il caso all’attenzione del ministro”

Per la parlamentare Pd la situazione dei pendolari sulla linea Modena-Carpi è intollerabile.
“Una situazione intollerabile”: così la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni definisce la quotidiana realtà, fatta di ritardi e soppressioni delle corse, dei pendolari che utilizzano, in estate e soprattutto in agosto, la linea ferroviaria Modena-Carpi. “Porterò la situazione all’attenzione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti – assicura Manuela Ghizzoni. Ecco la sua dichiarazione:

“Non furono Cassandre i pendolari della linea Modena-Carpi: le preoccupazione manifestate nel giungo scorso all’introduzione dell’orario estivo dei treni regionali sono diventate una dura realtà, fatta di ritardi e soppressioni. Una situazione intollerabile. Non è possibile che ai lavoratori che già soffrono del disagio di non godere delle ferie ad agosto, si aggiunga la beffa di un mezzo di trasporto che “non trasporta” e che determina anche gravi danni economici ai loro stipendi a causa dei ritardi di ingresso al lavoro. E’ a loro che le istituzioni, a tutti i livelli, devono porgere le scuse e dare risposte sul futuro: Enti locali, Regione e Governo. Per quanto di mia competenza, porterò la situazione all’attenzione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, dato che i gravi disagi registrati nel mese di agosto dipendono principalmente da Trenitalia e dalla carenza di personale”.

“Chi per scelta o per necessità utilizza quotidianamente – anche nel periodo estivo – il trasporto pubblico non deve essere penalizzato nell’organizzazione dei propri tempi di vita e di lavoro. La razionalizzazione del servizio e la riduzione delle risorse a disposizione del Trasporto pubblico locale imposti dai governi nazionali sono le difficili condizioni in cui si trovano ad agire i soggetti coinvolti – enti locali, Agenzia per la mobilità di Modena, Regione e Trenitalia – ma le scelte finali devono garantire agli utenti un servizio degno di questo nome, dato che la tratta Modena-Carpi è di fondamentale importanza per la mobilità dell’intera provincia di Modena e per i territori circostanti . Ciascuno, nel proprio ambito di competenza, è quindi chiamato a fare la propria parte. Oggi più che mai, dato che siamo in prossimità della revisione del trasporto pubblico locale”

“Cassa integrazione per 11 milioni d’euro”, di F. B.

È il dato in tutta la provincia modenese: la Cgil preoccupata punta sugli effetti del patto per la crescita. È allarme cassa integrazione in tutta la regione Emilia Romagna, Modena compresa. Quello che registrato dalle nostre province nel corso del 2013 è un andamento, secondo la Cgil regionale, alquanto preoccupante. Secondo le elaborazioni dei dati (di fonte Inps, aggiornati a giugno di quest’anno), infatti, in tutta la provincia modenese si sono registrati oltre 11 milioni di euro di cassa integrazione autorizzate dall’ente provinciale. Con aumenti significativi in particolare nella cassa integrazione ordinaria, che tocca quota 2,2 milioni di ore e un aumento pari al 42% rispetto allo stesso periodo del 2012. Importante l’incremento registrato anche per quanto riguarda la cassa
integrazione in deroga (che spetta ai lavoratori di imprese che non hanno
diritto agli strumenti ordinari, oppure quando questi sono giunti ad
esaurimento) a quota quasi 5 milioni di euro (per la precisione 4.946.599 ore),
con un aumento pari al 30% rispetto allo scorso anno. Nessun sospiro di
sollievo se si guardano i dati relativi alla cassa integrazione straordinaria,
a quota 3,8 milioni di ore. Di fronte a questi dati «è ancor più urgente –
afferma Antonio Mattioli, responsabile delle politiche contrattuali della
segreteria Cgil Emilia Romagna – il provvedimento, da parte del Governo, di
rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga per garantire la copertura del
reddito ai lavoratori coinvolti nella crisi e che hanno terminato la
possibilità di far ricorso agli ammortizzatori ordinari. Certamente la risposta alla crisi non può essere solo quella degli ammortizzatori, ma si rende necessaria un’azione a livello locale (regionale) e nazionale (governo) in grado di produrre un’inversione di rotta radicale alle politiche economiche ed industriali del paese». A livello regionale nel confronto tra il periodo
gennaio/luglio 2013 con lo stesso periodo del 2012, il ricorso alla cassa
integrazione ordinaria (a 11,4 milioni di ore) risulta superiore di 1 milione
di ore, il ricorso alla cassa integrazione straordinaria (17,1 milioni) risulta superiore di circa 3 milioni di ore (+ 19%) e il ricorso alla cassa integrazione in deroga, tenuto conto ancora dei dati parziali, supera già ora di 3,3 milioni di ore il livello raggiunto nei primi 7 mesi del 2012 (+ 15%) con 25 milioni di ore autorizzate. Occorrono parecchi interventi urgenti, dunque, perché «si può uscire dalla crisi – conclude il responsabile delle politiche contrattuali della segreteria Cgil Emilia Romagna, Antonio Mattioli –
solo con interventi strutturali sulla fiscalità, sugli investimenti in ricerca, innovazione e infrastrutture, su nuovi modelli organizzativi. Da settembre, a livello regionale, è assolutamente necessario dare gambe al cosiddetto Patto per la crescita».

La Gazzetta di Modena 24.08.13

“Il richiamo delle colombe”, di Nadia Urbinati

Nel nome dell’interesse del Paese e affinché prosegua l’opera del governo: il caso giudiziario del leader del Pdl viene usato come argomento emergenziale. Si cerca di rovesciare, come scrive Ezio Mauro, la realtà, facendo apparire un caso di giustizia ordinaria come un caso di eccezionale gravità da risolvere con interventi politici ad hoc. Si sta in altre parole usando ad arte un argomento, quello dell’emergenza, che è diventato familiare in questi ultimi anni, impiegato per far fronte a calamità naturali ma anche per far digerire scelte politiche ostiche, siglare alleanze innaturali e ora, alcuni sperano, per sollevare il leader del Pdl dai guai giudiziari dei quali lui solo è responsabile (guai rispetto ai quali i cittadini italiani, ovvero lo Stato, sono i soli danneggiati). Si sta facendo strada in questi giorni il tentativo pericoloso di convincere l’opinione che si può utilizzare l’argomento dell’emergenza e aprire un fronte di trattativa con l’alleato di governo, dopo aver constatato che probabilmente il Quirinale non dà sufficienti garanzie. Per questa ragione alcuni esponenti del Pdl, quelli che vengono definiti “colombe”, si sono prodigati a suggerire tattiche machiavelliche, strade che portano direttamente al Pd per incalzarlo con la minaccia dell’instabilità di governo — confidando sul fatto che si continui a pensare che a questa alleanza non ci sia alternativa.
Il monito venuto qualche giorno fa dal ministro Gaetano Quagliarello va in questa direzione: se non si può fare completo affidamento sul Quirinale («non basta Napolitano a blindare il governo») allora è necessario aprire una trattativa politica diretta con il partner di governo al fine di «chiarire e approfondire» molte cose nell’«interesse di tutti». «Non per sottrarsi alla deliberazione – prosegue il ministro – ma perché essa non abbia esiti predeterminati e avvenga con ogni cognizione di causa, senza dare nulla per scontato, vista la delicatezza della vicenda e le conseguenze politiche ». L’appello alla mente sgombra da pregiudizi è fatto al fine di portare nella trattativa quell’oggetto “delicato” che è, appunto, il salvataggio di Berlusconi. Il fatto è che, contrariamente alla rappresentazione che ne dà il ministro, gli esiti sonoin questo “predeterminati” e la mente non può essere sgombra dal dato certo di una condanna ottenuta secondo regole di giustizia. Circa la “cognizioni di causa” alla quale il ministro si riferisce, si tratta di un argomento che intende mettere sul piatto della bilancia il rischio di instabilità che l’eventuale decadenza di Berlusconi da senatore potrebbe avere sulla maggioranza e sul governo. Ci sono, come si vede, tutti gli ingredienti per trasformare la condanna in terzo grado di Berlusconi in un argomento emergenziale da portare in trattativa con il Pd per ridiscutere l’alleanza di governo.
Dalla dimensione istituzionale a quella della mediazione politica – tutte le strade sono in fase di esplorazione in casa Pdl. Da un lato si punta su un appesantimento, fino alla sua gravissima violazione, dello stato di diritto (come diceva molto bene Liana Milella su Repubblica); dall’altro si sfodera l’arma dell’emergenza e della trattativa politica. Il Pd è chiamato direttamente in causa come partner della mediazione grazie alla quale avviare quella “trattativa” che, se davvero si avviasse, porterebbe a uno strappo pauroso della legge e della democrazia costituzionale. Questo delle “colombe” è quindi il piano strategico più temibile, poiché cerca di insinuare nel discorso politico ordinario l’idea che il danno della decadenza di Berlusconi sia molto maggiore del beneficio che viene dal rispettare la legge. Le conseguenze – ci viene detto – sarebbero così esorbitanti da giustificare la trattativa: ecco il senso della «delicatezza della vicenda e le conseguenze politiche» di cui parla Quagliariello. Ci sarà un partito della trattativa?
La vicenda Berlusconi, per chi crede nello stato di diritto, non è per nulla delicata ma normalissima perché già risolta dai tribunali e secondo le regole di giustizia. Sarebbe tragico se il Pd entrasse in questo ordine di idee. La sua delegittimazione sarebbe fatale. E i costi sarebbero altissimi anche per lo Stato. Infatti, anche solo l’eventualità di un’apertura ipotetica nei confronti della strategia della trattativa provocherebbe un logoramento fatale della legittimità con un danno gravissimo, prima di tutto al Paese, poiché indurrebbe cittadini ed elettori a concludere che anche questo partito ha un rapporto compromissorio con la legge, dando quindi ossigeno all’ideologia dell’anti-politica per cui “i partiti sono tutti uguali”. Da un’eventuale e anche solo ipotetica strada della trattativa sia lo Stato che il Pd ne uscirebbero a pezzi. Solo la linea dell’intransigenza può rafforzare il partito e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni ribadendo con i fatti che sul principio
dell’eguaglianza della legge non si tratta. Come si vuole mettere la prima parte della Costituzione al riparo da ogni tentativo di revisione così la si deve voler mettere al riparo dalla nefasta idea di piegare la clausola dell’eguaglianza della legge alle convenienze di un cittadino condannato giustamente, non importa quanto potente. Ascoltare le “colombe” del Pdl sarebbe disastroso. Uno strappo al principio costituzionale che si rivelerebbe una strada di non ritorno poiché ogni cittadino potente potrebbe, da quel momento, invocare questo precedente e indurre lo Stato ad abbassare la testa al peso ricattatorio di un qualche potente di turno. Non ci sarebbe cioè mai fine alla trattativa, all’eccezione e all’emergenza. Il caso Berlusconi è quindi gravissimo e c’è solo e soltanto un modo per affrontarlo bene: lasciare che la legge faccia il suo corso. Le costituzioni sono state scritte prevedendo situazioni come quella che stiamo vivendo: scritte dai popoli in una condizione di saggezza e pensando a come proteggere la loro eguale libertà nel caso che, un domani, qualcuno potesse sragionare.

La Repubblica 24.08.13

“I dilemmi di un intervento”, di Roberto Toscano

In Siria, la cosiddetta «comunità internazionale» (a ben vedere, si tratta piuttosto di Usa e Ue) è forse alle soglie di un intervento militare, ma mai come in questo caso risulta evidente tutta la riluttanza dei Paesi che dovrebbero impegnare uomini e risorse imbarcandosi in un’impresa militare dalle problematiche motivazioni e soprattutto dalle imprevedibili conseguenze.
Lo strazio del popolo siriano viene ormai da lontano, e le perdite umane hanno superato la quota centomila, senza contare i milioni di profughi nei Paesi limitrofi. Perché non si è fatto nulla finora, e perché invece una decisione di agire potrebbe essere presa nei prossimi giorni?

La questione fondamentale si riferisce all’uso delle armi chimiche, che già un anno fa era stato definito dal presidente Obama come una «linea rossa» il cui attraversamento avrebbe imposto una reazione di tipo militare. Le foto pubblicate negli ultimi giorni non lasciano dubbi sulla quantità di vittime (per maggiore strazio, anche tanti bambini) i cui corpi sono apparentemente intatti, rafforzando il sospetto che siano morti come effetto dell’impiego di armi chimiche. Il regime siriano, di cui è ben noto il possesso di grandi depositi di questo tipo di armi e che sarebbe difficile sospettare di scrupoli morali, nega di essere responsabile, e ritorce l’accusa sui ribelli. Ma l’accusa è resa poco credibile dal fatto che le forze anti-Assad non dispongono né di aerei né di missili, mentre le armi chimiche non si possono impiegare senza questi vettori. Per quanto riguarda il principale sospetto, d’altra parte, sorge un dubbio di natura politica: possibile che, sapendo che proprio l’impiego delle armi chimiche è stato individuato come possibile giustificazione di un intervento, il governo di Assad (che fra l’altro ultimamente non sta perdendo terreno militarmente, ma anzi appare in vantaggio rispetto ai ribelli) abbia deciso di correre il rischio di impiegare contro civili armi chimiche, fra l’altro a poca distanza dalla capitale, e anzi a pochi chilometri da dove alloggiano gli ispettori inviati dalle Nazioni Unite per indagare sulla denuncia di precedenti episodi di utilizzo di armi chimiche?

Si impone quindi un immediato chiarimento, senza aspettare i tempi lunghi che caratterizzano la burocrazia Onu, e soprattutto senza tergiversazioni da parte del governo siriano. L’intervento di Mosca, che ha esortato il suo alleato siriano a collaborare immediatamente con l’indagine, rivela tutta la drammatica urgenza della situazione.
Obama vede che ci si sta avvicinando alla sua «linea rossa», eppure ieri mattina, in una sua intervista alla Cnn, non ha fatto mistero delle sue esitazioni, quando ha detto che bisogna stare molto attenti a non buttarsi a capofitto in situazioni difficili impegnandosi in «interventi costosi» che potrebbero «aggravare nella regione i risentimenti nei nostri confronti». Ancora più esplicitamente, ha aggiunto: «Si esagera quando si pensa che gli Stati Uniti possano in qualche modo risolvere all’interno della Siria quello che è un complesso problema settario».
Prudenza ed esitazioni che non mancheranno di far salire il tono delle critiche nei confronti di un Presidente accusato ormai apertamente di essere responsabile di una perdita di prestigio e di credibilità di un’America che, sotto la sua guida incerta, rifiuta di esercitare il proprio ruolo al vertice del sistema internazionale.
A criticare Obama non è solo la destra repubblicana, ma anche ormai parte dei commentatori di orientamento progressista, che attaccano Obama definendo la sua politica estera come una ritirata generalizzata, soprattutto dal Medio Oriente.
Certo, è moralmente comprensibile, di fronte agli orrori della guerra in Siria, esclamare «bisogna fare qualcosa!», ma come si fa a dire che sia ingiustificato, e sintomo di scarsa capacità politica se non addirittura di carenza di sensibilità morale, chiedersi, come fa Obama, come intervenire, con quali prospettive, con quali conseguenze?
Mai come di fronte al caso siriano è diventato importante distinguere etica della convinzione da etica della responsabilità. Seguendo l’imperativo categorico della prima, mettiamo certo a tacere la nostra coscienza, ma in fin dei conti ci laviamo le mani dalle conseguenze della nostra azione. I romani dicevano fiat justitia, pereat mundus: va fatta giustizia, anche se il mondo dovesse perire.

Vengono in mente i criteri della «guerra giusta» – un’elaborazione etico-giuridica che ha lontani radici romane, ma che è stata sviluppata nella dottrina della Chiesa cattolica – in particolare: mancanza di mezzi diversi dalla guerra per conseguire gli stessi risultati, esistenza di serie prospettive di successo, e soprattutto il fatto che l’uso delle armi non produca danni peggiori di quelli del male che la guerra mira ad eliminare.
Non è difficile immaginare quali siano le considerazioni che in questo momento si stanno facendo alla Casa Bianca, e anche ai più alti livelli politici nell’Unione Europea. Nessuno sembra meno perplesso, meno incerto di Obama, a parte la Francia che, in ricordo del suo passato di potenza coloniale nel Levante e probabilmente desiderosa di ripetere il suo exploit libico, non chiederebbe di meglio se non di poter dimostrare, schierandosi in prima fila contro lo spregevole dittatore siriano, di essere pur sempre una Grande Potenza.
La Libia, appunto, dove l’intervento militare occidentale ha eliminato Gheddafi, ma dove non è arrivato in sostituzione nemmeno un simulacro di democrazia, e dove la popolazione è soggetta alla prepotenza armata delle milizie.

Sempre nel caso libico, poi, sono emerse tutte le contraddizioni dell’applicazione concreta del principio dell’«intervento umanitario». Un intervento che è moralmente inattaccabile ed anche legalmente sostenibile – esistono precise norme internazionali contro il genocidio – laddove si verifica per proteggere civili innocenti dalle stragi di un potere assassino (come sarebbe dovuto accadere nel 1994 nel caso del Rwanda, quando quasi un milione di persone sono state sterminate senza che si ritenesse necessario intervenire), ma che certo cambia di segno quando si verifica in sostegno ad una delle parti che si confrontano in una guerra civile. In Siria non si è intervenuti all’inizio, quando Assad represse con la violenza pacifiche manifestazioni di protesta, e si dovrebbe intervenire oggi, quando nel corso di uno scontro militare vengono messi in atto (dalle due parti, anche se con ogni evidenza principalmente da chi ha strutture militari organizzate) crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Sconfiggere il dittatore – fino a ieri, va detto, cordiale interlocutore dei Paesi che oggi dovrebbero contribuire a rovesciarlo militarmente – ma per sostituire il suo regime con chi e con quali forze politiche? Passare, come nell’Iraq del dopo-Saddam, da una dittatura laica ad un feroce scontro settario? Come sempre accade quando le sorti di un Paese si decidono con lo scontro militare, nello schieramento anti-Assad stanno prevalendo quelli che combattono meglio, non quelli che darebbero più garanzie per una futura Siria di pace, rispetto dei diritti umani e convivenza fra comunità: i salafiti, e un gruppo, Al Nusra, apertamente schierato con Al Qaeda. E’ concepibile che gli aerei della Nato possano fare da sostegno aereo a combattenti di Al Qaeda?
E infine, come facciamo a non chiederci quali prospettive si aprirebbero nell’intera regione se si verificasse un intervento militare occidentale?

E allora, andiamoci piano a criticare Obama, e in particolare ad ironizzare sul suo richiamo alla necessità di un’azione della comunità internazionale condotta sul piano politico-diplomatico e non militare.
Il punto di partenza è che né Assad né i ribelli possono pensare di prevalere sul terreno militare, e di conseguenza la prosecuzione dello scontro militare può soltanto portare alla devastazione del Paese.
Si devono coinvolgere nella soluzione gli Stati che appoggiano materialmente, e non solo politicamente, le due parti in lotta: da una parte Russia e Iran, e dall’altra Arabia Saudita, Turchia, Qatar. Solo loro, e non certo un’America e un’Europa prive di strumenti reali, potranno convincere le parti dell’inevitabile rinuncia al loro obiettivo massimo di eliminazione totale dell’avversario e accettare un compromesso, che dovrà probabilmente comportare, fra l’altro, l’uscita di scena di Assad ma non dell’attuale regime, e garanzie alle minoranze (alawiti, cristiani) che temono il prevalere delle tendenze sunnite più radicali.
Un cammino difficile, ma certo meno disastroso e in fondo più realista di quello di un’internazionalizzazione, con un intervento americano ed europeo, dello scontro militare.

La Stampa 24.08.13