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“Il milionesimo profugo bambino”, di Adriano Sofri

C’È molto posto, nel deserto. Però c’è solo posto. Tutto il resto bisogna portarlo. La città di tende si chiama Zaatari, nel deserto giordano, a 12 km dalla frontiera siriana. Era seconda per grandezza nella classifica mondiale dei campi profughi, dopo Dadaab, oltre il confine somalo del Kenya; ora sarà superata da un’altra, Azraq.
Messa da parte la compassione, rende orgogliosi del nostro progresso guardare Zaatari dal computer di casa, mappe satellitari — clicca per ingrandire — filmati — il giro del campo in auto prende 20 minuti, accelerato 41 secondi — fotografie, interviste. La contabilità dell’Onu ha appena aggiornato le cifre. Due milioni e mezzo di rifugiati fuori dalla Siria, un milione sono bambini, la gran maggioranza sotto i dieci anni — orfani, ma anche affidati dai genitori a qualcuno purché li portasse via, a costo di non rivederli più — quattro milioni e mezzo di sfollati nel paese, e due milioni sono bambini.
I bambini sono i beniamini delle guerre: degli snipers specialmente. Ad Aleppo, all’incrocio di Bustan al-Qasr, racconta la Bbc, i cecchini se ne fregano degli altri, mirano ai piccoli. Totale dei morti di ogni età, 100 mila. Più o meno — più. Dei profughi il Libano trabocca, e la Giordania, la Turchia, l’Iraq, l’Egitto. E via via la Grecia, e noi… Zaatari venne su in nove giorni — appena tre in più del creato, senza riposarsi. Cresce di 2 mila abitanti al giorno, e ogni giorno ci nascono 13 bambini. Il 55 per cento degli abitanti ha meno di 18 anni, il 21 per cento meno di 5. Un quarto vanno a scuola: gli altri ci andrebbero, non ci sono abbastanza scuole. Si distribuiscono 500 mila filoni di pane e 4,2 milioni di litri di acqua al giorno, al costo di mezzo miliardo di dollari. C’è uno stradone chiamato Champs Elysées. Tutto funziona come in una vera città: ci sono anche le bande criminali e le donne sono a repentaglio.
Copi e incolli dal computer di casa. Ti pare che valga la pena. Soprattutto ti compiaci della formidabile modernità. Stai là seduto, e vedi e ascolti tutto. Pressoché in tempo reale, come si dice, e con quella precisione meticolosa — clicca per ingrandire, per impicciolire. Puoi scegliere. Attento: immagini forti, possono turbare — avverte la didascalia. Dipende da te, le guardi o no? Le guardi, sei avvisato, e sei forte. Ecco la fila coi primi piani dei bambini soffocati: la tieni per un po’, ecco, ce l’hai fatta benissimo. Poi le altre. Bene. Ne arriva una dalla frontiera aperta col Kurdistan iracheno, l’altro giorno: in groppa a un asino un uomo, una donna, un bambino che piange — è la fuga in Egitto! Ora c’è una sequenza di bambini nella tendopoli, giocano, o piangono, arriva una foto di bambina coi riccioli chiari, è allegra — e di colpo non ce l’hai fatta, somiglia a… Del resto anche i nostri bambini vedono tutto questo. Devono pensare che ci sia una congiura universale contro di loro. Anche Elsa Morante lo pensava, della Storia.
Nel nostro dopoguerra — che privilegio avere un dopoguerra, al giorno d’oggi — quello dopo il ‘45, senza fine i potenti delle democrazie negavano di aver saputo di Auschwitz, e intanto si accumulavano le prove che avevano saputo, e non avevano mosso un dito. D’un tratto quella controversia lacerante sembra futile: oggi che tutto si sa, si vede coi propri occhi, si ascolta con le proprie orecchie, non si muove un dito. Sono là, i bambini soffocati a Damasco, i bambini che crescono a Zaatari, devi solo decidere se andare avanti, o risparmiarti
le immagini forti, come avverte la didascalia.
Del resto, che cosa puoi fare? Aiutare l’Unicef, l’Unhcr, certo, e anche il governo giordano. Ricevono fondi per poco più di un terzo della bisogna. Magari apriranno una scuola in più, compreranno un altro pallone. Non è poco. E far finire quello scempio? Non può essere affar tuo. Due anni e mezzo fa, dei ragazzi manifestarono
contro il regime di Bashar el Assad, a Deraa, una cittadina di provincia. Facevano così i loro coetanei un po’ in tutti i paesi arabi. Furono imitati qua e là. La repressione dei militari li schiacciò nel sangue. Diventò di colpo un’altra cosa, una lotta per la vita o la morte. Allora era facile distinguere. C’era il dispotismo di una dinastia e di una minoranza settaria incapace perfino di immaginare d’esser messa in discussione, contro una rivendicazione di libertà. La repressione fu così brutale che si sarebbe dovuta chiamare la polizia e arrestarla. Ma il mondo non ha una polizia, e per lo più considera l’idea insensata. (Dentro i propri confini considererebbe insensato non averla: ma nelle menti ci sono confini più insuperabili dei fili spinati).
Dunque stette a guardare, e a tenere il conto degli ammazzati. Intanto i ribelli finivano nella soggezione dei loro protettori esterni, l’Arabia saudita, gli Emirati, l’Iraq sunnita, e la corte del despota si infeudava sempre più ai protettori suoi, la Russia, l’Iran, gli Hezbollah. Intanto le file dei ribelli si ingrossavano di jihadisti e qaedisti venuti da ogni parte, e la cronicizzazione della guerra civile corrompeva il Libero Esercito Siriano, e fra i suoi e i qaedisti scoppiava una guerra violenta quanto quella contro il regime. Intanto lo Stato geopoliticamente decisivo per l’intera area, la Turchia, si spaccava anche lui in due. Intanto l’Egitto precipitava anch’esso verso la guerra civile.
Ora forse Assad ha voluto sfrontatamente impiegare all’ingrosso il gas Sarin, o una sua miscela efficace. Tiene in un albergo di Damasco gli ispettori dell’Onu, incaricati di accertare se nello scorso marzo furono impiegate armi chimiche. Non da chi, badate, solo se furono impiegate: questo il loro mandato. Forse Assad ha creduto di poter chiudere la partita, e di giocare con la frustrazione dei potenti d’occidente. Su Russia e Cina può contare. Per l’occidente, chiamiamolo con questo nome d’insieme, tuttavia abusivo, finora era troppo presto per intervenire. C’era una linea rossa: l’uso di armi chimiche. Forse era già stata sorpassata, come dicono in molti. Forse lo è stata appena. Dunque è troppo tardi per intervenire. Sì, la
no-fly zone, le ritorsioni mirate, l’addestramento di qualche commando… Un giorno gli storici riguarderanno tutta questa spettacolosa documentazione che scorre senza sosta sui nostri schermi, e stabiliranno se, nei due anni e mezzo (per ora) che vanno dalla manifestazione di ragazzi a Deraa fino al bombardamento chimico alla periferia di Damasco c’era stato un giorno, e quale, in cui non era più troppo presto e non era ancora
troppo tardi.

La Repubblica 24.08.13

“L’ultima furbizia sulla pelle di chi soffre”, di Gad Lerner

Mai registrata a memoria d’uomo cotanta sensibilità umanitaria della destra italiana di fronte alla piaga del sovraffollamento nelle carceri. Nel novembre 2002 non bastò l’appello rivolto da Giovanni Paolo II davanti alle Camere riunite per convincere il governo Berlusconi a promulgare un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Né si ricordano pressioni in tal senso dai cattolicissimi ciellini riuniti a Rimini, dove quest’anno scrosciano applausi per i ministri Mauro e Cancellieri fautori di un
provvedimento d’amnistia. Per la verità un indulto fu poi approvato nel luglio 2006 su iniziativa del governo Prodi, che ne pagò per intero il prezzo d’impopolarità, anche perché la destra, per votarlo, ne impose l’estensione a reati per cui era sotto processo, guarda un po’, Silvio Berlusconi. Il quale, ritornato alla guida del Paese, introdusse nuovi reati (come quello di clandestinità) e aggravi di pena, che contribuirono in maniera determinante all’abuso della custodia cautelare e al sovraffollamento incivile delle nostre carceri. Fino alla condanna della Corte di giustizia europea; del tutto ignorata dai forcaioli che oggi si riscoprono estimatori di Pannella, pronti a firmarne i referendum e a garantire una corsia preferenziale per l’amnistia che esimerebbe il loro leader dall’anno di detenzione cui è stato definitivamente condannato.
Avvertiamo quindi una speciale viltà in quest’ultima, ennesima trovata che mira a trasformare un atto di clemenza – per sua natura rivolto a mitigare la pena di una moltitudine di persone colpevoli ma derelitte, precipitate all’ultimo gradino della scala sociale – in ossequio alla prepotenza di un oligarca che vorrebbe imporsi al di sopra e al di fuori dello stato di diritto. Il ministro Lupi ora smentisce che sia all’ordine del giorno del governo una tale oscena strumentalizzazione della vergogna in cui versano le carceri: deve essersi reso conto che il “no” secco del Pd rende impossibile una maggioranza parlamentare favorevole a un’amnistia ad personam.
Ma nel frattempo è stato davvero imbarazzante udire le voci di tanti forcaioli del Pdl salutare con favore l’improvvida proposta della ministra della Giustizia e del ministro della Difesa.
Quest’ultimo, Mario Mauro, giunge a definire impossibile una riforma della giustizia, nel senso della malintesa pacificazione, «senza un gesto di clemenza, cioè l’amnistia». Così
Mauro la missione dell’esecutivo di larghe intese si estenderebbe fino a trasformarlo in governo di “riconciliazione nazionale”. Già in passato, senza esito alcuno, fu prospettata una soluzione politica di vicende drammatiche che avevano gravemente colpito la comunità nazionale: se ne parlò per il terrorismo politico degli anni Settanta e per la Tangentopoli degli anni Novanta. In entrambi quei casi si trattava di affrontare piaghe dolorose, lutti e ladrocini, che avevano però a che fare con comportamenti devianti di natura collettiva, purtroppo assai diffusi nella nostra società. Alla fine la soluzione politica risultò improponibile perché cozzava con le regole fondamentali dello stato di diritto.
Ma è davvero singolare che Mauro non si renda conto della differenza sostanziale fra quelle devianze estese e il caso eminentemente personale, individuale, con cui si misurano oggi la giustizia e la politica: la responsabilità penale di un singolo cittadino, per quanto potente e prepotente egli sia.
Stiamo trattando il caso di un oligarca che frodando il fisco ha sottratto centinaia di milioni all’erario pubblico e danneggiato gli altri azionisti della sua stessa azienda. La propaganda cui si assoggettano i fautori della soluzione politica tende a presentare come vittima un uomo di governo che – per arricchirsi e costituire riserve di denaro all’estero – ha recato danno allo Stato che si era impegnato a servire.
Si prova imbarazzo a elencare – prima dell’amnistia ad personam – gli altri innumerevoli sotterfugi escogitati giorno dopo giorno per sottrarre Berlusconi alla condanna inappellabile comminatagli il 1° agosto scorso. La richiesta di una grazia presidenziale. La commutazione della pena detentiva in sanzione pecuniaria. La pretesa superiorità del Parlamento rispetto a una sentenza definitiva della Cassazione. La richiesta sovversiva di mantenere capo politico della lista elettorale, ai sensi della legge Calderoli, un cittadino privato dei diritti politici. La non retroattività della decadenza automatica dai pubblici uffici del parlamentare condannato, sancita meno di un anno fa dalla legge Severino. E infine, più beffardo che mai, il dubbio di costituzionalità adombrato sulla medesima legge Severino che pure il Pdl aveva votato in Parlamento senza alcuna obiezione. Ha proprio ragione Cirino Pomicino: ce ne sarebbe abbastanza perché Berlusconi licenzi gli avvocati che paga profumatamente e che per giunta ha fatto eleggere in Parlamento, se solo ora scoprono di aver votato una legge anti-corruzione incostituzionale!
La contraddittoria, grottesca sequela di escamotage dalla vita breve con cui il Pdl cerca di mascherare la pretesa dell’impunità per Berlusconi, comprova la natura eversiva della sua leadership e non trova appigli nelle regole dello stato di diritto. Al massimo riusciranno a strappare ancora qualche settimana di dilazione prima che la pena diventi esecutiva e comporti la decadenza dell’evasore fiscale dal suo incarico pubblico.
Ma certo la strumentalizzazione del dramma delle carceri, con la proposta di amnistia, appare, fra tutte, la più detestabile delle furbizie. Maldestra, perché l’approvazione di una legge di amnistia richiede tempi lunghi. Odiosa, perché abusa della sofferenza altrui per il vantaggio di un impunito.

La Repubblica 24.08.13

“Siria, le verità mancanti”, di Francesco Lenci

Oggi non è affatto facile verificare se, quando, dove e da chi siano state usate armi chimiche in Siria. In questo caso più di sempre le mezze verità corrono il rischio di rendere la situazione ancora più confusa. Nello stesso tempo, rischiano di alimentare tensioni e costituire strumenti di cinica propaganda di parte. Anche se la comunità internazionale sembra unanimemente d’accordo sulla necessità di accertare la verità nel più breve tempo possibile, ad oggi nessun passo significativo e risolutivo è stato fatto.
Quelle che seguono sono delle considerazioni strettamente personali che non pretendono assolutamente di dare risposte, ma che vorrebbero solo porre domande.
Già il fatto che, venticinque anni dopo l’attacco con armi chimiche alla città curda di Halabja da parte dell’esercito iracheno, che provocò circa 5.000 morti, il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite non abbia trovato un accordo per accertare la veridicità delle accuse al regime di Bashar al-Assad di aver utilizzato gas nervino nella regione di Ghouta, a Est di Damasco, provocando almeno 1.300-1.400 morti, mi sembra di una gravità inaccettabile. Non soltanto questa irresolutezza favorisce sospetti e accuse che alimentano tensioni e scontri tra i ribelli e il regime, ma rende sempre meno credibile il ruolo cruciale che le Nazioni Unite possono e devono giocare per favorire la soluzione pacifica delle controversie internazionali. Anche a causa dell’opposizione di Russia e Cina, a oggi, non sono state date istruzioni precise agli ispettori e non è stato dato loro mandato pieno. È vero che usare armi chimiche a Damasco con la presenza del team d’ispettori Onu in città fin da domenica 18 sarebbe un’idiozia e un suicidio politico. Ma la prova migliore «d’innocenza» da parte del regime verrebbe dalla decisione, anche se la Siria non ha firmato la Convenzione sulle Armi Chimiche, di aprire tutto il territorio alle ispezioni (al momento gli ispettori hanno accesso soltanto a tre siti). Molti organi di stampa riportano seri dubbi, anche da parte di osservatori autorevoli, sull’attendibilità dell’accusa di aver usato VX e/o sarin (un gas nervino incolore e inodore, se puro) basati sulla discordanza apparente tra i sintomi osservati e quelli «classici» dell’avvelenamento. Mi domando se un passo avanti non potesse essere fatto coinvolgendo anche esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, anche tenendo conto del fatto che tutti i Paesi confinanti con la Siria, con l’esclusione di Israele, sono firmatari della Convenzione sulle Armi Chimiche e potrebbero dare importanti contributi per capire cosa è successo. «Naturalmente» anche i ribelli sono
regolarmente e da tempo accusati di aver usato armi chimiche contro l’esercito, e in questo scenario costellato di morti, civili inermi, donne, bambini, le reciproche accuse vengono scandalosamente e sistematicamente utilizzate per prospettare possibili azioni di forza e/o interventi a favore dell’una o dell’altra parte. L’accertamento della verità è l’unico strumento adeguato per sgombrare il campo da possibili ulteriori eventi devastanti in un Paese già stremato ed evitare allargamenti del conflitto i cui esiti sarebbero catastrofici.
In Siria, come ovunque vi è una guerra, è in corso la cancellazione della moralità e dei valori fondanti di una società civile, l’annullamento di tutto ciò che è umano, anche con il contributo di quanti sostengono e promuovono, per interessi nazionali e/o sopranazionali, governi liberticidi e regimi dittatoriali (che domani saranno considerati nemici da abbattere) o movimenti e gruppi terroristici che poi nessuna guerra potrà eliminare. Dalla tolleranza in funzione antisovietica dell’espansionismo della Germania di Hitler, dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki come primo atto della guerra fredda, dagli aiuti ai Talebani ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, dal sostegno all’Iraq ai tempi della guerra decennale con l’Iran, dalle passate complicità con il regime di Gheddafi degli stessi Paesi che attaccarono la Libia rendendo impraticabili le vie negoziali e diplomatiche, per non citare che qualche caso, è un lungo susseguirsi di occasioni nelle quali si è scelto di fomentare, scatenare guerre nelle quali l’annientamento letterale del nemico, degli esseri umani e delle strutture e infrastrutture civili, non è stato un «danno collaterale», ma l’esito inevitabile e spesso anche premeditato di queste azioni.

L’Unità 23.08.13

“La porta chiusa del Quirinale”, di Liana Milella

Più che un’autostrada pare un viottolo di campagna, sconnesso, arduo e pieno di buche, quello su cui ormai, dall’inizio di agosto, cerca di avventurarsi il Cavaliere con la storia della grazia. Lui è convinto che sia una sorta di “atto dovuto”, che gli vada concessa solo perché si chiama Berlusconi, per via della sua storia personale e politica.MA I precedenti, le norme, la Costituzione stessa, nonché la volontà del presidente Napolitano vanno in direzione opposta alla sua.
Berlusconi ha parlato direttamente con Napolitano per chiedergli la grazia? Suoi emissari lo hanno fatto?
Fino a oggi la grazia è un chiacchiericcio affidato ai retroscena politici. Se ne fa un gran parlare, gli amici, i consiglieri più intimi, gli avvocati di Berlusconi ripetono da giorni che la grazia è “un atto necessario e dovuto” e che il capo dello Stato avrebbe dovuto già firmarla per l’ex premier il giorno dopo la sua condanna.
Berlusconi in persona intende chiederla?
Il Cavaliere non intende affatto chiederla. Per due ragioni. Ritiene che se lo facesse ciò equivarrebbe a un’ammissione di colpevolezza che è lontana da lui anni luce. In secondo luogo, la domanda comporterebbe una sorta di umiliazione, sarebbe una diminutio, presenterebbe Berlusconi davanti all’opinione pubblica come un uomo in ginocchio, piegato dalla condanna, costretto a chiedere una via d’uscita che egli è convinto gli spetti di diritto.
È possibile che il presidente conceda la grazia al Cavaliere senza che questi faccia domanda?
È del tutto escluso che Napolitano si muova con una grazia “motu proprio”, come si chiama in gergo un gesto di clemenza che prescinde dalla domanda del condannato, prevista dal comma 4 dell’articolo 681 del codice di procedura penale che disciplina i provvedimenti di grazia. È stato lo stesso Napolitano a escludere in modo tassativo questa possibilità quando, il 13 agosto, ha diffuso un messaggio destinato a Berlusconi nel quale scriveva esplicitamente che “nessuna domanda mi è stata indirizzata” e che il presidente della Repubblica non può prescindere “dalla prassi seguita in precedenza” in base alla quale, negli ultimi anni, “è stata ritenuta essenziale la presentazione di una domanda”.
Chi può presentare la domanda?
Può farlo il diretto interessato, o il suo avvocato, o ancora la sua famiglia. Nel caso del direttore del Giornale Alessandro Sallusti fu il suo legale Ignazio La Russa a rivolgersi al presidente della Repubblica.
Che tipo di grazia serve a Berlusconi?
Il leader del Pdl avrebbe bisogno di una grazia “totale”, cioè di un atto che cancelli non solo la condanna a 4 anni per frode fiscale per il processo Mediaset, ma anche la pena accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, stimata in 5 anni in primo e secondo grado, e che la Corte di appello di Milano dovrà ricalcolare dopo la richiesta della Cassazione. Il pg della Suprema Corte Antonello Mura ha chiesto 3 anni.
Napolitano può cancellare l’interdizione?
Il capo dello Stato ha già scritto nel suo messaggio che “un eventuale atto di clemenza individuale inciderà sull’esecuzione della pena principale”. Quindi ha escluso che possa eliminare l’interdizione. Il codice penale, all’articolo 174 che disciplina la grazia, stabilisce che il decreto deve prevederlo esplicitamente.
La legge Severino, e quindi la decadenza e successiva incandidabilità del leader Pdl, può essere risolta con un provvedimento di grazia?
L’eventuale grazia non avrebbe alcuna influenza sul destino di Berlusconi in quanto senatore e su una sua futura candidatura. Egli, anche graziato, deve lasciare il Senato e non potrà essere candidabile per i prossimi sei anni.
Si può dare la grazia per garantire l’agibilità politica?
Sul punto, ovviamente, non esiste giurisprudenza.
Napolitano può commutare la pena di Silvio in un corrispettivo economico come ha fatto per Sallusti?
Il presidente può farlo, ma Berlusconi deve comunque chiedere la grazia. Ovviamente, il leader del Pdl deve valutare l’impatto negativo in Italia e all’estero di un politico e potente e ricco tycoon che, per un reato grave come il suo, finisce per “comprare” la sua libertà.
Il Cavaliere, per essere graziato, deve cominciare a scontare la pena o la grazia può intervenire prima che scelga tra domiciliari e affidamento ai servizi sociali?
È sufficiente leggere i codici per capire che la grazia non può prescindere da un avvio di pena scontata. Berlusconi invece pensa esattamente il contrario.

La repubblica 23.08.13

“Tecnopolo, imprese e start-up: pacchetto di aiuti per il rilancio”, di Francesco Dondi

Milioni di euro appoggiati sul tavolo per scommettere sul rilancio delle imprese e dell’occupazione. Una strategia che punta a trainare la ripresa, premiando chi davvero vuole – o ha le possibilità – di investire in innovazione e miglioramento della produzione. È un pacchetto multidirezionale quello messo in campo dalla Regione con un unico filo conduttore: incentivare gli imprenditori sani e coraggiosi, aprendo loro una corsia preferenziale per fare della Bassa un gioiellino proiettato verso l’economia del futuro. Lavoro e occupazione Attraverso il bando Por-Fesr, che già aveva finanziati 400 imprese regionali, sono stati trovati altri 14,9 milioni necessari a premiare chi assume: da uno a tre dipendenti il sostegno aumenta del 5%, chi va anche oltre i tre lavoratori ha un’aggiunta del 10%. Sono 38 le attività economiche della Bassa che hanno toccato con mano i soldi per un totale di 2,96 milioni. Il bando ha portato in tutta la Regione l’assunzione di circa 500 persone, di cui una quarantina nell’Area Nord. Start-up e innovazione Vale per le imprese costituite dopo il 1 gennaio 2011 e ha un budget di due milioni. Per ottenere il contributo devono avere almeno uno dei seguenti requisiti: basare l’attività sullo sfruttamento di un brevetto: avere stipulato accordi di collaborazione con la rete Alta Tecnologia; avere nella compagine societaria soggetti di ricerca, investitori istituzionali o partner industriali; essere state selezionate per altre iniziative regionali. La spesa dell’investimento deve essere di almeno 75mila euro e il contributo è del 60%. Domande entro il 31 gennaio 2014. Tecnopolo di Mirandola L’assessore Muzzarelli ci crede molto («Il biomedicale della Bassa è il secondo polo mondiale, ma serve innovare con la collaborazione di imprenditori, università e ricercatori»). Ecco perché sono disponibili quattro milioni per il progetto che vedrà la luce nel 2014. Intanto entro il 15 ottobre la Regione chiede di presentare manifestazioni d’interesse al piano da parte di soggetti che vogliano svolgere attività di ricerca. Il cofinanziamento sarà del 90%. «Nessuno si è ancora fatto avanti», dice l’assessore, ma è impossibile credergli visti i tempi ristretti per spedire le domande. Da troppo tempo, infatti, Muzzarelli semina in questa direzione. Sicurezza dei capannoni Dopo la liquidazione di 4,1 milioni a 114 imprese per l’antisismica attraverso il bando Inail, a settembre arriverà un’altra tranche di contributi per ben 340 domande. Si procederà poi con la pubblicazione di una nuova ordinanza per la “rimozione di carenze strutturali e miglioramento sismico” con un budget di 65 milioni di euro. Progetti futuri «Le domande per il Mude – annota Muzzarelli – avanzano bene con circa 50 progetti presentati a settimana. Miglioreremo l’ordinanza 57 per le spese ammissibili su condomini e parti comuni, innalzeremo del 10% i costi tabellari per i capannoni fino a 1500 metri quadrati e del 20% per lavori particolarmente complessi e per cui servono misure di sicurezza maggiori. Ci sarà un miglioramento del calcolo assicurativo e novità per chi è in concordato preventivo. Finora, e questo è un vanto, tutti hanno ottenuto il 100%. Deve essere un messaggio positivo che incentivi ancor più i cittadini. Sento dire che i soldi non arrivano: chi lo sostiene ha sicuramente ragione, ma di fronte ad un’affermazione simile bisogna anche capirne i motivi. Magari da mesi devono portare un’integrazione in Comune oppure non hanno neppure fatto domanda. Ricordo che un pool di tecnici regionali è sul territorio per rispondere a tutte le esigenze».

La Gazzetta di Modena 23.08.13

“Semmai Barabba”, di Massimo Adinolfi

Tutto ci si può aspettare in questi giorni delicati, meno un’uscita di Angelino Alfano che dia un sostegno smaccato ai giudici della Cassazione che hanno condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per frode fiscale. Eppure è accaduto (o quasi). Perché chiamato a riflettere sull’esempio di Cristo, Alfano non si è fatto ripetere due volte l’invito e ha detto: «l’esempio di Cristo non poteva essere più pertinente perché evidenzia l’esigenza di un giusto processo e i limiti di un giudizio popolare». Ora, vi ricordate come andò quella volta? Pilato invita la folla a scegliere fra Gesù e Barabba e la scelta cade su
Barabba: il furfante è salvo e l’innocente in croce. Di qui l’acuta osservazione del vicepremier: la giustizia dell’epoca funzionava veramente male, e una bella riforma avrebbe evitato un esito così scandaloso. Orbene, veniamo al secondo processo più famoso della storia dopo quello di duemila anni fa: Berlusconi vi è stato condannato non dal giudizio popolare, ma dai giudici della Cassazione! Non solo, ma la condanna è giunta dopo tre gradi di giudizio, con l’avvocato Ghedini sempre al fianco, e dopo dibattimenti decisamente più articolati del pronunciamento popolare di una folla urlante, chiamata a profittare di una usanza graziosa del prefetto romano nella Giudea, quella di lasciar libero un prigioniero per i giorni di Pasqua. C’è di più. Quando il centrodestra insorge contro una sentenza di un tribunale che condanna un leader ancora acclamato da milioni di persone mostra, con ogni evidenza, che se Berlusconi fosse stato esposto alla folla l’avrebbe fatta franca. Delle due l’una, allora: o Alfano aveva intenzione di esaltare diritti e garanzie della civiltà giuridica moderna, quelle che mancarono nel processo a Gesù e non sono invece mancati nel processo a Berlusconi, oppure intendeva paragonare la condizione di Berlusconi a quella di Barabba, non a quella del Messia. Proprio come per Barabba, infatti anche per il Cavaliere il giudizio popolare avrebbe significato l’assoluzione.
Solo che ora bisognerebbe trovare un Ponzio Pilato qualunque che, in barba a principi non di giustizia ma di diritto, di civiltà giuridica, si affacci da qualche balcone e chieda non ai giudici togati ma alla folla di pronunciarsi per acclamazione. Ce ne sono, in giro?

L’Unità 23.08.13

“A testa in giù per 20 euro”, tra i nuovi schiavi bianchi del pomodoro puglise, di Giuliano Foschini

A 50 anni Antonia pensava di non dover più vedere il mondo a testa in giù. E invece, dieci anni dopo l’ultima volta, è tornata a guardare la sua vita rovesciata: le gambe divaricate, la testa che a fatica si piazza all’altezza delle ginocchia, le braccia che si stendono nella terra, le dita che intercettano i frutti rossi facendo attenzione a evitare quelli più verdi.
Così Antonia è tornata a raccogliere i pomodori. «Avevo detto basta, per pochi spiccioli non posso fare la schiava. Ma non lavoravo da due mesi, né in campagna né come stiratrice. E allora questi 20 euro al giorno a casa fanno comodo. Ma non alla mia schiena». Antonia è una degli oltre 800 italiani che, testimonia la Flai-Cgil, da quest’anno sono tornati nei campi del foggiano per il lavoro più faticoso, quello peggio pagato, e per questo appaltato ormai da anni dai caporali. Agli schiavi, prima africani e poi est-europei. «Italiani non se ne vedevano da tempo: oggi invece sono almeno 800-900» spiega Daniele Calamita, segretario generale del sindacato. «Li spinge la crisi, la drastica diminuzione delle giornate di lavoro in campagna. La disperazione: accettano paghe inaccettabili ».
Antonia guadagna, a nero chiaramente, 20 euro per una giornata di lavoro che dura anche dieci ore. In realtà sono 25 euro, ma 5 vanno al caporale per il trasporto dalla città alla campagna, andata e ritorno. Il compenso è lo stesso di Emanuele, trentenne, che in un campo poco distante lavora alla guida di una macchina. Eppure Antonia ed Emanuele sono fortunati. Dormono in una casa. Un privilegio per i lavoratori del triangolo del pomodoro — Foggia, San Severo, Cerignola — un luogo dove i diritti di chi lavora sono nati, si sono formati, sono stati conquistati e invece 60 anni dopo si sono storti tutti, ammaccati, deturpati. Così a Cerignola, paesone da più di 50mila abitanti, in pieno centro vivono 12 persone in uno sgabuzzino senza bagno. Come servizi, vecchie bombole del gas: hanno fatto un foro nella parte superiore e dopo l’uso le svuotano in un tombino per strada. Qui sotto ci vivono otto uomini, tre donne e una bambina di un anno e mezzo: è suo il body bianco che hanno messo fuori ad asciugare, involontario ed efficace monumento a una barbarie. Questo scantinato viene affittato ai rumeni da un italiano per 200 euro al mese. Dorina invece, tre civici più in là, paga 300 per 15 metri quadrati.
È qui che vivono gli schiavi d’Italia. Gli schiavi bianchi. Bulgari e rumeni, alcuni ucraini. Hanno il marchio Ue, ma sono comunque disperati. Secondo le rilevazioni della Cgil sono 15mila in questa zona, 7.900 solo i rumeni. Guadagnano 3 euro per ogni cassone da 50 chili di pomodori. In media per raccoglierne uno, si impiega un’ora e dieci di lavoro. Complessivamente fanno poco più di 20 euro per otto ore. La giornata è strutturata in due turni: dalle 5 alle 11 e poi dalle 16 fino al buio. Ciascun lavoratore paga in anticipo 125 euro per il viaggio di andata e ritorno dal loro Paese più 20 euro a settimana per l’alloggio in Puglia. In tasca rimangono non più di 10 euro al giorno. Come si vive? «Con tre euro possono dormire qui da noi» dice Vito Colangione, il direttore di uno dei tre alberghi diffusi che la Regione ha voluto. Sono un miracolo: prefabbricati puliti, i bagni, non bisogna pagare extra. Ma i numeri sono praticamente nulli: coprono meno di 200 posti letto a fronte di una forza lavoro che supera le 25mila unità di migranti. La Cgil ha proposto di realizzare un eco-villaggio che sostituisca le baraccopoli dove oggi vivono gli africani, che prima erano egemoni. E invece sono diventati minoranza. «Danno ricchezza e l’Italia li accoglie così…», commenta Diego De Mita, presidente provinciale dell’Anolf (Associazione nazionale oltre le frontiere) che nel ghetto di Rignano si batte per acqua, bagni, come se fosse l’Africa. Invece è Italia.
«Gli africani — spiega Colangione — ormai sono il 10 per cento. Nel nostro centro, su 56 posti sono tutti rumeni e bulgari. Tre i tunisini». Non è un dettaglio, perché il cambio di passaporto della schiavitù ha mutato la distribuzione geografica dei migranti. «Non vivono più nelle campagne, ma in città». Al Penny Market, discount all’ingresso di Cerignola, l’80 per cento dei clienti sono bulgari e rumeni. «Scegliamo i prodotti
per loro: tutto in scatola, oppure wurstel. E ovviamente alcol. Tantissimo alcol». Fanno impressione le macchine: una su cinque ha targa dell’Est. «La convivenza — continua Colangione — sta diventando complessa. Se le istituzioni continuano a fare finta di non vedere, si rischia una guerra di disperazione».
E disperati erano i ragazzi che ieri mattina piantavano finocchi proprio davanti l’albergo diffuso di Cerignola. C’era il padrone a controllare, accanto i suoi due nipoti dodicenni che guidavano una Fiat Blu. «Li tengo qui per capire se da grandi vogliono coltivare. Se piace il mestiere. Devono imparare che devono stare qui perché bulgari, rumeni, italiani, queste non sono persone, vedi che innesto di merda ha fatto, queste sono bestie». Disperato era anche il ragazzo italiano che ha urlato per un’ora mercoledì nella speranza che arrivassero presto i soccorsi: quando sono arrivati il suo collega Ahmed El Mardi, 45 anni, raccoglitore clandestino di pomodori, era già morto. Stroncato da un infarto mentre guardava il suo sogno a testa in giù.

La Repubblica 23.08.13