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“L’industria senza politica”, di Massimo Mucchetti

L’Italia della politica si scervella sul destino di Silvio Berlusconi. L’economia passa in secondo piano. E, nel recinto dell’economia, scompare la politica industriale. Doveva essere, la politica industriale, un segno distintivo del governo Letta.Non se ne avverte ancora traccia sia nella definizione dei soggetti deputati a darle impulso, per esempio nella definizione della missione della Cassa depositi e prestiti, sia nell’assunzione di un ruolo di regia discreta nelle grandi ristrutturazioni in corso. Sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico si accavallano decine, se non centinaia, di crisi aziendali. Ma dov’è la nuova politica di ampio respiro per rilanciare la grande impresa italiana che non si può fare solo nel dicastero di via Veneto ma richiede anche l’impegno convergente dei ministeri dell’ Economia, delle Infrastrutture, dell’Ambiente e della stessa presidenza del Consiglio?
Automobile, trasporto aereo e ferroviario, telecomunicazioni, impiantistica per l’energia, distribuzione organizzata, televisione, il sistema residuo della grande impresa è variamente in difficoltà. Ma non se ne parla. O meglio si evoca la grande impresa come ideale astratto solo per dire che la piccola e la media che esistono, e combattono spesso bene, non sarebbero all’altezza delle sfide della modernità. Ma sulla grande impresa che c’è, sui suoi problemi e sulle sue prospettive, silenzio. Nel mondo cambiano le locomotive imprenditoriali e tecnologiche dell’innovazione, ma l’Italia sembra ferma alla politica de- gli anni Novanta quando si credeva che sarebbe bastato celebrare il funerale dello Stato imprenditore, aprendo le porte alle varie ThyssenKrupp e General Electric, spezzando le grandi filiere industriali e scommettendo sull’outsourcing e sul- la specializzazione, per avere imprese più grandi, più trasparenti e più competitive. E invece la storia ha preso un’altra piega. Con la quale facciamo fatica a connetterci.
Per stare alle cronache più recenti, ecco un Jeff Bezos che compra la Washington Post e noi crediamo che la Fiat al 20% del Corriere sia più o meno la stessa cosa. Ci disinteressiamo del futuro dell’automobile credendo sempre e comunque alla narrazione marchionnesca, quasi avessimo timore di vedere la realtà di una Fiat che non investe più cifre degne in questo Paese, quasi che avessimo un timore, addirittura il panico, di scoprire fin dove sia la burocrazia tricolore a tarpare le ali al gabbiano e da dove invece cominci il disegno degli Agnelli e del loro top manager. Pensiamo che il futuro del trasporto ferroviario passi dallo smantellamento di quel che resta di un’industria nazionale, l’Ansaldo Breda e l’Ansaldo Sts, e dal salvataggio degli azionisti di Ntv (Montezemolo, Della Valle, Punzo, Generali, Intesa Sanpaolo, ec- cetera) e non dal rilancio, anche nel trasporto locale, delle Fs e dalla costruzione di una Alstom italiana per il materiale rotabile. Assistiamo inerti all’Eni che dice di voler allontanare da sé la Saipem dopo uno scandalo tangentizio e alla Finmeccanica che, presto o tardi, darà via anche l’Ansaldo Energia.
Crediamo che il futuro sia tutto nelle mani del- le varie General Electric che ha sviluppato il Nuovo Pignone senza mai che ci chiedessimo se non fosse stato meglio, a suo tempo, sposarlo all’Ansaldo per porre le basi di una Siemens italiana. Abbiamo tributato un provinciale pedaggio a modelli anglosassoni senza capire che il passaggio delle nostre imprese maggiori in mani estere non è un bene sempre e comunque. C’è modo e modo di alzare il quoziente degli investimenti diretti esteri sul totale degli investimenti nazionali. Per esempio, aprendo nuovi insediamenti produttivi.
In questo Paese, che chiede la revisione radicale in stile Bad Godesberg solo agli ex comunisti (che fecero malissimo a sottrarvisi e tuttora paga- no pegno per quell’antica renitenza a fare i conti con la storia), il caso Telecom Italia viene ridotto a una questione di infrastrutture perché in troppi hanno paura di riconoscere che la madre di tutte le privatizzazioni è stata un disastro industriale. Si teme di porvi rimedio nel modo più razionale ed economico, ossia con il ritorno di Telecom nelle mani adatte, fatalmente pubbliche o similari, per pilotarla, se del caso, nelle future aggregazioni transnazionali nel quadro di una nuova politica della concorrenza.
Alcuni grandi imprenditori della distribuzione organizzata si accingono a passare la mano per raggiunti limiti di età, e tutto tace, non per il dovuto rispetto all’iniziativa privata, sul quale uomini come Bernardo Caprotti giustamente non farebbero sconti, ma per evidente mancanza di idee. C’è la grande distribuzione cooperativa che è grande a metà per legami con il territorio che sfumano non di rado nella difesa dei poteri costituiti locali. Abbiamo lasciato finire la Parmalat in mano ai francesi, non tanto perché Tremonti e Passera si siano mossi tardi immaginando improbabili interventi in extremis della Cassa o di Ferrero, ma perché il sistema bancario italiano è stato incapace di costituire un azionariato nazionale di riferimento quando le quotazioni lo consentivano e i governi, che pure esprimevano il commissario straordinario, si sono sempre disinteressati del tema.
In un precedete articolo abbiamo affrontato la questione dei soggetti pubblici che possono soste- nere una nuova e razionale politica industriale. In particolare, abbiamo scritto della Cassa. Chi volesse dare un respiro più ampio alla materia potrebbe rileggersi l’Economist sul capitalismo di Stato senza socialismo. Ma adesso è forse giunto il momento d riflettere sui nuovi paradigmi dell’innovazione che ci vengono da fuori e che sembrano ricostruire, in forme nuove, le antiche filiere della grande impresa. Giusto per memoria, per decenni un unico gruppo telefonico aveva aziende specializzate nella costruzione delle reti e nella loro gestione, nella produzione degli apparecchi e delle centraline e nella offerta dei servizi voce e dati fino agli elenchi degli abbonati e alla relativa pubblicità. Nel settore elettrico, c’era un rapporto intenso tra Enel, Ansaldo Nucleare, Ansaldo, Franco Tosi. Nel settore del gas e del petrolio, Eni voleva dire ricerca, estrazione, piattaforme, trasporto, reti, vendita al dettaglio. Abbiamo smontato tutto. E adesso? Non si tratta di tornare al passato remoto, ma nemmeno di difendere il passato prossimo. Certo è che oggi Siemens, Alstom, Areva sono due potenze industriali globali che portano gli interessi della Germania e della Francia nel mondo in quanto hanno un rapporto privilegiato con il proprio mercato interno del trasporto e dell’energia e sono fortemente sostenute dai governi. Ma l’esempio più nuovo e intrigante viene dal Paese che costituisce il modello per i teorici della specializzazione e dell’outsourcing, gli Usa. Alludo all’acquisizione della Washington Post da parte di Amazon.
L’ingresso del colosso guidato da Jeff Bezos nell’editoria costruisce l’inizio di una filiera proprietaria dentro una filiera aperta quanto aperto può comunque essere un ipermercato. Attraverso Kindle, Amazon già riaccentrava in sé le funzioni dell’editore, del libraio e dello stampatore. Ma ora, con l’acquisizione del prestigioso quotidiano americano, Amazon diventa anche un produttore di news. È uno straordinario salto di qualità. Gli esperti prevedono che Amazon userà la credibilità della testata per promuovere nuovi commerci on line e la forza della sua rete di vendita web per migliorare la diffusione pagata del giornale e per riprofilarne l’informazione sulla base del suo gigantesco customer data base. Bezos potrà anche essere raccontato come l’avatar moderno dello stampatore settecentesco che diventava editore per alimentare i suoi torni, ma la realtà è che sta destrutturando la figura dell’editore di giornali, fondata sulla distinzione professionale delle fun- zioni di redazione, raccolta pubblicitaria, stampa e distribuzione e sulla distinzione politica tra edi- tore puro e impuro. Se avrà successo, Bezos darà nuova vita a un’industria, come quella della carta stampata, che pareva non avere più un futuro. Al tempo stesso, avrà messo in crisi la politica della concorrenza e del pluralismo nel mondo dell’editoria e dell’informazione.
Questo accade senza che il governo Usa abbia dato ad Amazon gli incentivi della politica industriale. È vero. Ma è anche vero che, senza citare il salvataggio dell’auto dal quale potrebbe uscire a questo punto l’auto elettrica, Internet venne costituita dalla mano pubblica, per le Università e per la Difesa. E che, per una tradizione più forte della legge, negli Stati Uniti non ci sono signore Graham che vendano giornali alla Goldman Sachs. L’Italia non ha la taglia degli Usa né la sua struttura finanziaria. Dal caso Amazon (e da quel- li delle varie Siemens e Alstom) può e deve spremere il succo che le serve.

L’Unità 25.08.13