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Il muro del Pd: “Nessun baratto sulla giustizia”, di Rodolfo Sala

Nessuno spiraglio, il Pd fa muro. E respinge quello che Dario Franceschini definisce senza giri di parole il «baratto» proposto dal Pdl. Baratto un po’ indecente, Letta può andare avanti solo se i Democratici salveranno il Cavaliere dalla decadenza in Senato. «Alle minacce e agli ultimatum — avverte il ministro per i Rapporti con il Parlamento — basta rispondere con un principio molto semplice: non si barattano legalità e rispetto delle regole con la durata di un governo. Mai». La linea è tracciata, tutte le anime del partito si
compattano e le conseguenze non possono che essere quelle annunciate ieri a Rimini da un altro ministro, il renziano Graziano Delrio: niente salvacondotti per l’uomo di Arcore condannato in via definitiva per frode fiscale, quando la vicenda arriverà alla Giunta del Senato, «il Pd voterà per la decadenza, non ci sono altre soluzioni; non si può trovare dentro la politica la soluzione a un problema giudiziario».
Lo impone la legge Severino, che il Pdl vorrebbe mettere in discussione magari con l’aiuto dei partner di governo. «Non ci rifiuteremo di fare approfondimenti — è il massimo che concede Rosy Bindi — ma nessuno ci chieda di farli per perdere tempo; proprio perché Berlusconi verrà trattato come un semplice cittadino, verrà applicata la legge Severino, che è molto netta: non vale il principio della retroattività
perché stiamo parlando di norme elettorali e non penali». Dunque, conclude la Bindi, «il Pdl la smetta con i cavilli e prenda atto della realtà, anche perché «c’è la pena accessoria sull’interdizione che sta arrivando».
Concetto ribadito dal responsabile organizzativo Davide Zoggia: «Bisogna rimettere la realtà con i piedi per terra, lo dico con chiarezza ai colleghi del Pdl, che invito ad assumersi le proprie responsabilità
e a smetterla con il tentativo di scaricare sul Pd problemi che riguardano il loro partito ». Insomma: sono fatti vostri, perché «il problema è Berlusconi, è lui che è stato condannato con sentenza definitiva, e questo è un fatto grave». Ma nel Pdl non capiscono, insiste la Bindi, che esclude in modo perentorio l’ipotesi dell’amnistia, anche questa vagheggiata nell’entourage dell’ex premier. Dove qualcuno, in nome della pacificazione, ricorda quel che fece Togliatti da ministro della Giustizia: «Quella della pacificazione è una categoria estranea al governo di servizio, nel Pdl non hanno ancora capito che non intendiamo sostenere il governo con l’annullamento delle sentenze».
E ricorre al sarcasmo l’europarlamentare Gianni Pittelli, uno dei candidati alla segreteria del Pd: «Di questo passo, dietro il ricatto della crisi, il Pdl arriverà a chiederci di votare pure che Ruby è la nipote di Mubarak». Ma tra i democrat c’è chi, come la lettiana Paola Micheli pensa che alla fine i berlusconiani non faranno cadere l’esecutivo: «Sono convinta che Berlusconi deciderà con la testa e non con la pancia, e poi bisogna vedere se il Pdl vuole abbandonare la nave Italia per garantire la difesa di una persona che, pur importante per il centrodestra, ha fatto quel che ha fatto».

La Repubblica 23.08.13

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“Non siamo al governo a tutti i costi in questa partita ci giochiamo l’anima”, di TOMMASO CIRIACO
«La decadenza di Berlusconi è un atto dovuto, scontato. La destra deve capire che noi non possiamo arretrare di un millimetro, perché ne andrebbe di mezzo la nostra concezione della democrazia». Né vendetta, né accanimento verso il Cavaliere: per il candidato alla segreteria democratica Gianni Cuperlo è soltanto una questione di «coerenza » rispetto ai «principi dello Stato di diritto». I dem non possono muoversi diversamente. Altrimenti perderebbero l’anima: «Non penso che il Pd si spaccherà. Sul principio non cederà. Dovesse cedere, semplicemente non ci sarebbe più il Pd».
Il Cavaliere si affida a un’immagine: “Sono in barca con un amico che mi vuole buttare a mare”. L’amico è il Pd.
«Così la metafora non funziona. Non abbiamo mai immaginato di risolvere la vicenda per via giudiziaria. Ma la decadenza è un atto dovuto, scontato. Su questo il Pd è unito».
Atto dovuto, dice. Spieghi a noi e al Pdl perché.
«Si tratta di una sentenza passata in giudicato e come tale va rispettata e applicata. Sa che cos’è irricevibile?».
Dica.
«La concezione sostanziale della democrazia che ha questa destra, dove le regole e i principi vengono dopo la realtà. Loro dicono: “Abbiamo preso milioni di voti”. E da lì fanno discendere la valutazione sulla decadenza. Ma non funziona così. Se prendi milioni di voti non sei esentato dal rispetto della legge. Nel ‘900 questa visione è stata all’origine della distorsione dei valori democratici. Per questo non possiamo arretrare di un millimetro».
Un bel problema, per il premier.
«Ho apprezzato Letta. Ha difeso la responsabilità di essere al governo per affrontare l’emergenza economica che per me
vuol dire redistribuire risorse a chi è finito a terra, rappresentarci in Europa e, me lo lasci dire in queste ore terribili, anche guardare al mondo e a un Medio Oriente segnato dalle tragedie in Egitto e Siria. Ma Letta ha anche spiegato che non siamo al governo a ogni costo».
Eppure, tutto ruota ancora intorno al Cavaliere.
«Quel che non funziona a destra è un’idea del consenso elettorale come potere sovraordinato agli altri. Ma quella è la premessa dell’assolutismo. L’opposto di quell’equilibrio dei poteri elaborato da un paio di secoli».
Insomma, nessun passo indietro.
«Ma non è questione di tattica politica. È una questione di principio in uno Stato di diritto. Lo devono capire i nostri avversari».
C’è chi ha proposto di allungare i tempi in giunta sulla decadenza. Così intanto si chiude la finestra elettorale.
«Mi sembrano suggestioni spericolate. Sui tempi di lavoro deciderà la Giunta, non c’è nessuna volontà di venire meno a principi garantisti. Ma sarebbe fuori luogo e poco credibile che si tendesse a diluire il tempo della decisione seguendo la logica che mi ha descritto».
E il Pdl? Seguirà Berlusconi fino alla fine?
«Spero che la destra prenda atto che si è conclusa una stagione politica e storica. Spero siano in grado di aprire una riflessione. Per loro è uno spartiacque politico. Prevarrà un modello leaderistico, dinastico, quella pulsione populista venata da sovversivismo? Oppure l’anima democratica, europea, costituzionale?».
Forse non possono abbandonare il Cavaliere proprio ora.
«Sarà la destra a decidere la strada. Ma se non sarà in grado di rendersi autonoma, sarà un’occasione persa».

La Repubblica 23.08.13

“Scandalosi gli abusi sugli stage dal governo più regole e controlli”, di Tania Mastrobuoni

Stabilire regole certe per gli stagisti è difficile, anzitutto per la assurda giungla di competenze che circonda la materia, come ammette il sottosegretario al Lavoro, Carlo Dell’Aringa. In parte i tirocini sono di competenza del Governo, in parte delle Regioni, che sulle linee guida concordate con l’ex ministro Elsa Fornero stanno però accumulando ritardi «gravi», osserva Dell’Aringa. L’economista ammette che gli abusi segnalati da questo giornale sono «uno scandalo», che occorre aumentare i controlli e stabilire regole per gli stagisti curriculari. E sostiene che il Governo si impegnerà, anzitutto, a censirli.

Dell’Aringa, perché attorno ai tirocini si accumulano così tanti abusi? Il governo non può stabilire regole certe?

«Il problema è che la Corte costituzionale boccerebbe tutto. Bocciò il tentativo di Elsa Fornero di regolamentare gli stage perché effettivamente la formazione è di competenza delle Regioni. E di recente, quando abbiamo tentato di tornare sul tema, di riproporre delle regole per i tirocinanti, le commissioni Affari costituzionali del Parlamento ci hanno avvertiti che saremmo andati incontro ad un’altra, sonora bocciatura della Consulta».

Le Regioni stanno adottando con tempi lunghissimi le linee guida concordate con Fornero. Non potreste costringerle ad accelerare?

«Assolutamente sì, è quello che intendiamo fare. Ci sarà a breve un incontro con i governatori sull’apprendistato: chiederemo conto dei gravi ritardi accumulati sulle regole per gli stage e faremo pressioni perché accelerino».

Ieri abbiamo raccontato la storia di una stagista che ha lavorato in una famosa casa editrice ed è stata sfruttata per tre mesi, senza un centesimo di compenso e senza uno sbocco lavorativo vero.

«Casi del genere sono uno scandalo. Il problema dei controlli c’è, è vero, sono del tutto insufficienti e ci impegneremo a intensificarli. D’altra parte, le imprese cercano sempre la flessibilità maggiore. E un altro problema che sottolineano gli esperti quando si parla di migliorare le condizioni degli stage, è che si rischia una sovrapposizione con l’apprendistato o con altre forme di contratti flessibili. Dobbiamo sempre ricordarci che lo stage fa parte della formazione, non è un contratto di lavoro. Non prevede contributi, non ci sono tutele, niente di niente. Bisogna fare attenzione a non renderlo troppo “attiguo” rispetto all’apprendistato».

Avete regolamentato i tirocini post-studi, quelli cosiddetti extracurriculari: non si rischia una fuga delle aziende ad accaparrarsi quelli curriculari, che sono in una zona d’ombra?

«Quello curriculare è di competenza nazionale, effettivamente, in particolare del ministero dell’Istruzione. Il Governo potrebbe occuparsene, se volesse».

E vorrà?

«Sarebbe opportuno. Però il punto è che bisognerebbe incentivare molto gli stage durante gli studi. Noi siamo in fondo alle classifiche europee, sui ragazzi che fanno gli stage durante gli studi, da noi vale il principio “study first, then work” (prima studi, poi lavori, ndr)».

Forse è anche un problema culturale.

«Verissimo. In molti Paesi del Nordeuropa i giovani partono per un anno e vanno in giro per l’Europa o per il mondo a lavorare, ad accumulare esperienze, ad imparare le lingue. E nessuno si sognerebbe di pensare che sia una perdita di tempo».

Un altro problema rilevante è che non c’è neanche un censimento, non si sa neanche quanti siano gli stagisti, in Italia.

«È vero, è un filone però che stiamo seguendo con attenzione, perché puntiamo ad un’agenzia nazionale dell’impiego. Il problema delle banche dati interessa molto non solo me, ma anche il ministro Giovannini e il presidente del Consiglio Letta».

La Stampa 23.08.13

“La strategia della paralisi”, di Claudio Tito

Nonostante le roboanti minacce del Pdl, l’attuale sistema politico appare sempre più bloccato. E anche l’arma delle elezioni anticipate si mostra spuntata. In primo luogo perché il Presidente della Repubblica (lo ha confermato anche ieri nel colloquio con il presidente del Consiglio) non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere se prima non si è messo mano alla legge elettorale, ossia a quel Porcellum che costituisce la prima causa di questa impasse senza precedenti.
IN SECONDO luogo perché il risultato di una nuova consultazione elettorale, senza la riforma delle legge Calderoli, rischia di riprodurre la medesima situazione. Ancora pareggio e ancora larghe intese. E infatti, sebbene i falchi del centrodestra siano in questa fase scatenati, i dubbi del Cavaliere per un immediato show down non mancano. «Non mi vogliono lasciare una via d’uscita — ha ripetuto ieri il capo del centrodestra spinto dalle colombe Gianni Letta e Fedele Confalonieri — ma basterebbe poco per evitarmi un’umiliazione». Ma quella che Berlusconi chiama un’umiliazione, rappresenta per il Pd un passaggio obbligato. Enrico Letta e i democratici non possono fare niente per «salvarlo». Se non arrivare all’esecuzione della sentenza in modo ordinato e senza eccessi. L’unica via per non far esplodere la situazione. Fare anche solo credere ad un cedimento, significherebbe provocare una vera e propria rivolta del popolo di centrosinistra. Quindi anche per il Partito democratico, sono poche le alternative.
L’ipotesi di una nuova maggioranza si sta sbriciolando davanti ai niet di Grillo che ora — smentendosi clamorasamente — addirittura invoca la difesa del Porcellum. L’idea poi di una diaspora dentro il centrodestra è al momento avveniristica. I malumori in quel partito non mancano, anzi lo scontro tra moderati e falchi è sempre più violento. Ma nessuna colomba — dopo il fallimento di Scelta civica — ha più il coraggio di provocare una frattura. A quel fronte manca un vero
leader che possa pilotare un traghettamento verso una nuova formazione. Anche Angelino Alfano lo sa. Ora sta provando a recuperare la leadership del partito e la guida delle «colombe». Ma con una premessa che ha deluso la componente più ragionevole: «Non tradirò mai Silvio».
In questo quadro dunque la possibilità di un nuovo centrodestra “deberlusconizzato” ancora non prende corpo. E conferma la situazione di paralisi del nostro sistema, in cui tutti sono troppo deboli per tentare uno scatto. I Democratici hanno insomma solo un’opzione: tentare di condurre all’esecuzione della pena inflitta a Berlusconi senza strappi per le istituzioni.
Non a caso, uno dei sentieri che Enrico Letta e Angelino Alfano stanno provando a imboccare porta ad allungare i tempi di esame della decadenza del Cavaliere da parte della Giunta. Tra due settimane, infatti, il relatore sul casi-Berlusconi potrebbe essere sostituito. Il nuovo si prenderà qualche giorno di riflessione. Ma in ogni caso la procedura è comunque lunga: con ogni probabilità verrà nominato un Comitato inquirente. Quando sarà finito il lavoro di questo organismo, verrà convocata l’udienza pubblica con un termine non inferiore a dieci giorni e solo alla fine si passerà al voto in aula. Il tutto non prima di metà ottobre, quando arriverà anche la decisione della Corte di appello di Milano sulla interdizione (la Cassazione ha infatti ordinato di ricalcolare i 5 anni decisi in secondo grado). Insomma, la decadenza del Cavaliere è comunque inevitabile. A Palazzo Chigi lo hanno detto a chiare lettere all’inquilino di Arcore. A meno che la Giunta per le immunità non voti un ricorso alla Corte costituzionale. «Così avremmo 7-8 mesi di tempo», dice il leader del Pdl e anche quelle colombe che vorrebbero organizzare il “dopo-Berlusconi”. Ma su questo i precedenti non sono favorevoli. Alla Camera non ce ne sono. Al Senato, nelle ultime due legislature, per tre volte la Giunta ha votato sul rinvio alla Consulta e sempre ha bocciato questa eventualità. Senza trascurare la circostanza che gli stessi giudici costituzionali potrebbero giudicare irricevibile la richiesta.
In questa situazione, quindi, il boccino è saldamente nelle mani di Napolitano. Che di voto anticipato non vuol sentire parlare. Prima si cambia la legge elettorale, poi si conclude il semestre di presidenza italiana dell’Ue e poi si può tornare alle urne. Altrimenti, come aveva già avvertito il giorno del suo secondo mandato presidenziale, sul tavolo questo Parlamento si ritroverà le sue dimissioni. E solo un nuovo capo dello Stato potrà sciogliere le Camere. Berlusconi ne è consapevole e prima di staccare la spina all’esecutivo cercherà di ottenere quanto più possibile dal suo ruolo di socio fondatore di questa strana alleanza di governo. Nella consapevolezza che uscire dal perimetro della maggioranza può provocare più di una ripercussione sulle sue aziende.

La Repubblica 23.08.13

“Punto e non a capo”, di Massimo Gramellini

Se anche gli avvocati lo convincessero a seguire la strategia adottata dal soldato-talpa Manning – chiedere la grazia dopo un cambio di sesso – o se una fata Toghina particolarmente misericordiosa facesse sparire condanna e pene accessorie con un colpo di bacchetta magica, il nodo scorsoio a cui si è impiccata la vita pubblica italiana non si scioglierebbe comunque. Una cucciolata di processi schiumanti aspettano al varco, dalle cene eleganti alla compravendita dei parlamentari.

Qualsiasi partito al mondo, persino nelle nazioni dove di partito ce n’è uno solo, riunirebbe i propri vertici per costringere il leader a farsi da parte. Capitò nella Dc di Forlani e nel Psi di Craxi, di cui Forza Italia si considera erede, ma succederebbe anche nella Dc tedesca e fra i conservatori inglesi, francesi, svedesi, neozelandesi. Qui invece no, perché il leader non è un capo ma un proprietario e i dirigenti sono in realtà dei dipendenti. Manca un Dino Grandi in grado di dirgli la banale verità: che il suo tempo in politica è finito. Che ha perso la partita e a batterlo non è stata la magistratura e tantomeno quei molluschi litigiosi del vecchio Pd, ma il fallimento delle sue promesse di panna montata: l’incapacità di fare riforme liberali, di ridurre le tasse, di tagliare la spesa, di snellire la giustizia contro cui si è limitato a inveire per tornaconto personale. In vent’anni l’uomo del popolo ha dimezzato i consensi elettorali. Ecco un’ottima ragione, in un partito normale, per indurlo a uscire di scena, salvando il centrodestra, il governo e anche l’Italia, che non ne può più.

La Stampa 23.08.13

“Camerieri da un milione di dollari il business di Jacopo e Massimo inventato al tavolo di un ristorante”, di Riccardo Luna

Ci sono le domande da un milione di dollari (quelle impossibili). La case da un milione di dollari (quelle da sogno). Persino il papero da un milione di dollari (un vecchio film del 1971). Molti magari ricordano una ragazza da un milione di dollari, che fa la pugile per la regia di Clint Eastwood (e vince quattro Oscar nel 2005). Adesso a questo elenco pressocché infinito possiamo aggiungere “i camerieri da un milione di dollari”.
Solo che questo non è un film. È la storia di Jacopo Chirici, 28 anni, e Massimo Fabrizio, 27: è una storia vera e non è ancora finita. Anzi in un certo senso è appena iniziata anche se sono già successe un sacco di cose: innanzitutto Rysto non è più solo l’ennesima idea carina di due giovani confusi ma esiste, è online.
Cos’è? È una piattaforma per far incontrare domanda e offerta di lavoro nel mondo della ristorazione e se a qualcuno la cosa sembra banale, sappia che Principia Sgr, un fondo di investimento, ha appena ritenuto di entrare in società con i due ragazzi mettendoci una bella somma di questi tempi. Quanto? Un milione di dollari.
Non si tratta certo dell’unico deal, dell’unico investimento, del 2013 in un mondo, quello delle startup italiane che inizia finalmente a crescere, a creare vere imprese, valore economico e qualche bel posto di lavoro (per dare un numero: a fine luglio l’elenco ufficiale delle startup aperto dal ministero dello Sviluppo Economico ha superato quota mille, ma va detto che si tratta di un elenco largamente inferiore al numero di imprese innovative avviate dai giovani in questi anni). Rysto però ha qualcosa di speciale, di romantico quasi. Se fosse una favola la racconteremmo così: c’erano una volta, poco tempo fa, due ragazzi italiadremo.
ni, che facevano i camerieri. Ecco, cioè loro oggi nel curriculum sul sito scrivono che hanno “lavorato nel settore della ristorazione” perché magari con gli investitori suona meglio. Ma camerieri erano. E la verità è che se non lo avessero fatto, a lungo anche, forse non avrebbero mai capito che il mondo dei ristoranti e dei bar aveva bisogno di innovazione. Aveva bisogno di Rysto. È andata così, dunque.
Jacopo è fiorentino, ha una criniera di ricci che lo rende inconfondibile, una laurea in economia ma non sa cosa fare nella vita. Manda un po’ di domande in varie università per fare un master in “management dell’innovazione” e lo prendono a Goteborg, in Svezia. Qui il giorno studia e la sera lavora in un ristorante italiano di buona reputazione, Alta Marea. Cameriere, appunto. Non si limita a portare i piatti in tavola come ve-
Intanto a Roma anche Massimo Fabrizio lavora in un ristorante, Le Colonne d’Ercole, sull’Ostiense. Lui ha provato con l’università, Economia a Roma Tre, ma la sua vera passione è internet. Ha imparato a fare siti nell’istituto dell’Eur Vincenzo Arangio Ruiz, e quello vuol fare. Siti web. È sua l’idea di Rysto. Un giorno legge da qualche parte, “forse un giornale”, che c’è una fondazione che fa corsi di tre settimane a San Francisco per diventare imprenditori digitali. Basta mandare una idea. E lui manda l’idea che ha maturato servendo ai tavoli: un sito dove far incontrare facilmente offerta e domanda di lavoro in un settore, quello della ristorazione, soggetto a picchi improvvisi.
Massimo e Jacopo si conoscono a San Francisco, al corso di Mind The Bridge, “un mondo dinamico, affascinante, propositivo” dirà Jacopo. Ed è lì che decidono che Rysto lo faranno assieme. In Italia. Racconta Jacopo: «L’Italia oggettivamente non è il posto ideale per fare startup, anche se dopo l’approvazione del decreto sviluppo le cose sono un po’ cambiate. In realtà la cosa che ci ha frenato finora è stata la burocrazia italiana sul mondo del lavoro, che a differenza degli altri Paesi occidentali, è fortemente regolamentata».
Attualmente Rysto è attiva in otto città italiane, ci sono piani di espansione in Europa e Stati Uniti, ma soprattutto i due giovani hanno capito quale può essere il modello di business: la formazione online di cuochi, camerieri, barman e sommelier. L’idea, in soldoni, è questa: con domande e offerte di lavoro si crea una community di professionisti o aspiranti tali ai quali poi insegnare un mestiere. Di qui l’accordo con un’altra piattaforma italiana di respiro internazionale, Docebo, di Claudio Erba. Come andrà, lo vedremo presto. Di Rysto intanto colpisce la sua liquidità organizzativa: Jacopo lavora da Firenze, Massimo da Roma, la sede è a Napoli dove sta Erba, ma l’orizzonte di tutti e tre è sempre San Francisco. In questo senso sono degli osservatori perfetti della crisi del lavoro che c’è in Italia adesso. Dice per esempio Jacopo: «Quando sono tornato in Italia un anno fa mi sono accorto che vecchi amici e conoscenti si trovavano in una situazione di precariato o disoccupati. Più che una crisi dell’occupazione per me è una crisi culturale. Le persone non sono rassegnate perché non hanno voglia ma sono rassegnate perché mancano le speranze. Anche per noi la strada è stata molto in salita, ma in realtà non ci è mai passato per la mente di “tirare i remi in barca” perché credevamo fortemente nel progetto e avevamo costantemente qualcosa a cui puntare».

La Repubblica 23.08.13

“Chi paga i pasti agli immigrati”, di Tito Boeri

Si respira aria di elezioni. E come in un consumato copione si torna a parlare a sproposito di immigrazione. Ieri al meeting di Rimini il vice-presidente del Consiglio, Angelino Alfano, ha proposto di far pagare vitto e alloggio dei detenuti stranieri ai paesi da dove provengono gli immigrati. Ci sono quasi 25.000 detenuti stranieri nelle carceri italiane. Non pochi di questi si trovano in questa condizione per il solo fatto di essere entrati illegalmente nel nostro paese, grazie al reato di immigrazione clandestina introdotto da un governo di cui Alfano faceva parte. Quasi tutti questi detenuti sono in carcerazione preventiva, messi in prigione senza quel “giusto processo” che oggi il vice-presidente del Consiglio torna nuovamente ad invocare per chi è già passato attraverso ben tre gradi di giudizio. Solo uno straniero su dieci può accedere a quelle forme alternative alla detenzione che oggi Alfano vorrebbe per altri conciliare addirittura con la presenza in Parlamento. Come pensa il ministro di farsi liquidare i quasi 250 milioni che sarebbero richiesti per pagare vitto e alloggio per un anno ai più di 12.000 detenuti africani presenti nelle nostre prigioni? A chi chiederà Alfano questi soldi in Egitto? E nei paesi dell’Africa sub-sahariana dove il reddito pro-capite è di circa un euro al giorno contro i 50 del costo medio della detenzione in Italia? Vuol far morire di fame questi detenuti per riportarli alle condizioni dei paesi d’origine? Oppure vuole abbassare ulteriormente il salario dei secondini? E perché al “meeting dell’amicizia” nessuno ha avuto alcunché da ridire su questa proposta?
Dopo aver per mesi insultato il ministro Kyenge, nei giorni scorsi la Lega ha deciso di promuovere un referendum per abolire il ministero dell’Integrazione. In verità la Lega ha da anni agito consapevolmente per abolire l’integrazione degli immigrati. Il linguaggio cruento, il terrore sparso tra la popolazione autoctona, le leggi promulgate quando era al governo hanno un comune denominatore: impedire una qualsiasi forma di integrazione. Bene ricordarsi di quando l’allora ministro degli Interni Maroni, in compagnia del ministro della Difesa La Russa, preconizzava sbarchi biblici dal Nordafrica, con due milioni e mezzo di lavoratori stranieri pronti a sbarcare dalla sola Libia. Ci sarebbero voluti almeno 12.500 barconi (quando oggi l’intera Marina militare italiana non dispone di più di 50 navi), con 200 persone a bordo ciascuna, roba da rendere il canale di Sicilia più ingolfato del grande raccordo anulare nelle ore di punta. A cosa serviva sparare cifre alla cieca, prive di qualsiasi riscontro con la realtà, se non a mobilitare gli italiani contro le legioni straniere? Bene ricordare che da allora sono sbarcate in Italia in più di tre anni circa 60.000 persone, molte delle quali sono poi emigrate altrove o tornate in patria.
La legge Bossi-Fini, che oggi Lega e Pdl difendono strenuamente, non impedisce certo l’immigrazione clandestina, ma sembra fatta apposta per far permanere illegalmente decine di migliaia di immigrati nel nostro Paese, una condizione spesso contigua al coinvolgimento in attività criminali, mentre gli immigrati regolari hanno tassi di criminalità in linea con quelli della popolazione italiana. La riduzione della criminalità e della popolazione carceraria straniera (dunque dei costi della detenzione a carico del contribuente) passano proprio attraverso la regolarizzazione. Uno studio condotto dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti (www.frdb .o r g ) mostra che coloro che si sono visti rifiutare la domanda di regolarizzazione nel “click day” del 2007 solo perché sono riusciti ad accedere al sito del ministero degli Interni pochi secondi dopo le 8 e 29 (a Milano) o le 8 e 10 (a Napoli) hanno tra il doppio e il triplo della probabilità di commettere reati gravi nell’anno successivo rispetto a coloro
che si sono visti accettare la domanda. Sono da noi e non possono lavorare. Di qualcosa dovranno pur vivere… L’integrazione è quindi fondamentale per gestire meglio l’immigrazione, per renderla non solo economicamente (lo è già, dato che contribuisce a più del 10% del nostro reddito naziona-le), ma anche socialmente sostenibile. Da quando è iniziata la crisi, i flussi in entrata, gli arrivi di immigrati, sono fortemente diminuiti (attorno al 10 per cento in meno all’anno) e quelli in uscita sono aumentati (quasi +20% nel 2012). Per questo oggi è fondamentale concentrarsi sull’integrazione di chi è già da noi. Non è detto che sia necessario un ministero dell’integrazione, soprattutto se privo di risorse e di poteri come quello creato con un forte connotato simbolico dal governo Letta. Più che un ministero serve una politica
dell’integrazione. Dovrebbe reggersi sulla concessione di permessi di soggiorno a tempo indeterminato (al posto dei permessi tutti a breve termine della Bossi-Fini) per i minori stranieri (anche di irregolari) e per tutti quegli immigrati che hanno mostrato di volersi integrare. Servirà anche ad attrarre immigrati che investono nell’integrazione, dunque nel nostro Paese. Dovrebbe questa politica anche favorire in tutti i modi l’accesso all’istruzione da parte degli immigrati di seconda generazione, senza richiedere in alcun modo l’esibizione del permesso di soggiorno da parte del minore o del suo genitore. Dovrebbe anche permettere allo straniero legalmente soggiornante l’accesso a posizioni nella pubblica amministrazione al pari dei cittadini italiani, quando oggi invece gli immigrati di seconda generazione non possono
partecipare ai concorsi pubblici. A proposito, perché il ministro Kyenge non ha detto nulla quando paradossalmente il disegno di legge europea varato dal suo governo ha, per un errore materiale, finito per escludere dall’accesso al pubblico impiego molti immigrati legalmente soggiornanti in Italia o che hanno acquisito titoli di studio da noi? Infine, bisognerebbe rimuovere una serie di ostacoli burocratici all’acquisizione della cittadinanza, ad esempio assimilando a questi fini gli anni di residenza legale a quelli di iscrizione all’anagrafe. È possibile farlo anche agendo sui soli provvedimenti attuativi. Non c’è bisogno di grandi proclami e di nuove leggi con il loro inevitabile strascico di demagogia e di polemiche, alla ricerca di un qualche dividendo elettorale.

La Repubblica 23.08.13

Obama e i nuovi diritti civili “L’uguaglianza inizia in classe”, di Paolo Mastrolilli

Il nostro futuro? L’istruzione, perché oggi quello che sai è quello che vali. Dunque bisogna aprirla a tutti, come chiave della crescita e dell’eguaglianza economica, diventata il nuovo diritto civile più importante. Pari opportunità, per chiunque le voglia, che poi si trasformano in conoscenza dei cittadini e leadership globale dell’intero Paese.

Per attraversare questa nuova frontiera, che sta al centro del secondo mandato, il presidente Obama è salito sull’autobus e sta attraversando New York e la Pennsylvania. Parla ai giovani, che hanno fatto la differenza nelle elezioni dell’anno scorso, e alle loro famiglie, nella speranza di riportare su il gradimento nei sondaggi. Parla alla classe media, su cui si fonda la ripresa economica, e la possibilità di mettere in un angolo l’opposizione repubblicana che blocca ogni iniziativa alla Camera.

Camicia aperta, pantaloni kaki da gita al mare con le figlie, Obama ha cominciato la sua campagna alla University at Buffalo. L’ha introdotto Silvana, una ragazzina appena arrivata al college, che ieri stava montando il futon nella sua stanza, e oggi ha presentato l’uomo più potente del pianeta: «Il mio futuro, e quello del Paese, dipende dalle possibilità che avrò di imparare».

Il presidente ha sottolineato i 7,3 milioni di posti di lavoro creati negli ultimi 41 mesi, i timidi segnali di crescita che si vanno consolidando. Però ha ammesso che non basta. La classe media continua ad annaspare, e uno dei primi passi da compiere per aiutarla è abbassare i costi delle università e migliorare la loro qualità, perché così da una parte le famiglie risparmiano soldi che possono spendere in altri modi, e dall’altra i loro figli si costruiscono una vita in cui potranno competere contro la concorrenza internazionale. «Non ci sono molte cose più importanti dell’istruzione, per l’idea della mobilità economica. Un’educazione superiore è il miglior investimento che potete fare per il vostro futuro».

Il problema è rendere questo investimento possibile per tutti. Quando la settimana prossima Obama celebrerà il cinquantesimo anniversario della Marcia di Martin Luther King, dirà che la parità delle opportunità economiche è il nuovo diritto civile più importante, ma oggi è quasi impossibile realizzarlo: «Io ho finito di ripagare i debiti per la mia università quando sono diventato senatore, a un’età in cui invece avrei dovuto mettere da parte i soldi per il college delle mie figlie».

I numeri gli danno ragione. Il costo medio di una università privata negli Usa è 24.000 dollari all’anno, ma le migliori accademie del’Ivy League superano i 50.000, mentre gli istituti pubblici costano 12.000 dollari. Quando arriva alla laurea, ogni studente americano ha in media 26.000 dollari di debiti per ripagare i prestiti ricevuti: comincia la vita lavorativa con una palla al piede. Il sistema non funziona neppure per lo stato che presta i soldi, perché il debito totale nazionale non restituito dagli ex studenti ammonta a un trilione di dollari, e Washington ormai non spera più di rivedere la maggior parte di questi soldi. I costi, poi, sono anche un freno per le iscrizioni. È vero, infatti, che dal 2000 al 2010 sono aumentate del 37%, arrivando a un totale di 21 milioni di studenti universitari, ma gli americani fra 18 e 24 anni d’età sono saliti a quasi 31 milioni, e quindi ci sono ancora dieci milioni che rinunciano all’istruzione.

Obama pensa che sia un disastro per i giovani, e un’ipoteca sul futuro degli Usa, rispetto ai Paesi che investono e facilitano l’accesso all’istruzione superiore. Quindi ha proposto un piano in tre punti, per rovesciare la situazione: finanziare le università in base alla performance; promuovere innovazione e competizione, assicurare che il debito degli studenti rimanga sostenibile. Il primo punto richiede la creazione di una graduatoria delle università sulla base di quanto imparano gli studenti, e quanto accessibili sono i costi, per finanziarle in relazione a quanto riducono i prezzi. Il secondo prevede investimenti nella tecnologia, e lo sviluppo dei corsi via internet che insegnano allo stesso livello degli altri, ma costano un decimo. Il terzo vuole un sistema in cui gli studenti, dopo la laurea, non pagano più del 10% dei loro stipendi per ripianare il debito. Riuscirà a convincere il Congresso? «Questa è l’unica strada per garantire che chiunque lavora sodo, ce la può fare. Questa è l’America».

La Stampa 23.08.13