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“L’integrazione che serve all’Italia”, di Giovanna Zincone

L’incessante mancanza di rispetto che investe la Ministra Kyenge non nuoce solo a lei. Il dileggio e il disprezzo che piovono dall’alto – da importanti cariche dello Stato, da leader politici, compreso il pugnace Bossi, da accademici ed editorialisti – legittimano l’insulto stradale, l’aggressione spicciola. Espongono a un maggior rischio non solo le persone di origine immigrata che vivono in Italia, ma anche chi si trova nel nostro Paese come turista o come uomo d’affari straniero, se gli capita di avere una fisionomia poco europea. E questo ovviamente nuoce all’Italia, alla sua immagine internazionale, ai suoi rapporti commerciali, al suo turismo.

Una commessa italiana di Zurigo che ha fatto notare alla supermiliardaria conduttrice nera Oprah Winfrey quanto il costo di una borsetta (27.000 euro, sic!) potesse risultare eccessivo per le sue tasche è finita in prima pagina; ma forse l’accorta commessa avrebbe messo in guardia qualunque signora priva di patenti indicatori di esagerata ricchezza. Chi dice a Kyenge che non può fare la Ministra, invece, lo dice proprio perché non vuole accettare in quella posizione una donna di colore. Dietro questo indecoroso rigetto individuale c’è un più ampio e pericoloso rigetto. C’è un rifiuto del presente destinato a produrre seri problemi nel futuro.

La popolazione del presente italiano, che piaccia o meno, è fatta anche di immigrazione e di post-immigrazione. Gli stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2013 erano 4.387.721, il 7,8% della popolazione, e tra questi non si computano gli individui che, pur essendo di origine straniera, come Kyenge o la sua ex collega Idem, sono diventati cittadini italiani: nel solo 2012 sono stati più di 65.000. I residenti stranieri aumentano: solo nell’ultimo anno di 334.000 unità, 8,2% in più rispetto all’anno precedente. E intorno a queste cifre, con varie oscillazioni, si sono assestati gli aumenti degli ultimi anni, anche se dobbiamo aspettarci nel breve termine un rallentamento legato alla crisi economica. Considerare l’immigrazione un fenomeno reversibile significa negare l’evidenza, affrontarlo a suon di insulti per incassare qualche voto è un atto di consapevole irresponsabilità. Anche se nel nostro Paese di atti di irresponsabilità politica se ne commettono in buon numero, non è un buon motivo per insistere. Partiamo dalla constatazione che la popolazione italiana futura sarà composta sempre più da individui e famiglie di provenienze nazionali e di etnie diverse. Occorre gestire questa potente trasformazione sociale con la prudenza che merita. Non è facile, perché le manifestazioni di insofferenza dimostrano che non si tratta solo di integrare gli immigrati, ma che si deve pure integrare quella parte non piccola di italiani che non accetta di vivere in un paese di immigrazione.

Chi oggi non vuole cambiare la legge sulla cittadinanza, chi rifiuta forme moderate di ius soli, manifesta un più ampio rifiuto dell’immigrazione e dei suoi figli. Nel 2012 sono nati 80.000 bambini stranieri, ed è bene essere consapevoli che la stragrande maggioranza di loro resterà a vivere in Italia: farli diventare italiani prima dei 18 anni è solo ragionevole. Tuttavia, anche chi accetta l’immigrazione e vuole giustamente cambiare la legge sulla cittadinanza in senso più liberale, deve tener conto della realtà dei fenomeni migratori, dei loro aspetti presenti e delle probabili evoluzioni future. È bene non ripetere l’errore fatto con la riforma della cittadinanza del 1992, che guardava al passato: tutta rivolta a premiare i discendenti degli emigrati italiani all’estero, quando l’Italia era diventata più destinazione che fonte di emigrazione.

Il grosso delle proposte in discussione mira a favorire i bambini nati e istruiti in Italia, e a ridurre i tempi di residenza richiesti agli adulti per fare domanda di naturalizzazione (ora sono tra i più lunghi d’Europa). Si tratta di proposte che circolano dalla fine degli anni Novanta: vanno benissimo ma hanno bisogno di una bella rinfrescata. È vero che il grosso degli immigrati è qui per restare, ma non tutti lo fanno o lo faranno. Gli stranieri (anche una volta naturalizzati) possono decidere di spostarsi in un altro Paese, o tornare in patria. Nel 2012 hanno lasciato l’Italia almeno 38.000 immigrati (probabilmente molti di più, visto che non tutti si cancellano all’anagrafe). Non sappiamo, invece, se e quanti «nuovi cittadini», immigrati naturalizzati italiani, abbiano lasciato il Paese. Chiediamoci se non sia il caso di individuare le condizioni in base alle quali si trasmette la cittadinanza da parte di naturalizzati che rientrano nella patria di origine o vanno altrove (e, in parallelo, ragionare sui requisiti da richiedere ai discendenti di emigrati italiani per ereditare la cittadinanza risiedendo all’estero). Insomma, occorre ideare una riforma della cittadinanza che tenga conto della mobilità.

Il vecchio accordo italo-argentino del 1971 prevedeva che, a turno, la cittadinanza del Paese in cui non si risiedeva fosse «messa in sonno»: non era una cattiva soluzione. Invece, con la riforma costituzionale del 2001 abbiamo assegnato ai discendenti di emigrati italiani che magari non hanno mai visitato il nostro Paese il diritto di eleggere propri rappresentanti sulla base di stravaganti macro-circoscrizioni, e sappiamo quanti pasticci ne siano nati.

D’altra parte, occorre regolare il pur auspicabile incremento delle carriere politiche dei «nuovi cittadini». Si vuole chiedere un supplemento di anni di residenza, dopo la naturalizzazione, per accedere alle massime cariche pubbliche? Si vuole riservare la carica più alta, quella della Presidenza della Repubblica, ai nati in Italia, come avviene negli Usa? Si vuole chiedere a chi viene eletto in Parlamento, o nei consigli regionali, di rinunciare alla cittadinanza del Paese di origine? Sono domande legittime, che non implicano necessariamente risposte affermative, ma richiedono una riflessione, specie in un contesto di crescente mobilità. Non vorrei, però, che la complessa questione dell’integrazione si avvitasse intorno al tema della cittadinanza e dei diritti politici. Abbiamo assistito a fallimenti nei percorsi di integrazione anche in Paesi a cittadinanza facile, come la Francia o la Gran Bretagna. Purtroppo non esistono ricette facili per integrare. C’è, però, una ricetta facile per sabotare l’integrazione e aumentare conflitti interetnici: esibire disprezzo culturale nei confronti degli immigrati. Se al rispetto umano non ci spinge un’auspicabile sensibilità, ci spinga almeno il calcolo razionale dei danni che fomentare i conflitti comporta.

La Stampa 13.08.13

“Non basta un decreto”, di Michela Marzano

Il corpo di Lucia Bellucci è stato trovato chiuso nell’auto dell’ex fidanzato. L’ennesimo cadavere. L’ennesimo femminicidio. Un’ennesima tragedia che — come si dice sempre dopo — forse si poteva evitare. Dopo, sì. Se Lucia avesse denunciato l’ex compagno. Se la sua denuncia per stalking fosse stata ascoltata davvero. Se, soprattutto, le vittime fossero realmente protette. Ma le loro storie, così diverse, hanno spesso una solitudine in comune. Cristina Biagi, uccisa a Massa dall’ex marito il 28 luglio scorso, aveva sporto denuncia per stalking. Esattamente come Erika Ciurlo, assassinata a Taurisano il 29 luglio. L’aveva fatto anche Tiziana Rizzi, accoltellata in provincia di Pavia l’8 luglio e Marta Forlan, uccisa con diversi colpi di arma da fuoco in provincia di Cuneo. Sono donne e ragazze che, anche dopo aver denunciato i propri mariti, compagni, amanti ed ex, continuano a morire non solo a causa della gelosia, della smania di possesso e della violenza insopportabile degli uomini, ma anche per colpa della mentalità e dell’inefficienza di un paese che non riesce ancora a trovare un modo per ascoltarle, aiutarle e proteggerle. Ormai è quasi ogni due giorni che, in Italia, si registra un femminicidio: sono 78 dall’inizio dell’anno. Nonostante le denunce. Nonostante la legge contro lo stalking in vigore dal 2009 e tutte le altre misure recentemente adottate.
Certo, l’8 agosto, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto che riguarda proprio la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Certo, questo nuovo decreto, che la Presidente della Camera ha annunciato di voler incardinare in Aula tra il 19 e il 20 agosto, prevede querele irrevocabili nei confronti degli uomini violenti, arresti obbligatori per maltrattamento e stalking, molteplici aggravanti nei confronti dei coniugi e compagni, processi più rapidi verso i presunti colpevoli. Ma si può anche solo immaginare che la repressione possa permettere di risolvere questa piaga contemporanea? Non è solo con un decreto che si possono proteggere veramente le vittime della violenza maschile e prevenire tragedie come quelle cui si sta assistendo impotenti da ormai troppo tempo.
Il dramma delle violenze contro le donne è sintomatico
di una società che ha ormai perso tutta una
serie di parametri di riferimento. Non è solo una questione di ignoranza e di non-rispetto delle regole della civiltà. È anche e soprattutto un problema di immaturità e di narcisismo. Sono troppi coloro che, insicuri e forse bisognosi di affetto, considerano come un proprio diritto impossessarsi dell’altro e di trasformarlo in un oggetto. Sono troppi coloro che, respinti e allontanati, vivono il rigetto con rancore e risentimento, come se il semplice “no” di una donna li svuotasse di senso. Ecco perché non si tratta di un problema solo legato al tradizionalismo maschilista del passato, ma anche alla fragilità identitaria dell’uomo contemporaneo. Al giorno d’oggi, gli uomini violenti appartengono a qualunque classe sociale e ceto, e alcuni sono anche celebri professionisti. Non conta né il rango sociale, né la situazione economica. Conta la loro incapacità di sopportare la perdita, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità. Il dramma della violenza non lo si può solo combattere con il rigore delle leggi — anche se le denunce per stalking dovrebbero implicare una reale protezione delle vittime, impedendo per esempio il contatto con gli uomini che le hanno minacciate. Non ci si può solo limitare ad annunciare pene più severe, perché nonostante il carattere dissuasivo delle pene non è mai la legge che ha potuto impedire l’esistenza di crimini e delitti. Per contrastare le violenze contro le donne, c’è bisogno di ripensare anche le relazioni umane.
La violenza non la si può eliminare del tutto. Ma la si può e la si deve contenere. E per farlo, la chiave è e sarà sempre l’educazione. Per far capire a tutti e tutte, fin da piccoli, che il proprio valore è intrinseco e non strumentale; che ogni persona, a differenza delle cose che hanno un prezzo, non ha mai un prezzo ma una dignità; che la dignità non dipende da quello che gli altri pensano di noi, da quello che gli altri ci dicono o meno, da quello che gli altri ci fanno. Non si può combattere la violenza se non si educano le donne alla consapevolezza del proprio valore e della propria libertà. Esattamente come non si può combattere la violenza se non si educano gli uomini alla consapevolezza del valore e della libertà altrui.

La Repubblica 13.08.13

“C’è la crisi all’università vanno solo i primogeniti”, di Alessia Camplone

Nel conto che la crisi presenta alle famiglie c’è anche la difficoltà a sostenere i costi dello studio: sono sempre di più i genitori costretti a scegliere di mandare all’università solo il figlio più grande, quello che “arriva prima”.

ROMA Come nelle dinastie nobiliari. Un’università per i primogeniti. Nel conto che la crisi presenta alle famiglie c’è anche la difficoltà a sostenere i costi dello studio: sono sempre di più i genitori costretti a scegliere di mandare all’università solo il figlio più grande, quello che “arriva prima”. Una scelta che nasce dalla necessità, e che finisce con il penalizzare chi non è nato nel momento giusto. «I secondi e terzi figli – avverte Gianmaria Palmieri, neo rettore dell’ateneo del Molise – arrivano alla maturità ovviamente dopo i primi. Ma purtroppo, in questo periodo di crisi, tante famiglie sono costrette
a rinunciare alle loro aspirazioni». E’ anche per questo che diminuiscono le matricole. Negli ultimi tre anni il calo è stato di 30mila iscrizioni. In Europa l’Italia è al quart’ultimo posto, con 3.302 iscritti ogni 100mila abitanti. «E’ un fenomeno che si è accentuato in questi ultimi due anni – denuncia Luigi Frati, rettore della Sapienza, di Roma –. I genitori con più di un figlio sono in difficoltà nel farli studiare. Così succede che i primogeniti vanno all’università ma i secondi e terzi no. Il rischio è di perdere intelligenze».

LE TASSE
Un fenomeno contro il quale le università si stanno organizzando. La Sapienza già dallo scorso anno ha ridotto del 30% le tasse per i genitori che iscrivono più figli e ha in progetto di abbatterle fino al 50%. Secondo i dati Ocse diffusi a fine giugno, i laureati italiani sono il 15% della popolazione tra i 25 e i 64 anni, contro una media europea del 32. Nel 2006 i diplomati che in Italia si iscrivevano all’università erano 56 su cento. Nel 2011 sono scesi a 48. Oltre alla crisi, pesano i forti aumenti delle tasse universitarie, cresciute in media del 50% in 8 anni. Ora molti atenei si stanno dando un freno. «Noi ci siamo fermati con gli aumenti, anche per i fuoricorso. Gli studenti hanno sempre più difficoltà ad iscriversi. E aumentano le famiglie che ci chiedono di poter posticipare le rate delle tasse – osserva con amarezza Carmine Di Ilio, rettore della D’Annunzio di Chieti -. Cerchiamo di andare incontro a tutti e stiamo ristudiando i meccanismi di esenzione». Tasse ferme da due anni anche a Macerata. «Sono sempre di più le famiglie che non riescono a pagare le rate successive all’iscrizione – conferma il rettore Luigi Lacchè – e molti ci chiedono una dilazione».

LE RISORSE
In Italia scarseggiano le risorse. “Idoneo non beneficiario” è lo studente che pur avendo diritto ad una borsa di studio non la riceve. Si tratta di circa 45mila ragazzi. Un diritto mancato che ci allontana dal resto d’Europa. Solo un universitario su 14 (circa il 7%) ottiene da noi una borsa di studio. In Francia i giovani aiutati economicamente sono 1 su 4. Quasi 1 su 3 in Germania.
Flavio Corradini, rettore di Camerino, ha promesso l’esenzione dalle tasse per i ragazzi, con un voto di diploma da 90 in su, e che hanno un genitore in difficoltà con il lavoro. «Per noi è un sacrificio enorme. Ma il mancato introito deve essere visto come un investimento – sostiene -. L’università ha un ruolo di ascensore sociale. Non possiamo permetterci un vuoto in cui non formiamo intere generazioni». E alla Sapienza una borsa di studio si ottiene pure lavorando presso l’università, ad esempio gestendo i libri della biblioteca: l’emergenza si affronta anche con la fantasia.

da Il Messaggero

“Dalla ripresina possono uscire due Italie”, di Carlo Buttaroni

I primi segni di crescita vanno governati da una politica forte, per frenare le differenze. La svolta potrebbe allargare la forbice tra il Nord industriale e innovativo e il Sud, bloccato da investimenti insufficienti

Mentre la crisi politica è tornata ad avvitarsi su se stessa, sul fronte economico si è registrata una piccola schiarita, confermando le stime preliminari che avevano previsto un lieve miglioramento dal secondo trimestre di quest’anno. È troppo presto per dire che siamo fuori dal tunnel, perché sono migliorati soltanto alcuni indicatori e, nel complesso, il sistema economico del Paese continua a mostrare segni di grande difficoltà e ampie aree di disagio. Se non si può affermare che il peggio sia ormai alle spalle, è certo, invece, che bisognerebbe cogliere quest’opportunità senza incertezze, mettendo in campo politiche economiche che facciano leva proprio sul miglioramento di taluni parametri. Ma per farlo occorre un sistema politico forte, in grado di sostenere un’azione di governo incisiva, soprattutto agendo sugli elementi di maggiore fragilità del nostro sistema economico. Debolezze che rischiano, in un quadro più generale, di vanificare, o perlomeno indebolire, i miglioramenti registrati in alcuni ambiti. Servirebbe, per esempio, una riqualificazione della spesa pubblica, in modo da liberare risorse per ridurre la pressione fiscale sulle aziende e incoraggiare le assunzioni attraverso una sostanziale riduzione degli oneri sul costo del lavoro. Occorrono politiche dei redditi per dare ristoro alle famiglie e investimenti che riducano le aree del disagio e siano da stimolo alla domanda aggregata su tutto il territorio. Senza questi interventi non ci sarà una ripresa dell’intero sistema ma una “ripresina” debole e circoscritta ad alcuni ambiti e che, se non governata, rischierà di accentuare le fratture e le disuguaglianze sociali dando forma a una divisione in due dell’Italia: una di seria A dove l’uscita dalla crisi avverrà più rapidamente, e una di serie B dove la ripresa tarderà ad arrivare, con effetti pesantissimi sulla tenuta dell’intero “sistema Paese”. Quanto sia alto questo rischio lo conferma il fatto che, nonostante il miglioramento di alcuni parametri macroeconomici, l’occupazione continua a calare e le previsioni stimano che l’onda d’urto della crisi continuerà a farsi sentire ancora a lungo frenando, inevitabilmente, la ripresa. Quello che dobbiamo attenderci è un miglioramento di alcuni indicatori economici (soprattutto in alcune aree geografiche come il nord e centronord) ma un peggioramento del tasso di occupazione (soprattutto nel Mezzogiorno) o perlomeno una sua sostanziale stabilità sui livelli attuali. È del tutto evidente che, se non cresce la massa di occupati e non si ricostruisce un ceto medio corposo, il Paese troverà con sempre maggiore difficoltà le risorse per finanziarsi e fare quegli investimenti che servono a stimolare la ripresa. Oltretutto, le “due Italie”, avrebbero tra le proprie fila rispettivamente masse di occupati e di disoccupati, accentuando le differenze e le disuguaglianze sociali e territoriali. Il problema “occupazione” rappresenta, quindi, quello che presenta i maggiori rischi, molto più del debito pubblico. D’altronde, un’economia che soffre di un’insufficiente domanda aggregata ha bisogno di misure politiche per aumentare l’occupazione e i redditi attraverso azioni coordinate in modo da trasformare la spirale negativa, nella quale la disoccupazione e la stagnazione del reddito riducono la domanda e scoraggiano gli investimenti, in un volano positivo che stimoli la crescita. Se è vero che le previsioni per tutta l’Europa lasciano pensare che la ripresa, nell’immediato, non si accompagnerà a una sostanziale diminuzione del tasso di disoccupazione, ciò non deve farci adagiare sul “anche negli altri paesi è così”, perché in Italia questa dinamica sta assumendo una dimensione endemica. Situazione per noi ulteriormente aggravata dal particolare tessuto imprenditoriale del nostro Paese, caratterizzato da un tessuto di imprese piccole e spesso piccolissime, che se in passato, in un quadro economico eccellente prova di se, ora soffrono la durata della crisi e non hanno più mezzi per andare avanti. La scarsa capitalizzazione del sistema imprenditoriale non consente, infatti, di sostenere a lungo gli shock economici, soprattutto quando questi sono accompagnati da poca (o nessuna) assistenza da parte del sistema creditizio. A pagarne il prezzo è il mondo del lavoro. Oltretutto, la dimensione medio- piccola delle imprese italiane, per diventare un driver dell’occupazione ha bisogno di un contesto favorevole dal punto di vista finanziario e giuridico. E nel nostro Paese sono venuti progressivamente a mancare sia l’uno che l’altro. Se i livelli di occupazione si sono mantenuti su livelli elevati, è grazie soprattutto alla nascita di nuove imprese del settore dei servizi. Il tema dell’occupazione soffre anche di un limite che si può definire di approccio. È, infatti, interpretato quasi esclusivamente dal punto di vista dell’offerta in relazione alla necessità di mantenere la competitività nel contesto della ripresa. Ciò è certamente importante, ma i problemi che l’Italia si trova ad affrontare si trovano anche sul versante della domanda. Per questo è altrettanto importante allineare alla crescita dell’occupazione l’evoluzione dei salari alle variazioni della produttività. Se permettere ai salari di crescere più velocemente rispetto alla produttività genera il rischio di perdite di competitività e conseguenti aggiustamenti gravosi, allo stesso modo una politica di compressione dei salari finalizzata all’aumento della competitività implica dei costi in termini di livelli più bassi di domanda effettiva e una variazione negativa delle quote salariali, con costi sociali particolarmente elevati. Porre al centro delle politiche economiche l’occupazione significa quindi incrociare anche il tema dei redditi, delle protezioni sociali e della riduzione delle disuguaglianze. Per questo è possibile uscire realmente dalla crisi soltanto percorrendo un cammino di riforme, fondato sul riconoscimento del valore del lavoro, dell’impresa e del sistema del welfare nell’economia del sistema Paese. Bisogna, cioè, superare la logica quantitativa della produzione, usando criteri di valutazione innovativi: non investire per produrre di più, ma per produrre meglio, riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza con cui si usano le materie prime, a cominciare dall’energia. C’è bisogno di “piani casa” per recuperare gli edifici già costruiti, anziché costruirne di nuovi; c’è bisogno di infrastrutture sociali, più scuole, più trasporti pubblici; di alimentare un’economia di prossimità e di filiere corte. Bisogna spostare il peso degli equilibri sociali dal mondo della produzione a quello del lavoro. Occorre assumere la salvaguardia e la qualificazione del Welfare come fattore di sviluppo e indicatore di qualità dello stesso, ridisegnando un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. In buona sostanza, il nostro benessere e quello delle generazioni che verranno dipende dal modo nel quale riusciremo a uscire da questa crisi epocale.

da L’Unità

“Imprese più grandi e ricerca Così l’Italia tornerà a crescere”, di Enrico Moretti *

Occorre un nuovo modello economico: il nanismo delle nostre aziende frena gli investimenti in innovazione e impedisce la creazione di posti di lavoro

Da ormai un paio d’anni, il dibattito in Italia è incentrato su occupazione e crescita economica. Sia a destra che a sinistra ci si interroga con urgenza crescente su come uscire dalla crisi. L’errore di fondo che accomuna gran parte degli interventi in questo dibattito è pensare all’Italia come ad un malato con una malattia sì acuta, ma passeggera. Si crede che l’Italia stia soffrendo un problema ciclico di breve periodo, indotto in buona parte dalla recessione mondiale degli ultimi anni.

Pensare ai problemi dell’Italia come legati ad un problema transitorio legato alla recessione è un errore grave, perché spinge il governo e le forze politiche a pensare alla politica economica in termini di stimolo di breve periodo: interventi piccoli, disegnati per ridare fiato all’economia per sei mesi o un anno. La realtà è purtroppo molto più grave: i problemi economici italiani sono strutturali e stanno decimando le capacità economiche del paese da decenni.
Da sempre i cicli di recessione ed espansione economica determinano il numero dei posti di lavoro e i salari, e in questo senso gli anni dal 2010 a oggi sono stati particolarmente duri. Ma recessioni ed espansioni sono tuttavia fenomeni di breve periodo. Ben più importanti sono le tendenze di lungo periodo, perché sono quelle che determinano il nostro tenore di vita in maniera molto più profonda e duratura.

La bassa crescita
Il Pil italiano è aumentato del 55,7% negli anni Sessanta, del 45,2% negli anni Settanta, del 26,9% negli Ottanta, del 17% nei Novanta e del 2,5% nel decennio 2000-2010. Negli ultimi 3 anni è addirittura diminuito. Questo dinamica non ha paragoni negli altri paesi occidentali. Siamo un paese in declino, e questo declino sta andando avanti da decenni. L’unica differenza degli ultimi anni è che il declino è accelerato. La bassa crescita che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi tre decenni, e lo stato anemico del mercato del lavoro hanno sicuramente numerose e complesse cause. È indubbio però che una delle ragioni chiave della debole domanda che ormai caratterizza il mercato del lavoro italiano in maniera strutturale è il risultato di un panorama industriale vecchio, che mal si addice alla nuova economia dell’innovazione. Produciamo beni e servizi troppo poco innovativi, la cui domanda mondiale è sempre più debole – perché sempre di più i consumatori vogliono prodotti innovativi e la cui offerta mondiale è sempre più forte – perché ci sono sempre più paesi in via di sviluppo in grado di farci concorrenza nei settori tradizionali.

La sfida dell’innovazione
L’Italia non è l’unico paese ad affrontare queste sfide. In tutti i paesi occidentali il mercato del lavoro sta conoscendo mutamenti profondi. Il progresso tecnologico e la globalizzazione stanno riconfigurando la tipologia di beni che sono prodotti oggi, la modalità, e soprattutto la località, in cui vengono prodotti. In passato i buoni impieghi e i salari elevati erano legati alla fabbricazione su larga scala di prodotti manifatturieri. Il posto in cui si creava il valore economico era la fabbrica. Oggi però la realizzazione di beni che chiunque è in grado di riprodurre ha conservato poco valore.
Come abbiamo visto nei due articoli precedenti (“Così America ed Europa dicono addio alle fabbriche” e “L’America riparte da Internet. Le città hi-tech creano più lavoro“), produrre oggetti fisici come vestiti, telefoni o mobili non genera più molto valore aggiunto, e ancor meno posti di lavoro. La concorrenza globale è altissima, e questo implica margini molto bassi. In più, nuovi macchinari e nuove tecnologie permettono di produrre sempre di più usando sempre meno lavoratori. I dati parlano chiaro: l’occupazione nell’industria sta calando da decenni in tutti i paesi occidentali. Negli Stati Uniti la percentuale di occupati sul totale della forza lavoro si è quasi dimezzata. Lo stesso vale per Italia, Gran Bretagna, Giappone e persino per la Germania. Ma se questi trend nell’industria sono comuni a tutti i paesi sviluppati, non tutti hanno reagito nella stessa maniera. Mentre gli Stati Uniti hanno completamente riorientato il proprio panorama produttivo verso il settore dell’innovazione, molti paesi europei, ed in particolare l’Italia non si sono adeguati e sono mal preparati alla nuova economia globale.
Nei prossimi decenni la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. I buoni lavori e i buoni salari sono sempre più connessi alla produzione di nuove idee, nuovo sapere e nuove tecnologie. L’agglomerazione geografica delle industrie nuove e del capitale umano in poche regioni chiave sarà sempre più marcata. Il numero e la forza degli hub dell’innovazione di un Paese ne decreteranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città con un’alta percentuale di lavoratori a scolarità elevata diventeranno le nuove fabbriche, centri per la produzione di idee, sapere e valore.
Negli anni a venire, le regioni del Vecchio continente che riusciranno ad attrarre innovazione e capitale umano saranno quelle vincenti, proprio come sta già succedendo in America per gli hub dell’innovazione. Le regioni d’Europa che non riusciranno ad attrarre innovazione e capitale umano saranno destinate a un inevitabile declino, proprio come sta già avvenendo per la terza America, quella degli ex centri industriali in crisi.

Nanismo e poca innovazione
In questo quadro, l’Italia ha accumulato un ritardo enorme, causato da due debolezze strutturali della sua economia. In un mondo in cui l’investimento e le industrie ad alto valore aggiunto continuano ad accentrarsi geograficamente, l’Italia rischia di diventare per l’Europa quello che la terza America è per gli Stati Uniti, ovvero un insieme di città e distretti industriali in declino lento ma irreversibile. Il primo dei problemi di fondo è che, da sempre, le imprese italiane investono poco in ricerca e sviluppo, e questo le rende deboli oggi, ma ancora di più in futuro. L’aumento annuo della produttività, uno degli indicatori chiave del tasso di innovazione del paese, è precipitato dal 2,8% negli anni Settanta a zero nel passato decennio.
Parte della scarsa propensione delle imprese italiane a investire in innovazione riflette aspetti culturali. In buona parte, però, riflette scelte politiche sbagliate, e in particolare un sistema di incentivi che penalizza la crescita e l’investimento nell’innovazione.

Il nodo tasse-lavoro
Le imprese italiane subiscono una pressione fiscale altissima, e una serie di vincoli nel mercato del lavoro asfissianti. Questa pressione e questi vincoli sono, di fatto (se non di diritto), tanto più alti quanto più grandi sono le imprese. Migliaia di piccole imprese di successo rinunciano o ritardano ad ampliarsi perché ciò significherebbe maggiore pressione fiscale e vincoli più stringenti. Questo chiaramente scoraggia la crescita occupazionale e crea un panorama industriale fatto di una moltitudine di imprese familiari con pochi dipendenti, e di un numero modesto di imprese con dimensioni e ambizioni globali.

La manifattura non basta più
Se la diffusione di imprese familiari era uno dei punti di forza del sistema produttivo italiano negli anni Cinquanta e Sessanta, quando la manifattura tradizionale rappresentava l’industria trainante, è diventato un punto di debolezza nel nuovo millennio, quando l’industria tradizionale è in declino e le occupazioni del futuro sono quelle ad alto contenuto di capitale umano e di innovazione. La ragione è molto semplice: l’investimento in ricerca e sviluppo è un costo fisso, e quindi ha senso per imprese grandi ma non per imprese piccole. Che un’impresa venda un’unità del prodotto o un milione, il costo dell’investimento in nuovi brevetti, nuove tecnologie o nuovi prodotti, è lo stesso, mentre il beneficio è ovviamente maggiore quanto maggiore è la dimensione dell’impresa. Il nanismo delle imprese italiane e la loro scarsa propensione all’innovazione rappresentano un costo per il paese in termini di mancati posti di lavoro. Se il panorama produttivo italiano non cambierà in maniera profonda, questa debolezza strutturale del sistema produttivo porterà a un declino inarrestabile nei decenni futuri.

La posizione periferica
Un secondo problema strutturale dell’Italia è che ha una posizione sempre più periferica in gran parte dei settori nuovi, sia dal punto di vista culturale, che istituzionale che logistico. Nella nuova economia della conoscenza, le capitali dell’innovazione tendono a diventare sempre più forti e la periferia sempre più debole. Questo accentramento geografico dell’attività innovativa è una dinamica sempre più importante nei settori caratterizzati da alta creatività e innovazione. Questa dinamica presenta un problema fondamentale per l’Italia, perché significa che non avere industrie innovative oggi renderà ancora più difficile attirare industrie innovative in futuro.

Il crollo del distretto hi-tech
Si consideri, per esempio, la scomparsa dal sistema italiano di due industrie chiave, quella del computer e quella della farmaceutica. Negli anni Ottanta, l’Italia aveva un inizio di industria del computer, in gran parte legata alla Olivetti. Intorno alla sede di Ivrea, si era creato un piccolo distretto dell’informatica, con alcune startup del software e dell’hardware, per lo più focalizzate sul mercato nazionale. Purtroppo il distretto si è rivelato troppo piccolo per competere su scala globale, ed è stato completamente spazzato via dai rivali americani e asiatici più grandi e innovativi. Oggi la quasi totalità di computer, tablet, console per giochi elettronici, cellulari, smartphone, software e servizi internet usati in Italia sono progettati e realizzati altrove.

La chiusura dei laboratori
Una dinamica ancora più dolorosa ha caratterizzato la storia dell’industria farmaceutica. Negli anni Settanta e Ottanta, questa contava al suo interno alcune realtà dinamiche e innovative, capaci di generare brevetti con potenzialità commerciali di respiro globale. Ciò si traduceva in decine di migliaia di posti di lavoro, ottimi salari e un indotto di notevoli proporzioni. Però negli anni Novanta, in un processo di riorganizzazione e accentramento della ricerca a livello mondiale, la quasi totalità dei laboratori di ricerca italiani è stato chiuso, e le loro attività sono state accentrate in posti come il New Jersey o la Svizzera, che già avevano numerosi altri laboratori e un ecosistema innovativo più ampio. Il panorama della ricerca italiana fu considerato troppo periferico per meritare gli enormi investimenti in ricerca e sviluppo di un’industria che diventava sempre più globale.

L’effetto sull’occupazione
Per l’Italia, la perdita pressoché totale dei settori del computer e della farmaceutica ha significato una perdita ingente in termini di occupazione presente e ancor più di occupazione futura perché, come vedremo, queste sono due tra le industrie più promettenti per i decenni a venire. Ma l’aspetto più preoccupante di questa perdita è ciò che essa significa per il futuro dell’intero paese, a prescindere da quelle due industrie specifiche.
Viviamo in un’economia globale in cui le città, regioni e nazioni con economie più forti si vanno rafforzando, mentre le città, regioni e nazioni con economie più deboli vanno indebolendosi. Nonostante il gran successo di formule come «annullamento delle distanze» o «mondo piatto», le industrie innovative sono sempre più concentrate geograficamente. La posizione nettamente periferica dell’Italia in gran parte dei settori nuovi non fa ben sperare per il futuro economico del Paese.

* Enrico Moretti, docente di Economia alla University of California di Berkeley, è autore di «La nuova geografia del lavoro»

da www.lastampa.it

“Conflitto d’interessi. Perché serve una «vera» legge”, di Stefano Passigli

Piaccia o non piaccia al Giornale, a Libero e a quanti nel Pdl tifano per un suo ingresso in politica, per Marina Berlusconi si pone lo stesso problema di conflitto di interessi che si è posto sin dal 1994 per il padre Silvio. E bene ha fatto l’Unità a ricordarlo.
Il tema del conflitto è stato sin dall’inizio affrontato sia in termini di «ineleggibilità» che in termini di «incompatibilità». Nel primo caso si è fatto riferimento alla legge del 1957.
In quella legge si dichiara ineleggibile il titolare di una concessione pubblica, quale è indubbiamente l’assegnazione di frequenze televisive. Laddove concessionario sia una persona giuridica, l’ineleggibilità colpisce il legale rappresentante della società: nel caso di Mediaset il suo presidente, ma non – secondo l’interpretazione datane in ben sei elezioni dalle giunte di Camera e Senato – Silvio Berlusconi, considerato con eccessiva indulgenza un «mero proprietario», estraneo alla gestione della società. Diverso è il caso di Marina Berlusconi: come presidente e legale rappresentante di Fininvest, società controllante Mediaset, ad essa si applicherebbe a mio avviso la Legge del 1957. È tuttavia ovvio che, qualora decidesse di entrare in politica, Marina abbandonerebbe le cariche sociali, riducendosi – si fa per dire – come
il padre allo stato di «mero proprietario». Tocchiamo qui il cuore del problema: se il mero proprietario,
ha grazie al suo pacchetto azionario il controllo della società e quindi il potere di nominarne gli organi deliberanti e il legale rappresentante, egli è in realtà il vero dominus della società cui applicare la legge.
In ogni caso, il vero tema sollevato dal conflitto di interessi non è tanto quello della «ineleggibilità» di un singolo parlamentare, quanto quello della «incompatibilità» tra cariche elettive o di governo e il controllo di imprese – come quelle dell’informazione e in particolare dei media televisivi – in grado di manipolare e alterare il libero formarsi del consenso politico, determinando così una grave distorsione della democrazia rappresentativa. È su questo tema che insiste la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale che sempre più tende a limitare la ineleggibilità a pochi casi specifici ampliando invece i confini della incompatibilità.
Prevenire e regolare il formarsi di conflitti di interessi, anche ponendo limiti alla libera iniziativa dei singoli, è dunque una corretta prassi seguita da tutte le grandi democrazie. Del tutto pretestuose sono perciò le critiche mosse in passato dal centrodestra e riprese oggi dai giornali di Berlusconi: la necessità di una adeguata legge sul conflitto di interessi nasce non dal desiderio di limitare l’agibilità politica di Silvio o Marina Berlusconi, ma dall’obbligo di favorire la libera formazione dell’opinione
pubblica garantendo così la sostanza stessa della democrazia rappresentativa.
Due, in particolare, sono le affermazioni fuorvianti della propaganda berlusconiana. Errata è innanzitutto l’affermazione che il centrosinistra non abbia tentato di approvare un’efficace legge sul conflitto: è indubbio infatti che nel 1996 solo la fine anticipata della legislatura bloccò alla Camera l’approvazione della mia proposta di legge già approvata dal Senato. Né va dimenticato che tra il 1998 e il 2001 fu l’ostruzionismo del centrodestra, che infondatamente accusava di incostituzionalità la legge, ad impedirne l’approvazione. Ancor più errata e fuorviante è infine l’affermazione che una buona legge sul conflitto ci sia già: la legge Frattini, infatti, non previene i conflitti potenziali che originano dal possesso di risorse o di uno status atti a determinarli, ma mira ad intervenire a posteriori solo sui casi già esplosi.
Due sono i limiti insormontabili di un simile approccio: la legge esamina solo i conflitti che nascono da decisioni assunte e non anche i casi in cui il conflitto risiede nella mancata assunzione di una decisione (ad esempio, nel non fissare limiti ragionevoli alla raccolta pubblicitaria della televisione commerciale); e infine la Frattini esenta tutti i casi in cui il conflitto interessa, non un singolo operatore ma una più ampia categoria di soggetti, e in cui non si è prodotto un danno erariale. Si tratta – è chiaro – di condizioni che rendono impossibile prevenire e perseguire correttamente il conflitto di interessi. Anziché colpire il conflitto di interessi di Berlusconi la legge Frattini è nata per scudarlo.
In conclusione, quali che siano il futuro di Silvio e le decisioni di Marina, una nuova legge sul conflitto è necessaria e urgente, non tanto per prevenire i conflitti di natura economica che possono essere ben regolati da un’efficace legge anti-corruzione, quanto per impedire che posizioni dominanti nell’informazione possano incidere sulla formazione della cultura politica e, alterando i meccanismi di formazione del consenso, mettere in pericolo la nostra democrazia.

da L’Unità

“Dove guarda l’Europa”; di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Con la globalizzazione sono apparse sulla scena mondiale nuove potenze economiche che stanno registrando tassi di crescita impressionanti: Cina, India, Brasile; e la Russia che è dotata di immense riserve energetiche. L’ascesa di questi paesi sta cambiando gli equilibri di potere poiché si sta accentuando il declino relativo delle economie ricche dei paesi occidentali segnate da una popolazione sempre più anziana e dalla minore possibilità di conseguire una crescita quantitativa paragonabile a quella dei paesi emergenti.
In questo scenario l’Europa si presenta disunita e afflitta da lotte intestine: i paesi “virtuosi” del Nord con in testa la Germania, lungi da impegnarsi nel sostegno delle economie del Sud in crisi, con l’effettuazione di politiche di risanamento dei bilanci pubblici ne stanno aggravando le difficoltà.
Eppure sarebbe quanto mai necessario avere un’Europa unita e solidale al suo interno, non solo per promuovere il miglioramento delle condizioni delle fasce sociali più deboli, ma anche per poter svolgere un
ruolo propulsivo sullo scenario globale. Un’Europa che miri ad aumentare il benessere delle popolazioni costituisce l’unica strada per scongiurare l’ascesa di movimenti antieuropeisti e nazionalisti. Inoltre, come ha invocato Papa Francesco nella sua visita a Lampedusa, il Vecchio Continente non deve più tollerare una “globalizzazione dell’indifferenza” nei confronti di profughi e dei disperati che per sopravvivere sono costretti a migrare rischiando la vita.
L’Africa rappresenta per l’Europa una grandissima opportunità sia per la vicinanza sia perché è il continente che è rimasto più indietro nel processo di sviluppo e proprio per questo possiede le più grandi potenzialità di crescita economica e sociale. Uno dei più grandi problemi dell’Africa è quello dell’acqua: la mancanza di acqua fa si che intere popolazioni siano ridotte al limite della sopravvivenza perché non possono sviluppare l’agricoltura e sono costrette a vivere in condizioni igienico-sanitarie disastrose. Ma per avere acqua serve energia, per questo grazie alle nuove tecnologie solari potrebbe essere lanciato un grande piano per portare energia nei villaggi più poveri del continente africano (solo il 20% della popolazione ha accesso all’elettricità). La disponibilità di energia può permettere di utilizzare l’acqua
e quindi può sostenere l’espansione dell’agricoltura e della produzione di generi alimentari. Energia, acqua e agricoltura rappresentano dunque i pilastri su cui l’Europa dovrebbe lanciare un grande “piano Marshall”, un piano che sia costituito non tanto da aiuti finanziari, ma da interventi diretti attraverso
la fornitura e l’installazione di nuove tecnologie energetiche e di tecnologie per l’estrazione e la distribuzione di acqua. Si tratta di un investimento di medio-lungo periodo (dell’arco di dieci o venti anni), il cui rimborso potrà essere ottenuto attraverso lo sviluppo che esso riuscirà a mettere in moto
nelle economie locali.
Negli ultimi trenta anni con i programmi di aggiustamento strutturale, la maggior parte degli stati africani è stata spinta a realizzare misure di privatizzazione e liberalizzazione del settore agricolo. Il settore agricolo è stato considerato un settore privato, alla stregua di qualunque altra attività economica, che non necessitava di alcun intervento pubblico. Ciò ha prodotto un contesto sfavorevole allo sviluppo dell’agricoltura ed ingenti danni alle economie dei paesi africani. Oggi la Banca Mondiale e la Commissione Europea riconoscono la necessità di un intervento pubblico, anche perché molti paesi in tutto il mondo intervengono attivamente a sostegno dell’agricoltura. A nostro giudizio l’intervento dell’Europa dovrebbe creare condizioni tali da permettere alle popolazioni locali di sfruttare l’agricoltura in misura ben più elevata di quanto avvenga oggi. E in una tale strategia l’offerta di energia e di acqua giocano un ruolo cruciale.
L’Europa ha di fronte a sé delle grandissime opportunità per promuovere sviluppo sia al suo interno sia sul piano internazionale, ma ciò può avvenire solo se il Vecchio Continente riuscirà a liberarsi dagli egoismi che lo stanno paralizzando e che ne stanno addirittura mettendo a rischio l’esistenza futura.

da La Repubblica